TITOLO ORIGINALE: The Last of Us
USCITA ITALIA: 16 gennaio 2023
USCITA USA: 15 gennaio 2023
PIATTAFORMA/CANALE: Sky/NOW TV
REGIA: Craig Mazin, Neil Druckmann, Peter Hoar, Jeremy Webb, Jasmila Žbanić, Liza Johnson, Ali Abbasi
SCENEGGIATURA: Craig Mazin, Neil Druckmann
GENERE: azione, avventura, drammatico, fantascienza, orrore, postapocalittico, thriller
N. EPISODI: 9
DURATA MEDIA: 42-78 min
Craig "Chernobyl" Mazin e Neil Druckmann adattano per il piccolo schermo il primo capitolo di uno dei più amati franchise videoludici. The Last of Us è una serie che, come tutti i racconti post-moderni, racconta un presente-futuro possibile per parlare dell'oggi ed inscena una riconsiderazione tragica del rapporto umano, del bisogno rischioso e non sempre consigliabile dell'incontro e del legame con l'altro. Quella di Mazin e Druckmann è sì una bella serie che gioca sul sicuro e sulla potenza ormai sdoganata della complex television, ma è più che altro una costola, un capriccio narrativo e mitopoietico del franchise (che rimane puramente e solamente videoludico) e del suo creatore. The Last of Us è una serie che è tutto fuorché grande e (soprattutto) nuova televisione. Televisione che rimanga davvero.
Se c’è una regola non scritta nei racconti ambientati in un mondo post-apocalittico, aventi a che fare con epidemie, pandemie, pestilenze e quant’altro, riguarda la loro funzione spiccatamente umanista ed indubbiamente retrospettiva.
È nei momenti in cui tutto sembra ormai perduto, in cui tutto ciò che si conosce e che prima si dava per scontato si dirige verso la deriva, ché quella voglia di sopravvivere e di tirare avanti si tramuta, nei superstiti della tragedia (e in noi, esseri umani), in un’irrefrenabile voglia e necessità di riconsiderare la propria condizione attuale, la propria contingenza, il proprio, desolante presente a cominciare proprio dalla relazione umana, dal rapporto con l’altro, dal bisogno rischioso e non sempre consigliabile dell’altro, della solidarietà di un destino condiviso, a cui è impossibile scampare.
Scusateci il vezzo e il paragone forse banale, ma un richiamo alla recente pandemia di Covid-19 è d’uopo, specie per tutti gli effetti che essa ha avuto, in primis, sul nostro modo di intendere fondamentalmente tutto quanto ci appartenga ed appartenesse, e (quello che più ci interessa in questi lidi) sul panorama audiovisivo, su quel mondo e quell’industria che si fondano proprio sul principio della finzione, che la costruiscono, la immaginano, la scrivono, la mettono in scena ed infine la vendono; e su come, poi, noi spettatori ci rapportiamo con quella stessa finzione.
Ed è forse proprio per questo, e per quello che abbiamo vissuto, che oggi l’inquietudine, la tensione, l’angoscia e il dolore del post-apocalittico ci arrivano in maniera diversa, attenuate, sbiadite, contingentate. Forse perché ci sembra uno specchio che, nel tentativo di raccontare e raccontarci realisticamente un’umanità in malora, al limite ultimo, sull’orlo del precipizio, tornata alla propria natura più primitiva, brutale e selvaggia; fallisce di fronte alle maglie del suo essere un artificio molto meno straordinario e stupefacente della realtà stessa. Perché, in poche parole, la realtà sembra ormai aver sormontato la finzione.
È questo, tra le altre cose, quello che accade e si percepisce durante la visione dei nove episodi di The Last of Us, l’ultima fatica della pregiata factory HBO che, in collaborazione con Sony, PlayStation e Naughty Dog (nella figura di uno dei suoi co-presidenti e teste creative Neil Druckmann), trasporta sul piccolo schermo le vicende del primo capitolo dell’omonima, amatissima serie videoludica action-adventure.
Un’impresa di per sé abbastanza difficile e delicata, dal momento che già il materiale originale venne al tempo (nel 2013) applaudito per la sua profondità e qualità narrativa e di scrittura dei personaggi, la sua grafica fotorealistica, e le sue fattezze e peculiarità estetiche, ergo per il suo essere un film, o meglio, una serie televisiva interattiva - pur a dispetto di un gameplay divertente, ma decisamente più essenziale ed utilitaristico. Difficoltà, questa, che è solo confermata dalle numerose critiche e dal generale scetticismo che hanno accompagnato il ciclo vitale dell'impresa, dal rilascio delle prime voci e notizie riguardanti il casting, passando per la pubblicazione delle prime immagini e trailer, fino ad arrivare agli episodi stessi, la cui uscita settimanale ha permesso una persistenza dei discorsi e dei dibattiti in rete.
