TITOLO ORIGINALE: Laggiù qualcuno mi ama
USCITA ITALIA: 23 febbraio 2023
REGIA: Mario Martone
SCENEGGIATURA: Anna Pavignano, Mario Martone
GENERE: documentario
DURATA: 128 min
Presentato alla 73ª edizione del Festival internazionale del cinema di Berlino
Mario Martone firma un documentario sentito, densissimo, vicino al saggio, sulla vita, il genio e il cinema di Massimo Troisi, insieme alla sua (di lui) sodale sceneggiatrice Anna Pavignano. Quello che ne fuoriesce è un ritratto che sembra quasi scritto, voluto e diretto dallo stesso Troisi: nostalgico, malinconico, agrodolce, straziante. Il ritratto di un uomo che, come lui stesso ammette in una commossa ed impressionante registrazione degli ultimi anni, è da quando è nato che va incontro alla vita “come tutti gli altri”. Un film che rincorre qualcosa che sembra sempre essergli negato o non concesso fino in fondo; che combina e fa coesistere infinito e finito.
“Il cinema di Massimo era bello perché aveva la forma della vita”. È questa la primissima definizione del cinema di Massimo Troisi che Mario Martone fornisce nei minuti iniziali di Laggiù qualcuno mi ama, il documentario che firma insieme alla sua (di Troisi) sodale sceneggiatrice Anna Pavignano.
Lo stesso Martone che, qualche istante più tardi, ci porta per mano in una sintesi visiva, in un sunto per immagini dell’Italia in cui nasce e muove i primi passi un Troisi giovanissimo, fragilissimo e “bocciatissimo” (ogni anno del geometra lo ha fatto due volte, “così lo imparava bene”), quella di fine anni ‘60-inizio ‘70. Un montaggio eccezionale di un ricettacolo smisurato ed impensabile di immagini: dai semplici scorci di vita quotidiana, per le strade, alle manifestazioni di piazza, le contestazioni, i movimenti giovanili del Sessantotto, col cinema sempre presente e accordato rispetto agli eventi politici e sociali del paese. Infatti, in uno di questi fugaci pennellate visive si intravede infatti il poster di un film di Bruce Lee, la cui uscita italiana avvenne presumibilmente in un momento di grande fermento e tensione ad est, a sinistra, al comunismo, quantomeno fra gli strati più sovversivi e militanti della popolazione.
Ed è anche questo che vuole fare il documentario di Mario Martone, che nel titolo contiene già una connotazione di tipo geografico-spaziale (Laggiù), ossia collocare il cinema di Massimo Troisi in un orizzonte politico e culturale e in un’intelaiatura sociale e sociologica a cui tradizionalmente e comunemente non si pensa quasi mai possa essergli consono, vicino, pertinente.
E quindi “tutto (il suo cinema) diventava politica solo perché era vita”, l’adesione, anche grazie al felice incontro della già citata Pavignano, di istanze femministe senz’altro meno radicali di quanto era solito nel periodo sessantottino, ma comunque rivoluzionarie ed inedite all’interno di un panorama cinematografico italiano in cui ancora rimaneva ben forte e salda l’idea della femme fatale o dell’angelo del focolaio da amare, conquistare, adorare religiosamente. Insomma, la messa in crisi e in discussione di un certo immaginario stardom maschilista, fallocentrico e charmant, ed insieme un’ambizione discorsiva più generale, ampia, di essere un regista tout-court, impegnato, un po’ come quel Pasolini che, in alcuni film, ha indubbiamente ricalcato ed inseguito.
Una che, tuttavia, egli stesso sentiva di non avere gli strumenti, le proprietà, né tantomeno i concetti e le parole adatte per esprimere correttamente ed essere adeguatamente - tant’è che, nell’ultimo film prima della morte prematura, Il postino, prenderà in prestito le parole e le poesie di Neruda per comunicare finalmente la propria verità in quello che è, a tutti gli effetti, il proprio testamento artistico ed esistenziale.
