TITOLO ORIGINALE: He-eojil gyeolsim
USCITA ITALIA: 2 febbraio 2023
REGIA: Park Chan-wook
SCENEGGIATURA: Jeong Seo-kyeong, Park Chan-wook
GENERE: thriller, drammatico, sentimentale, poliziesco
DURATA: 138 min
Prix de la mise en scène al 75º Festival di Cannes
Vincitore del Prix de la mise en scène all'ultimo festival di Cannes, Decision to Leave è l'ultima fatica del maestro sudcoreano Park Chan-wook. Un film impermeabile, indescrivibile a parole ed inclassificabile. Un neo-noir che si scalda di melodramma, conservando un punta di comicità molto più statunitense di quanto intravisto nei suoi predecessori. Ma anche l’opera più sobria, asciutta, controllata, implicita, equilibrata (tra il rispetto di una classicità di soggetto e, viceversa, la perpetuazione di una modernità di narrazione e messa in scena) e, in questo senso, matura e consapevole della filmografia del cineasta sudcoreano. Una pellicola che, all'ambiguità e all'essenza proteiforme delle parole, preferisce le immagini, quelle registrate, conservate, (ri)vissute, sognate, temute e alfine eliminate con un semplice tocco sullo schermo. L’annientamento di un uomo per un’ossessione. L’erosione discontinua ed intermittente che l’indecifrabilità e sfuggevolezza liquida di una giovane ed affascinante sospettata agisce sulla fissità e solidità di un poliziotto.
Decision to Leave. Leave: andarsene, uscire, partire, lasciare, dimenticare. Ma anche, per assonanza, Live: vivere.
Già dal titolo, capiamo fino a che punto si spinge l’ermetismo e l’enigmaticità dell’ultima fatica del maestro sud-coreano Park Chan-wook, autore amato e pluripremiato di veri e propri cult movies come Old Boy, Mr. Vendetta, Lady Vendetta e Mademoiselle. Già dal titolo, veniamo inconsapevolmente imbeccati sulla smisurata ed insopprimibile ambiguità di senso e significato sulla quale si informa la realtà di Decision to Leave ed inevitabilmente (dal momento che il cinema, specie nelle sue derive più autoriali, racconta ed esprime una visione del mondo e del presente in cui si vive) la nostra realtà. La quale, più che scadente, in questo caso è inattendibile, proteiforme, sfuggente, caotica, piena di equivoci e doppi sensi, plurivoca, espressa ed esprimibile solo mediante sinonimi, ben lontana, diversa e decisamente più incontrollabile rispetto a quello che pare dirci e di cui vorrebbe rassicurarci l’oggettività, come può essere quella statistica o scientifica.
Quella stessa obiettività e pragmatismo di dati, ricerche, sondaggi, in cui crede moltissimo Ahn Jeong-an - che, non a caso, è impiegata in una centrale nucleare -, che ammorba ossessivamente il marito Jang Hae-jun (Park Hae-il, d'impatto) con nozioni e curiosità abbastanza bizzarre e pleonastiche, tentando invano di convincerlo, per esempio, dei benefici che il sesso garantisce per una vita di coppia serena - cosa che i due evidentemente non hanno e forse non avranno mai.
Anche quest’ultimo, che è invece un detective di Busan tutto d'un pezzo, solido, nobile d’animo, talentuoso, preciso, pulito ed ordinate, dalle insolite tecniche investigative, ma anche profondamente orgoglioso; crede fortemente nel carattere e nell’apparenza oggettiva e fattuale della realtà. Del resto, è con quello che porta avanti e grazie a cui chiude i suoi casi. Con la sola eccezione che egli non si accontenta di ciò che gli è dato, nel modo in cui gli è dato, del modo apparentemente unico, chiaro ed evidente in cui il mondo e ciò che ne fa parte gli si offre allo sguardo.