Ciò detto, è bene fugare subito ogni dubbio e rispondere ad una domanda basilare: sì, The Last of Us è una bella serie o comunque una serie che funziona e fa il suo lavoro senza troppi smottamenti. Su questo non abbiamo alcuna perplessità e, qualora le aveste, vi basti leggere i numeri degli ascolti in costante crescita che essa ha registrato da gennaio, all’uscita del pilot, ad oggi, per stabilirne la riuscita e la solidità editoriale, produttiva ed industriale.
Infatti, nonostante un inizio più incerto sul fronte tecnico, imputabile soprattutto alla scelta di affidare la regia allo stesso Druckmann - indubbiamente bravo nel suo mestiere di autore e sceneggiatore videoludico, ma chiamato ad un compito superiore alle sue possibilità e competenze nei confronti del quale egli si dimostra di fatto troppo acerbo, nonché inconsapevole dei meccanismi e delle complessità del vero linguaggio cinematografico, del lavoro concreto con filmico e pro-filmico (e il continuo ed ossessivo ripiegare su soluzioni, scelte e composizioni già adottate nel videogioco ne è dimostrazione esemplare) - The Last of Us aderisce saldamente allo standard che appartiene e viene riproposto periodicamente da ogni prodotto HBO.
Craig “Chernobyl” Mazin, co-showrunner e co-regista della serie assieme al già citato Druckmann, traccia la rotta e l’itinerario di un racconto che è forse proprio in questo suo essere controllatissimo, in questa sua glaciale allure ed inevitabile standardizzazione - che si converte in prevedibilità - ché trova la sua più grande debolezza.
Magari a parlare, in questo caso, è la conoscenza pregressa del videogioco e dei lavori precedenti del broadcaster, eppure quasi nulla, in ciò che è propriamente testuale, riesce a stravolgere per un attimo gli equilibri di questo invece compatto ed integerrimo universo narrativo; a portare l’intreccio, la concezione estetico-visiva e lo spettatore (appunto, quello conscio di cos’è e cos’è stato il mondo di The Last of Us) verso vertigini, altitudini e latitudini nuove.
“Quasi”, perché ovviamente l’impegno di traduzione adduce urgenze di rilettura, approfondimento, novità se non per quello che si racconta, per il modo in cui lo si fa. Eppure anche questi repentini ed imprevedibili detour (i prologhi dei primi episodi, la terza e la quinta puntata) sembrano rispondere ad obiettivi altri, rivelandosi più che altro ottimi esercizi di scrittura, slegati e semi-autarchici nell’economia della serie.
E qui torniamo a quella retrospettiva di cui sopra, non solo perché parliamo dell’ennesimo racconto che narra di un mondo che, in realtà, è il nostro (l’anno diegetico è il 2023 e l’infezione è una conseguenza del riscaldamento globale), ma anche e soprattutto perché è proprio a questo, a questa direzione (dalla funzione anche retroattiva) che risponde e “reagisce” la serie HBO.
Viene spontaneo allora tracciare due parallelismi legati a doppio filo tra loro. Il primo, tra lo stesso Druckmann e Joel. Il secondo, tra la serie e il fungo parassitario ed infettivo che segna la fine del mondo e di gran parte dei suoi abitanti.
Da un lato, allora, nella scelta di adattamento della propria creatura videoludica, il capoccia di Naughty Dog ripropone in qualche modo la scelta di uno dei suoi due protagonisti, preferendo il bene particolare (e narratologicamente egoistico) a quello generale. Nel caso di Joel, parliamo di Ellie, ovvero di un mezzo di risanamento del suo trauma di padre, di una sostituzione affettiva, di un calore che dava ormai per irrimediabile. Nel caso di Druckmann, il punto è invece su una visione geocentrica di The Last of Us (serie), che diventa pertanto una costola capricciosa del franchise (che è e rimane prettamente videoludico), la quale, piuttosto che stimolare e portare ancor più in alto l’asticella tanto della produzione serial-televisiva, quanto delle stesse trasposizioni da videogiochi (notoriamente difettose), si limita al remake live-action pulito, a modo e convenientemente diverso del materiale originale, quest'ultimo, solo depauperato di tutte le sezioni interattive e del gameplay.
Ne consegue pertanto il paragone con il fungo originario, qui perlopiù relegato ad un ruolo di comodo, a margine dell’inquadratura, alla stregua di un McGuffin, che nella sua peculiarità infettiva stabilisce una metafora ben riconoscibile del rapporto tra copia (la serie The Last of Us) e originale (il videogioco The Last of Us).
