TITOLO ORIGINALE: Il ritorno di Casanova
USCITA ITALIA: 30 marzo 2023
REGIA: Gabriele Salvatores
SCENEGGIATURA: Gabriele Salvatores, Umberto Contarello, Sara Mosetti
GENERE: drammatico, storico
DURATA: 90 min
Presentato al Bari International Film Festival 2023
Dopo il polveroso Comedians, Gabriele Salvatores torna sul grande schermo con un film che è, al tempo stesso, adattamento del racconto di Arthur Schnitzler su un Giacomo Casanova invecchiato ed ormai decaduto, e omaggio felliniano al cinema e al suo legame inscindibile con l'esistenza, la geografia interna e la sanità di chi lo fa. Un doppio, se non triplo sogno (per citare sempre Schnitzler) che, nonostante i buoni propositi, si infrange e crolla fragorosamente nel modo in cui mette in scena, immagina, pensa e sviluppa queste intuizioni di base. Il risultato finale è un capriccioso, manieristico e didascalico frullato postmoderno ed ipercitazionista, che dice poco del modo d'intendere l'arte e il mestiere del regista di Salvatores e moltissimo dello stato di salute di certo cinema italiano.
Quello alla base de Il ritorno di Casanova, ultima fatica (la ventesima) del premio Oscar Gabriele Salvatores, è un doppio sogno, per citare il titolo di un altro romanzo di quel Arthur Schnitzler, al cui seminale ed omonimo racconto pseudo-psicologico e filologico sul tramonto e la decadenza del seduttore, amatore ed avventuriero per eccellenza si fa qui riferimento.
Innanzitutto, come ovvio che sia, il sogno di ritradurre per il grande schermo - dopo il tentativo di inizio anni ‘90 di Édouard Niermans, con un incanutito Alain Delon - lo scritto del succitato autore austriaco, prefiguratore e quasi inventore (specie attraverso uno stile moderno, disinvolto, fluviale, joyciano) delle teorie psicanalitiche di un certo Sigmund Freud, dove si va a raccontare l’ultima impresa di un Casanova intento ad ottenere il perdono dell’amata Venezia che lo aveva prima imprigionato e poi ripudiato.
Un uomo che vive essenzialmente all’ombra e nel ricordo di quello che è stato e, soprattutto, di quello che ha fatto; ormai invecchiato, imbruttito, ormai privo e depauperato di quel fascino e di quel carisma che lo hanno reso celebre, noto, talora famigerato, in tutta Europa. Il racconto del suo tentativo di far cadere tra le sue braccia l’imprendibile, libera, emancipata, arguta ed istruitissima Marcolina, dello scontro che ne consegue contro colui che è di fatto il suo doppio (di nuovo), un riflesso del sé giovane, ed infine, successivo al risultato di suddetto duello, della sua morte se non fisica, in termini simbolici, figurativi, finanche esistenziali.
Dall’altro lato, il secondo sogno riguarda invece un passaggio che pare più o meno obbligato per la maggior parte dei registi o, meglio, dei cosiddetti autori o pseudo-tali. Ossia fare il proprio 8½. Ergo mettere in scena il proprio rapporto e il proprio trascorso col cinema, con l’arte e, ancor più spesso, il mestiere di fare film, tracciando parallelismi e geografie semantiche tra realtà e finzione, tra vita vera e vita rappresentata (e montata!), e raccontando quella che, in fondo, è una dipendenza irrinunciabile a cui molti cineasti non trovano e non riescono a trovare rimedio.
Un’opera ed un appuntamento autoriale che può coincidere e tramutarsi nell’apice di una filmografia, o (il più delle volte) nel testamento, nella lettera d’addio, nell’epitaffio della propria carriera. Perché (ri)fare 8½ è difficile, pericoloso e problematico, non solo perché si va inevitabilmente incontro al paragone, al confronto e, di conseguenza, all’inferiorità rispetto al prodromo e alla matrice felliniani, ma anche e soprattutto proprio per questa saturazione, che sembra non volersi quietare affatto, di film-omaggio al cinema e all'esistenza attraverso il cinema - solo negli ultimi tempi, ne abbiamo visti una decina o poco meno.
Quello de Il ritorno di Casanova è più il secondo caso: quello del suicidio assistito di un regista che, già da una decina d’anni a questa parte, e progressivamente dopo la vittoria dell’Oscar, non sembra più avere niente di nuovo o interessante da aggiungere al proprio discorso filmico, ma cionondimeno sfrorna periodicamente prodotti medi, incompiuti o proprio irricevibili.
Morto un film, se ne fa un altro, si dice ad un certo punto ne Il ritorno di Casanova. Noi correggiamo leggermente la formula: prima di fare tre film in uno, sarebbe consigliabile fare un film (che sia uno) buono ed assennato. Perché sì, più che un doppio sogno quello di Salvatores è un triplo sogno, un film tripartito, che non nasconde, anzi sembra quasi sfoggiare, legittimarsi ed ergersi sulle spalle di una raffinata cultura cinefila e cinematografica, tra citazioni testuali, omaggi, riferimenti ed ispirazioni abbastanza spudorate e fin troppo pedisseque.