Di ogni singolo dettaglio, egli deve infatti tenere traccia, che sia con una fotografia, una registrazione o una nota vocale. Egli deve cristallizzare con precisione, senza alcuna possibilità di fraintendimento o condizionamento postumo, il proprio processo di indagine, le deduzioni a cui arriva man mano, soprattutto a seguito di appostamenti che durano notti intere e che costituiscono per lui anche una maniera di far fruttare e rendere “utile” la propria condizione di insonnia perenne, provocatagli dal tormento dei casi che non è riuscito a risolvere.
Ebbene, è proprio il caso a volere che Hae-jun venga coinvolto nell'indagine sulla strana morte (per suicidio?) di un ufficiale dell'immigrazione in pensione con la passione per la montagna e le scalate, il cui cadavere viene rinvenuto ai piedi di un’altura - simile alla roccia che fa da sfondo a Picnic ad Hanging Rock di Peter Weir - da cui pare essersi gettato, sbattendo la testa e il corpo più volte lungo la caduta.
Un fatto strano, specie vista la sua abilità nella disciplina e la sua profonda conoscenza di quella stessa montagna, e che spinge il nostro detective ad andare oltre le apparenze e scovare un’altra verità che possa smontare la teoria del suicidio. Egli inizia pertanto ad interessarsi alla consorte della vittima, tal Song Seo-rae (Tang Wei, perturbante ed eccezionale), ragazza molto più giovane del marito, di origini cinesi, estremamente attraente e sensuale. Un fascino che non lascia certo indifferente il nevrotico, represso e (sentimentalmente) scontento detective, che pian piano inizia ad innamorarsene e che, come ci ricorda la tagline italiana, più si avvicinerà alla verità sul conto di questa donna del mistero, più rischierà di perdersi irreparabilmente nel vortice dei sentimenti e della passione che ella gli suscita.
Un conto è raccontarne la sinossi e i personaggi, ben altro è invece dire che cosa e com’è Decision to Leave, un’opera che è possibile ricondurre e riferire ad un certo tipo di produzione di matrice puramente hitchcockiana: dal primigenio e meraviglioso La donna che visse due volte - di cui la pellicola di Park Chan-wook è una sorta di crito-omaggio, tanto nella scelta dei personaggi, quanto nella tensione sotterranea che il cineasta riesce a riproporre e ricostruire con grandissima personalità ed un senso ineguagliabile della misura - fino ad arrivare a Basic Instinct di Paul Verhoeven, a sua volta nipote spirituale del capolavoro con James Stewart. Eppure, il film riesce ad allontanarsi saggiamente dai propri modelli e trovare una propria via espressiva, originale ed inedita, in un mix di generi, toni, stilemi e linguaggi, capaci, nella loro finissima sintesi ed aggregazione, di aprire gli orizzonti dello sguardo e del racconto cinematografico su un territorio narrativo sconosciuto e dar forma ad un genere di fatto totalmente nuovo.
Decision to Leave è allora un film impermeabile: un neo-noir dai toni, dai personaggi e dai discorsi, appunto, hitchcockiani, che conserva qualche eco filosofico e concettuale della blasonata trilogia della vendetta con cui Chan-wook si è rivelato al mondo intero, ma la cui cifra peculiare consiste più che altro nel ribaltamento dei momenti topici e dei cliché del procedural e della detection (come, ad esempio, l’interrogatorio), i quali vengono tinti e sfumano nei colori, nei sentimenti e nelle costruzioni tipiche del melodramma - che, dal canto suo, si impossessa man mano e poi completamente dei fili della narrazione -, conservando al contempo, in maniera estremamente elegante e mai forzatamente, una vena comica senz’altro meno nera di quello a cui il cineasta ci ha sempre abituati dai tempi di Mr. Vendetta o, ancor prima, di JSA, ma più statunitense, con tanto di deriva slapstick in un paio di esilaranti sequenze d’inseguimento.