Stiamo parlando di un complesso di fallibilità ed inferiorità; della totale, distruttiva ed impigrente paura di non essere compreso a pieno, di sbagliare, di risultare ogni volta al di sotto delle aspettative. Sentimenti, questi ultimi, che, nell'economia di Laggiù qualcuno mi ama, informano un’altra grande sfera di senso e scopo, e sono di fatto il fil rouge di una altrettanto grande e forse impossibile ricerca: quella dell’uomo dietro la maschera, l’icona transgenerazionale, il fenomeno di culto, che ha fatto ridere tutta Italia. La stessa ricerca che Troisi quasi stimola in Martone (che, per ragioni biografiche, artistiche e di sensibilità, era forse l’unico regista italiano in grado di portare a termine un progetto simile) e in tutti noi, quando, riferendosi al suo semisconosciuto e sottovalutato secondo film (prodotto per la TV), Morto Troisi, viva Troisi!, e alla scelta graficamente e semanticamente forte di mettere in scena il proprio decesso e il proprio funerale, afferma “sta a voi capire perché”.
Il regista cerca allora di comporre un mosaico quanto più veritiero, autentico e sincero possibile dell’attore, scavando nei risvolti e dati biografici, nelle sue conoscenze e nei suoi affetti più cari, così come nelle sue memorie tattili; il flusso e la prosecuzione di un unico discorso cinematografico ed esistenziale che attraversa sia il suo brillante e precoce lavoro teatrale prima con il quartetto de “I saraceni”, poi con il trio “La smorfia”; sia, in seguito, tutti i film da lui diretti ed interpretati, o anche solo interpretati.
Quello che ne fuoriesce è un ritratto che sembra quasi scritto, voluto e diretto dallo stesso Troisi: nostalgico, malinconico, agrodolce, straziante. Il ritratto di un uomo che, come lui stesso ammette in una commossa ed impressionante registrazione degli ultimi anni, è da quando è nato che va incontro alla vita “come tutti gli altri”.
La vita, fatta di frammenti e sussulti, come i suoi film, certificata dalla morte - che per via di una cardiopatia congenita ha sempre sentito tremendamente imminente - e regolata dalla sorte. Morte e sorte, due parole assonanti che diventano, per Trosi, due facce della stessa medaglia, così come ambivalenti erano per lui l’impossibilità da parte di Napoli di abbracciare un cambiamento che Troisi tanto si auspicava ed agognava (a tal punto che, in No grazie, il caffè mi rende nervoso, arriva a trasformarsi in un fantasma, in una presenza sovrannaturale), e l’impossibilità di amare, di cedere e concedersi definitivamente all’esasperazione totalizzante dell’amore.
È vero quindi che “il cinema di Massimo [...] aveva la forma della vita”, e che quindi, alla stregua della vita, era contraddittorio, inconciliabile. In lui, infatti, sussistevano, ad esempio, l’ansia di fronte all’incapacità di comunicare, ma anche un talento comunicativo unico attraverso gesti onnicomprensivi che ne hanno poi garantito il successo e il clamore nazionalpopolare; il desiderio di non essere sempre considerato in relazione e in funzione del suo territorio geografico e culturale d’appartenenza, e insieme la dedizione e il desiderio quasi inquietante di una ventata d’aria fresca per la mentalità meridionale e tutto ciò che le gravita attorno. O ancora, il non riuscire a vedersi come un vero e proprio autore cinematografico, anzi considerarsi quasi afasico ed impossibilitato, quando in realtà incarnava lui stesso il valore cooperativo alla base dell’esercizio cinematografico, così come un autorialismo che si faceva largo anche involontariamente, inconsciamente, fortuitamente. Oppure infine l’imbarazzo nel raccontarsi quando forse il racconto pseudo-autobiografico della sua vita, dei suoi dolori, delle sue ansie, dei suoi incubi, di coordinate tematiche ed emozionali fisse, ridondanti e ben precise, è l’unico, vero fondamento ed innesco della propria arte.
