TITOLO ORIGINALE: Im Westen nichts Neues
USCITA ITALIA: 28 ottobre 2022
USCITA USA: 28 ottobre 2022
REGIA: Edward Berger
SCENEGGIATURA: Edward Berger, Ian Stokell, Lesley Paterson
GENERE: drammatico, guerra, storico
DURATA: 147 min
PIATTAFORMA: Netflix
Candidato a 9 premi Oscar, tra cui miglior film, miglior film internazionale e migliore sceneggiatura non originale
Trattare il tema della guerra o affrontare direttamente il genere war movie è oggi quanto di più difficile, specie dopo l'opera di sdoganamento operata dal medium videoludico. Ce lo dimostra Niente di nuovo sul fronte occidentale di Edward Berger, che, sulla scia dell'affermazione ed impostazione estetica di 1917, adatta per il grande/piccolo schermo l'importantissimo e capitale romanzo di Erich Maria Remarque, tuttavia semplificandone il senso, diminuendone la potenza ed impoverendone il morale e il valore delle vicende e dei suoi discorsi. Il risultato finale è una pornografia del dolore, il vacuo, futile ed artificioso spettacolo della morte, nell'artificiosa costruzione di un algoritmo che vede il corpo, e non l'anima, come centro e fulcro dei propri combattimenti e del proprio racconto.
Trattare il tema della guerra o, più precisamente, affrontare il genere war movie è ormai sempre più difficile, quasi come attraversare un terreno impervio, limaccioso, sanguinolento, tra cadaveri, filo spinato e carcasse di animali, bucherellato da crateri e voragini creati dalle esplosioni di bombe a mano e colpi di mitragliatrice e mortaio. Questo perché, allo stato attuale, fare un classico film di guerra significa inevitabilmente incappare nelle maglie dell’anacronismo, nella tentazione della vacua banalità, nella trappola di un sentitissimo sdoganamento.
E, ancor prima che dei grandi classici del filone, dei contributi di maestri come Kubrick e Spielbergo di altrettanto importanti film-maker come Malick, Stone, Nolan, Bigelow, passando per le imprescindibili firme del cinema russo come nel caso di Klimov - il cui Va' e vedi è tuttora un lavoro inarrivabile ed angosciante come pochi -, fino ad arrivare ad esemplari più sconosciuti ma ugualmente forti come il docu-animato Valzer con Bashir; la responsabilità è oggi ascrivibile specialmente al medium videoludico, che, della guerra, ha fatto uno dei suoi soggetti più celebri e gloriosi, esplorato in svariati modi e da innumerevoli punti di vista, trattato con più o meno sensibilità e profondità, la maggior parte delle volte depauperato del tutto del suo elemento umano e sintetizzato in una miscela meramente e solamente spettacolare, epidermica ed intrattenitiva. In un concentrato di sequenze epiche e straordinarie dal punto di vista della messa in scena e della complessità della composizione e degli elementi a schermo, accompagnate da musiche pompose, tronfie, esaltate ed esaltanti.
Il primo segno ed esempio evidente ed esplicito di tale banalizzazione della gravitas e del peso specifico dell’immaginario, dell’iconografia e dell’iconologia bellica è stato 1917 di Sam Mendes, che, al di là dell’incontrovertibile perizia tecnico-fotografica (Deakins gratiae), riduceva ai minimi termini discorsi e semantica, al fine di agevolare la magia e la muscolarità esibita del cinema, il dinamismo della visione, la costruzione - di ontologica estrazione e derivazione videoludica - (dell’illusione) di due(!) piani-sequenza che descrivevano la missione metacinematografica contro il tempo di due soldati inglesi.
Ciò nondimeno, quantomeno quello di Mendes è ed è stato un tentativo capace di imporre la propria estetica e la propria visione (senz’altro mutuata da quella kubrickiana) della prima guerra mondiale, e della guerra in generale, e di imporsi di peso nel panorama audiovisivo prepandemico grazie ad uno sforzo produttivo che non ha lasciato indifferenti pubblico e critica. Tant’è che oggi, neanche tre anni più tardi, fa la sua comparsa ed ambisce al suo esatto successo (tra cui nove candidature ai prossimi premi Oscar) nientemeno che il suo erede diretto, o forse sarebbe meglio dire il suo più fragoroso contraccolpo.
Come da titolo, stiamo parlando di Niente di nuovo sul fronte occidentale, grossa produzione tedesca, supportata dalla collaborazione e distribuzione di Netflix, che adatta, per la terza volta (dopo il classico muto di Milestone e il più popolare film TV di Delbert Mann), l’omonimo romanzo di Erich Maria Remarque, tra i capisaldi della letteratura di guerra. Coincidenza vuole, a tal proposito, che la casa di produzione della pellicola, la cui regia e sceneggiatura è affidata ad Edward Berger, qui al suo quarto lungometraggio; si chiama Amusement Park, letteralmente parco dei divertimenti. E, volente o nolente, Niente di nuovo sul fronte occidentale lo è in tutto e per tutto.