Ma stiamo parlando, anche e soprattutto, di un film di caso e casi, nel quale lo spettatore è coinvolto direttamente (divertendosi) a scandagliare ed immergersi del tutto nelle apparenze, nei sintomi e negli indizi, nella natura proteiforme del reale, per venire a capo di una storia d’amore inammissibile per più ragioni, ossessiva, morbosa, tra le più intense, ricche, affascinanti, vertiginose mai viste sul grande schermo.
Non diversamente dal detective Hae-jun, osserviamo dunque questo rapporto nel farsi, nel disfarsi e nel rifarsi, nel corso di un paio d’anni e di due casi di suicidio/omicidio, facendo affidamento solo ed esclusivamente sulla certificazione univoca e non fraintendibile dell’immagine, laddove la parola può significare tutto e niente, può nascondere trappole ed insidie pericolosissime, vortici di significato che allontanano da ciò che è vero e reale; laddove la parola è suscettibile di varie interpretazioni, di accezioni impensabili, di metafore e modi di dire (“portami il cuore”) che ridefiniscono e mettono in crisi l’adesione con la realtà, di intenzioni e toni traviati da una traduzione simultanea necessaria (lei, cinese, non parla molto bene il coreano) ad opera di un’applicazione ed una voce artificiosa (elemento, quest’ultimo, che rende obbligata la visione in lingua originale).
Un’immagine registrata e riproposta così com’è stata e viene catturata, mediante l’utilizzo del più proverbiale dispositivo, il cinema, nelle sue emanazioni di mezzo, meccaniche (prima la macchina da presa, poi il proiettore). Il tutto, in un intreccio e in un film che prevedono e sfruttano al massimo le potenzialità offerte invece da nuovi dispositivi, dalle nuove tecnologie quali lo smartphone e lo smartwatch, tra registrazioni ed assistenti vocali, fotocamere, ma anche app di geolocalizzazione e di podometria.
Ed è proprio questo senso di continua ricerca, di analisi, di registrazione, utile ed insieme infida e caotica, di ogni singolo dettaglio appartenente ad una, o meglio, la vera scena del crimine, che è l’annientamento di un uomo per un’ossessione, il mistero e la verità dietro questo amore travolgente ed inarrestabile tra una montagna (il poliziotto, solido, granitico, incrollabile) e il mare (la sospettata, informe, sfumata, sfuggente, incontenibile, libera, sinuosa, fluida), e l’erosione discontinua ed intermittente - alla stregua di un’onda che travolge tutti, si infrange e si ritira, per poi infrangersi e ritirarsi di nuovo - che l’indecifrabilità liquida di quest’ultima agisce sulla fissità e certezza del primo; che si informa e costruisce la visione di Park Chan-wook, qui alle prese con la sua migliore prova registica, valsagli, non a caso, il Prix de la mise en scène al 75° festival di Cannes.
Una regia atipica, quella di Decision to Leave, che riprende l’eleganza suadente del precedente (e anch’esso magistrale) Mademoiselle, pur privandosi (per fortuna) di tutti quegli eccessi ed eccentricità visive e visuali che, per anni, molta critica ed altrettanto pubblico hanno ascritto (spesso a ragion veduta) ad un formalismo autocompiaciuto e fine a sé stesso, che, laddove perpetrato, avrebbe potuto ridurre il cineasta sudcoreano alla parodia stereotipata e stereotipica di sé stesso e della sua poetica.
Sono niente più e niente meno che cinema allo stato puro e allo stato dell’arte, le due ore e venti di quella che, a titolo di cronaca, è probabilmente l’opera più sobria, asciutta, controllata, implicita, equilibrata (tra il rispetto di una classicità di soggetto e, viceversa, la perpetuazione di una modernità di narrazione e messa in scena) e, in questo senso, matura e consapevole della filmografia di Park Chan-wook. Egli non solo sembra riuscire a prevedere quale effetto il proprio racconto e le proprie composizioni sortiranno sul pubblico, ma compie la definizione più emblematica e lapalissiana di regia cinematografica, amministrando con incredibile pulizia e disciplina millimetrica tutte le varie componenti e i diversi reparti che concorrono alla realizzazione e concretizzazione del suo mondo (e quindi: le note e melodie avvolgenti della colonna sonora di Jo Yeong-wook, la fotografia insieme freddissima e caldissima di Kim Ji-yong, le scenografie minimaliste, ma densissime di Ryu Seong-yee).