Ciò detto, se è vera e comprovata questa sua totale adesione artistica ad un concetto e ad un immaginario vivido e vitale, è vero anche il contrario. E Laggiù qualcuno mi ama lo dimostra nei momenti in cui tutto ciò che è, è stato e si (ri)scopre per la prima volta di Massimo Troisi riesce comunque a prevalere su certi capricci autoreferenziali, per non parlare di manie di protagonismo tanto di Mario Martone, che, specie nella prima parte, dopo aver suggerito un interessante ma limitato e, in fin dei conti, superficiale parallelismo tra Trosi, la Nouvelle Vague e l’Antoine Doinel dei film di François Truffaut, sembra quasi giustificarsi di questa intromissione e scelta di far rivivere il ricordo dell’attore e comico, a discapito di un’oggettività assiomatica del genere documentaristico magari malleabile, ma mai prescindibile; quanto di uno dei suoi (pochi) intervistati stellati e stellari, Paolo Sorrentino, il quale interrompe il naturale fluire del suo intervento per addurre un’intuizione ed un’ispirazione troisiana abbastanza discutibili il merito del finale di È stata la mano di Dio (che, ripetiamo, tutt’oggi sembra essere più che altro un omaggio al meraviglioso epilogo di Chiamami col tuo nome di Luca Guadagnino).
Per l’appunto, queste due microscopiche, ma lancinanti cadute di stile e dettagli alquanto futili ai fini del testo, non riescono però a vanificare e mettere in ombra (al contrario!) l’angoscia di “un’ombra metafisica”, come affermava Giuseppe Bertolucci, che ha sempre contraddistinto la quotidianità di Massimo e ha, in qualche modo, condizionato anche la sua comicità e la sua opera.
Ombra, la cui potenza dolente e latente è tutta contenuta fra i cosiddetti “foglietti” che Anna Pavignano ha ricevuto quasi in eredità dopo la morte di Massimo, che altro non sono che stralci di carta, ritagli, biglietti, nei quali quest’ultimo appuntava qualsiasi cosa gli passasse per la mente, da idee per mini-atti (come soleva chiamare gli sketch), a veri e propri frammenti di dialogo che poi sono finiti naturalmente nelle sceneggiature dei suoi film, fino ad arrivare ai pensieri riguardanti il proprio stato esistenziale e fisico, i quali raggiungono vette di soffocante dolore nel frammento di pensieri e sensazioni relative ai giorni che, nel 1976, passò in un ospedale americano per sottoporsi ad una (per allora avanguardistica) operazione al cuore.
Ed è una scelta oculata, quella di Martone di svelare quasi da subito il peso gravoso ed insostenibile di questo dolore, di questo male di vivere, per poi farci conoscere e riscoprire gli sviluppi artistici, oltre che esistenziali, in un film che è troisiano anche e soprattutto per la scansione degli argomenti, dei pensieri, dei temi e dei ricordi, che come avveniva nei film di Massimo è solo apparentemente confusionaria, disordinata, sfuggente, inestricabile, balbettata e labirintica, per poi trovare invece un senso, una compiutezza, una coerenza, un orizzonte visibile a pochi minuti dalla fine, in cui tutto torna e tutto si chiude in maniera esemplare.
Laggiù qualcuno mi ama ha la forma del cinema di Troisi perché, come lui, rincorre qualcosa che sembra sempre essergli negato o non concesso fino in fondo. Perché riesce a descrivere un “alieno” in maniera estremamente terreste, concreta e umana. Perché combina e fa coesistere, nell'ennesima, esemplare contraddizione, infinito e finito. Infinito come il finale emozionante di Pensavo fosse amore... invece era un calesse. Finito come il cerchio disegnato su cui Martone sceglie di far irrompere i titoli di coda. Infinito e finito come la Luna in cui “il postino di Neruda” riconosceva il segno del suo amore.
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