Il fungo si impadronisce del corpo dell’infettato, rendendolo un’altra versione di sé, una versione speculare, un altro corpo che continua ad essere sé stesso e a raccontare la medesima umanità, solo in una forma più evidente, epidermica, palese. E, dato che, come in ogni racconto post-apocalittico e di sopravvivenza che si rispetti, il vero parassita è l’uomo, e che - lo si dice nel penultimo episodio - gli infetti rispondono agli stessi richiami, bisogni e visceralità ontologiche e congenite che hanno da sempre ispirato il genere umano, il dilemma in merito alla bontà o alla malignità di tale trasformazione sta tutto nella prospettiva da cui la si considera e la si guarda.
In questo senso, e in nome, per l’appunto, di quella predilezione particolaristica ed autoreferenziale di Druckmann & co., (il fungo) The Last of Us giustifica la propria esistenza, sopravvivenza e radicamento proprio su quelle deviazioni, su quei cambi di rappresentazione, narrazione e punto di vista rispetto all’originale (che infetta e) a cui fa riferimento, e rifacendosi quindi, a sua volta, a quella ossessione tutta contemporanea della lore (la mitologia). Ossia al modo di vedere il prodotto culturale e/o audiovisivo quale esperienza narrativa, più che sensibile (cosa che, al contrario, è anche la controparte videoludica), relegando pertanto il lato più action e thriller, così come appunto la stessa minaccia infettiva, unitamente al racconto di quel mondo che, pad alla mano, era protagonista quasi quanto Joel ed Ellie, e - nonostante le costrizioni dell’impianto story-driven - “esplorabile” - ad un mero rito, ad un’espressione superflua.
Ovviamente, il centro di tutto sono allora la geografia interiore, emotiva ed esistenziale dei personaggi, le loro interazioni, agli equilibri che si interpongono nello svolgimento di un viaggio di per sé privo di grandi smottamenti, e - va da sé - alle interpretazioni, portatrici di una tendenza comune e ricorrente in tutti e nove gli episodi.
Già, perché se la componente puramente testuale - malgrado il coraggio che dimostra proprio in quella soppressione del segno grafico e specifico del post-apocalittico - rischia fin troppo facilmente di perdersi, venir soffocata e schiacciata dal fulgido immaginario al quale si rifà, dal giocare fin troppo sul sicuro e su quelli che sono ormai i luoghi, i tratti, i sentimenti e le emozioni di rito della televisione moderna o, in gergo, della complex television; è - come sempre, d’altronde - il non detto, il sottotesto a fare la differenza e a rendere pur sempre interessante The Last of Us.
L'implicito o il suggerito che si sostanziano proprio nel rapporto della serie con le proprie radici. Nel far interpretare ad Ashley Johnson, l’attrice che presta voce e corpo (in motion capture) alla Ellie videoludica, il ruolo della madre della Ellie televisiva. O nell’assegnare a Troy Baker, uno dei maggiori, più bravi e richiesti “attori videoludici”, padre del Joel originale (che qui assume invece le fattezze di un Pedro Pascal fin troppo mimetico, confortevole e confortato), la parte di uno dei villain che la Ellie di una magnifica Bella Ramsey uccide nel penultimo episodio, sancendo simbolicamente la cesura e l’indipendenza (non pervenuta nei fatti) con le proprie radici. O ancora nell’arruolamento di Ali Abbasi nella scuderia dei registi.
Una scelta, quest'ultima, che regala ben più d'una soddisfazione, se non l’episodio migliore della serie (l’ottavo), proprio perché direttamente attiguo alla sua poetica, alla sua sensibilità di regista, alla sua sfera politica di interesse, ai suoi temi tipici (come la fede cieca e incondizionata o il mostro come sovvertitore dei sistemi predefiniti), che egli innesta e adegua all’universo Naughty Dog, e da cui ricava, spreme, lascia fuoriuscire - quasi fosse un fluido tossico, endemico, parimenti (al fungo) contagioso - il nero, il torbido, l’oscurità, la disperazione, la violenza, il male puro, incontrollato, inspiegabile, libero da qualsiasi sovrastruttura logica e di comprensione. L'emozione più pura e vera (non preconfezionata o mandatoria) in nove e più ore di visione.
Purtroppo, episodi come questo sono casi isolati in un prodotto che, scelte, segmenti, schegge come questa, li usa per fare un buon (non eccezionale o virtuosissimo) adattamento, un passaggio obbligato per la mitopoiesi di The Last of Us, un remake pericolosamente ellittico, sintetico ed insieme complementare. Insomma, per fare tutto fuorché grande e (soprattutto) nuova televisione. Televisione che non possa essere scambiata, in maniera ridondante, con un The Walking Dead più sofisticato, un The Road apocrifo o un Light of My Life formato piccolo schermo. Televisione che rimanga davvero, una volta che i venti del fervore e dei facili entusiasmi smetteranno di soffiare. Inizieremo un'altra serie, ma torneremo sempre e comunque a giocare (e a pensare solo) al videogioco.
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