E dunque: il succitato recupero e riecheggio felliniano di 8½, ma pure de La dolce vita (nella spiaggia, nella voracità e presenza ingombrante dei paparazzi), di Ginger e Fred, del suo stesso Casanova (più eccessivo, incondizionato, sofisticato, già allora, nel 1976, più contemporaneo di quello di Salvatores). Oppure, gli svariati richiami più o meno esibiti a Kubrick (dalla scelta di Schnitzler, dal cui Doppio sogno questi trasse il suo irrequieto ed ultimo Eyes Wide Shut, alla fotografia naturalistica e pittorica di Barry Lyndon, fino ad arrivare ad un sottile citazione musicale ad Arancia meccanica). O ancora, le comiche tecnofobiche di Jacques Tati, la cui comicità muta e prettamente fisica informa quel film-nel-film-nel-film; quel terzo sogno che appare ciononostante del tutto slegato ed inserito fortuitamente rispetto al resto della pellicola e, in particolare, ai suoi interessi e discorsi. Che sono gli stessi su cui si fonda dapprincipio il racconto originale di Schnitzler, ossia l’inevitabile e beffardo passare del tempo, la vecchiaia e, specularmente, l’invidia della giovinezza con la quale si entra in competizione e si intende annichilire.
Discorsi, questi ultimi, che si ripercuotono e ritrovano, a loro volta, mescolati con i sempre schnitzleriani motivi onirici e quasi surreali, nella realtà diegetica scritta e creata ad hoc da Salvatores insieme ai co-sceneggiatori Umberto Contarello e Sara Mosetti, la quale segue invece le peripezie, gli sbandamenti, il girovagare e le situazioni quotidiane del celebrato e famoso regista Leo Bernardi (crasi di due padri della commedia, Leo Benvenuti e Piero De Bernardi), mentre è alle prese o, meglio, ad un punto morto della post-produzione e del montaggio del suo ultimo film, tratto proprio da Il ritorno di Casanova.
Come ripete lui stesso, con le parole di Hitchcock, quello che per noi (spettatori) è solo un film, per lui è la vita intera, un luogo sicuro, un momento fugace, talora prolungato oltre il necessario, l’unico brivido possibile, la sola tensione concessa, la panacea per un’esistenza, al contrario, vuota, inaridita, illividita e scolorita (tanto che Salvatores sceglie di mostrarla e filtrarla attraverso un bianco e nero rarefatto, sospeso, non sempre a fuoco) per l’appunto dall’avvicinarsi della fine, di quel destino che bussa alla porta sempre quando meno ce lo si aspetta e sempre fin troppo presto, di quel viale del tramonto a cui è impossibile sottrarsi.
Quel frammento di vita (che diventa vitale e colorato) in cui un artista può quindi vestire, rinfrancarsi e rifugiarsi nei panni e nell’esperienza di un altro da sé e sentire la propria, di esistenza, meno greve ed insostenibile. Quando però anche quello stesso privilegio viene messo in discussione o tacciato - da chi è più giovane, da un mondo che va avanti più in fretta di quanto si immagini e si tolleri - di senilità, di seppur riverito e riconosciuto passatismo, di convenzionalità ed aridità di nuove intuizioni, nuove suggestioni, nuove idee, nuovi mondi, ecco che ciò che fino a poco tempo prima ci faceva sentire meglio, si converte tutto ad un tratto in una gabbia, in un’assuefazione priva di antidoto, ma anche in incompiutezza ed inconcludenza, in paura ed inquietudine, in malessere, in malattia.
Ecco il fil rouge che definisce la visione di Salvatores e lega i personaggi di Leo Bernardi e del suo doppio, appunto Casanova, da lui rimesso in scena, ricreato e ridefinito. Se Casanova è costretto ad interpretare ed indossare suo malgrado, pur essendo ormai incapace di corteggiare, tentare, rapire, estasiare, la maschera del sé passato e glorioso, il regista non riesce, né vuole arrendersi ad un presente cinematografico che ne celebra l’importanza e la passata gloria, ma non lo considera più nel proprio domani, in quello che sarà e vuole essere. L’ultima impresa di entrambi consiste allora nel tentativo singolo di blandire, forse per l’ultima volta, la propria arte, vincendo ma ridicolizzandosi nel caso dell’avventuriero settecentesco, perdendo ma trovando forse qualcos’altro, qualcosa di inimmaginabile ed indesiderato, eppure di futuribile e futuristico, che conceda un motivo per tirare avanti, scegliere (ergo montare) e vedere come va a finire.