Se si conosce la controparte cartacea, lo si potrebbe già intuire dalla generale poca cura che il cineasta, assistito da Ian Stokell e Lesley Paterson, ripone nella traduzione delle parole, dei pensieri e, in particolar modo, del messaggio di Remarque. E non stiamo parlando semplicemente della fedeltà e dell’aderenza narrativa e narratologica dell’opera di Berger (anche se ci sarebbe qualcosa da aggiungere ed appuntare alle aggiunte, alle defezioni, ai detour che egli, insieme ai co-autori, sceglie di intraprendere e di inventare di proprio pugno, e dunque all’effettiva utilità, qualità compositiva e resa di tali momenti), quanto piuttosto di semplificazione del senso, di proverbialità della potenza e di immiserimento morale e valoriale delle vicende e delle situazioni narrate da Remarque. Aspetto, quest’ultimo, in cui si commette ed avvera la leggerezza ed agilità del precedente-Mendes.
Ogni singola inquadratura partorita da Berger in connivenza con il direttore della fotografia James Friend, vuole rimandare ad un solo ed unico risultato, ad una singola ed immarcescibile idea, alla stessa, indiscutibile conclusione: la guerra è mostruosa, brutale, ingiusta, ingloriosa, abietta, disumana; una macchinazione voluta da pochi, sicuri e intoccabili nei loro salotti, nei loro vagoni confortevoli, a discapito e a danno di molti, di tutti gli altri, di una generazione intera, di giovani ragazzi inviati al fronte con un preconcetto, un immaginario, una promessa, una retorica populista che non trova riscontro con la realtà, nuda e cruda, di un conflitto lacerante, indolente, di posizione, il cui fatuo e misero obiettivo consiste nel (ri)conquistare poche centinaia di metri di terreno.
Ecco, in pochissime righe, abbiamo sintetizzato tutto il senso e i fini dell’operazione di Berger & co., che del resto riempie due (fin troppo) generose ore e trenta di dialoghi imbarazzanti, costituiti quasi esclusivamente di frasi fatte e ad effetto, già sentite altrove, nelle cutscenes di quei famigerati videogiochi di cui sopra; ma anche di interpretazioni nella media, quando non (nel caso del protagonista Paul, interpretato da Felix Kammerer) sciape, artificiose e bidimensionali; di primi piani che vorrebbero essere lancinanti e invece sono poco meno che grotteschi; di parallelismi, giustapposizioni, contrapposizioni di montaggio di una puerilità ed elementarità disarmanti (l’alternanza delle scene di combattimento e di quelle ambientate invece nei palazzi del potere); di musiche e tappeti sonori coatti e sguaiati (immaginatevi un Ludwig Göransson ancor più plumbeo e testosteronico).
Il tutto, a invano sostegno ed ottusa giustificazione di sequenze di battaglia e lotta, oggettivamente ben dirette e composte, senz’altro un trionfo scenografico e di props, tuttavia più simili a coreografie fatte ad hoc, visibilmente artefatte, pulite ed inamidate anche quando i suoi protagonisti rotolano e si gettano nel fango della terra di nessuno o si ritrovano con l’acqua fino alle ginocchia, inerti ed innocue pure nei momenti più idealmente incontrollabili e caotici, oppure ancora quando vorrebbero muovere un feroce attacco o mettere in ridicolo i potenti; sommaria opera di un algoritmo che svolge una partita di scacchi, che non di un’intelligenza registica ben definita e ravvisabile a schermo.
Nel romanzo originale, gli attacchi, le difese e i contrattacchi non sono il punto, non fungono da elemento catartico, bensì rappresentano una minima parte del contenuto, talora appena accennata, marginale, raccontata alla stregua di un breve e sintetico rapporto, di un dispaccio informativo. Più importanti e fondamentali, nell’economia dell’opera e del suo messaggio, sono invece tutto ciò che sono e rappresentano i pensieri, i desideri, i vagheggiamenti, le sensazioni, le emozioni di Paul e dei suoi commilitoni: è lì che si colloca il vero trauma e la vera guerra, è lì che si compie e ha luogo la reale distruzione. Nell’anima, ancor prima che nel corpo.
Tutti elementi, questi ultimi, che Berger non riesce a rappresentare ed include non più di quanto strettamente necessario. Egli preferisce solo ed esclusivamente la parte più corporea e corporale, la materia ematica e organica in quella che possiamo soprannominare quasi una pornografia del dolore, il vacuo, futile ed artificioso spettacolo della morte, e rende pertanto il momento action il fulcro di tutta la sua costruzione, il momento catartico e liberatorio in cui portare alla massima potenza espressiva e segnica un pensiero già ampiamente e precedentemente comprovato e spolpato.
Affermare allora che ci sarebbe voluta una sensibilità, una sofisticatezza ed un intuito registico più affinato per portare su schermo una pietra miliare della letteratura come quella di Remarque è essere eufemistici. Dire invece che Niente di nuovo sul fronte occidentale non è altro che una pigra e magra sintesi del lato peggiore, più grezzo, coatto e volgare del war movie, in un continuo riciclo simile a quanto si faceva all’epoca con le uniformi dei soldati morti, è essere pure troppo clementi.
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