Ciò detto, malgrado sia possibile comprendere, essere magari stimolati e rintracciare la coerenza discorsiva e tematica del soggetto e delle intenzioni originali di Salvatores, Il ritorno di Casanova si infrange e crolla fragorosamente nel modo in cui mette in scena, immagina, pensa e sviluppa queste intuizioni di base. Non solo accettando ed assecondando ogni prevedibile rischio ed accusa di derivatività dai modelli di cui sopra, ma soprattutto nel modo più pigro, semplicistico e monotono possibile.
La pellicola sembra infatti crogiolarsi e bearsi di questo gioco di specchi, di questo raddoppiare, moltiplicare, decuplicare di scatole cinesi, di parallelismi visivi, narrativi e semantici, di ruoli sdoppiati ed interpretati da attori diversi (come rivela infine la disposizione degli attori nei titoli di coda), senza però addurre, né prevedere alcuna evoluzione od elevazione ad una forma, ad uno storytelling e ad una scansione che, già dopo una decina di minuti, non riservano più segreti allo spettatore.
Per non parlare poi della fotografia di Italo Petriccione, pregevole nella fattura, ma elementare, se non scolastica nell’ideazione. O del montaggio di Julien Panzarasa, che, analogamente all’importanza che riveste il personaggio di Natalino Balasso nell’ultimazione della pellicola (interna al film), potremmo considerare co-autore, ma il cui lavoro, molto buono seppur suscettibile di prolissità non richieste, è forse fin troppo elaborato per la pochezza di senso e la banalità significato che è chiamato ad esprimere e ad incorporare.
Oppure ancora dell’idea utopica, per non dire anacronistica o addirittura superficiale, che Salvatores dimostra nell’abbozzo di un mondo e di un panorama cinematografico che dovrebbero corrispondere ai nostri, con tutte le bordate ed allusioni polemiche (ma infine futilissime) del caso, ma che invece sono più simili a quelli, appunto, della già ricordata (La) dolce vita. Quale giornalista assalterebbe oggi l’albergo in cui risiede un noto regista per strappargli uno scoop sul suo ultimo film? Quando mai il cinema ha ricoperto, negli ultimi tempi, uno spazio tanto vasto sui giornali generalisti e nel discorso pubblico quant’è quello qui suggerito?
Allo stesso modo, è pressoché trapassata, se non proprio ridicola, la contrapposizione tra campagna e città, tra l’amore puro che si trova e si consuma nelle campagne e l’alienazione tecnocratica delle grandi metropoli.
E non bastano (ahinoi) le interpretazioni dedite e precise, seppur sempre nella zona di comfort e nella riproposizione di maschere e volti già visti e già fatti - da Toni Servillo, in aperto dialogo con il Jep Gambardella de La grande bellezza sorrentiniana (d’altronde, tra gli sceneggiatori, c’è Contarello) e Sara Serraiocco, anche troppo brava per il personaggio inconsistente, pletorico ed anonimo che è chiamata ad interpretare, ad Antonio Catania prelevato a forza da Boris e al già citato Balasso in un ruolo parimenti sterile e diafano, nonostante tutto; laddove convincono viceversa la scelta congrua, oltre che splendida di Fabrizio Bentivoglio, e la bellezza aggraziata di Bianca Panconi -, per risollevare le sorti di una pellicola che, nel suo ritenersi significativa, profonda, raffinata e sofisticata, finisce per essere il suo esatto contrario.
Ovvero il nulla spartito col niente, un testo che la dice lunga, anzi addirittura concentra nei suoi due protagonisti e nella loro incapacità di seduzione lo stato di un certo cinema d’autore italiano - quello dei nomi affermati, che, salvo qualche formidabile eccezione, si è ormai adagiato sugli allori di un’idea tramontata, terminale e oggi forzatissima di produzione, più prevedibile nel suo fallimento artistico ed economico, che nei suoi vezzi e nelle sue trame -, mentre non (ri)dice quasi nulla sull’idea di cinema di Salvatores. Il quale, al contrario, si limita a compiere un capriccioso, manieristico e didascalico frullato postmoderno ed ipercitazionista (ci sono pure Shakespeare e Banksy, senza alcuna soluzione di continuità) di ciò che forse solo un algoritmo intenderebbe quale omaggio al cinema, che è anche una timida ma efficace commedia surreale, ed un piacevole, quando non buono (il “nudo duello”) adattamento del racconto schnitzleriano - uno per cui saremmo forse andati e rimasti seduti in sala più volentieri.
Ciò che sembra realmente frutto e figlio del suo cinema sono allora sberleffi e motteggi innocui, dimostrazioni di consapevolezza della propria trasandatezza e mediocrità, capricci autoassolutori di un regista che più che spiccare il volo, come fa Guido Anselmi all’inizio di 8½, è ormai in caduta libera. Senza paracadute, né visioni utili a cui aggrapparsi.
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