Con la stessa pulizia e disciplina, il cineasta coordina una fittissima e caotica trama di sguardi, gesti, respiri sincronizzati, frasi dette a mezza bocca, pensieri inquiet(ant)i e sguardi voyeuristici che diventano vere e proprie divagazioni, traduzioni fisiche e geografiche; ma anche twist provvisori, frutto di non sequitur, pronti ad essere smentiti, immagini che (si servono di altre immagini e) descrivono e sintetizzano la distanza emotiva e sentimentale tra i due amanti, che permettono di unire e di dividere con la semplicità di uno stacco al montaggio; oppure ancora di acrobazie vertig(o)inose, oggettive irreali, panoramiche, punti macchina inusuali e bizzarri, ma che, diversamente da quello che avveniva negli esiti meno brillanti della filmografia chanwookiana, conservano sempre e comunque una pregnanza semantica, una ragione, una traslitterazione ed una trasfigurazione funzionale per una maggiore comprensione di questo semplicissimo, ma intricato gioco di inganni, specchi ed illusioni.
In tal senso, assistere al dipanarsi di Decision to Leave è un po’ come trovarsi di fronte ad una di quelle lavagne che vediamo spesso in tutti i tipi di polizieschi, alla quale sono appese nient’altro che immagini (in movimento!) di quella scena del crimine di cui sopra. Momenti e situazioni visti (e registrati) da più prospettive e punti di vista (ergo da più punti macchina). Frammenti contenenti indizi sempre nuovi, sempre veri e sempre falsi, montati assieme da Kim Sang-beom con un lavoro orchestrale che procede per procura di eventi, fatti ed inevitabilmente immagini, attrazioni, anafore, similitudini, ellissi, detour, assonanze, libere associazioni mentali, intrusioni nella psiche e nell’intimo dei personaggi, ed estrusioni brusche ed imprevedibili per poi aderire alla visione di un occhio altro, onnisciente, che è quello del regista e, di riflesso, anche il nostro.
Mai come in Decision to Leave allora l’idea di cinema sensuale, sensibile, tattile di Park Chan-wook passa (e, in questo, è un film impeccabilmente hitchcockiano) attraverso l’occhio, lo sguardo, il vedere e, ça va sans dire, il non vedere.
Lo sguardo che viene spento, diventa vitreo e custodisce, nel suo silenzioso mistero, l’identità del responsabile dell'omicidio. Lo sguardo che il poliziotto pone, per convenzione e definizione etimologica, sulla sospettata (che è colei che viene osservata) - uno status quo ribaltato nell’ultimo atto del film. Lo sguardo che viene perfezionato ed ampliato - tanto con l’uso di dispositivi e tecnologie, quanto con una composizione che sfida gli estremi e flirta con i confini della messa in scena - ma pure registrato, conservato, (ri)vissuto, sognato, temuto e alfine eliminato con un semplice tocco dello schermo. Lo sguardo del poliziotto disarmato dalla donna misteriosa, dalla femme fatale, da Song Seo-rae: una figura simile, per il suo essere serafica, ammaliante, misteriosa, irresistibile, alla stregua di una Medusa o di una sirena della tradizione greco-latina, all’iconica Lee Geum-ja di Lady Vendetta.
Lo sguardo (e, dunque, la verità) negata a quello stesso, ormai annientato detective - ma non a noi spettatori - riguardo al fato e alla decisione (la più estrema e radicale) della donna amata, in una sequenza finale dominata dalla nebbia, nella quale la fotografia di Kim Ji-yong riprende la pittura romantica, vaporosa, onirica e sognante, sublime e subliminale di Caspar David Friedrich e del suo Viandante. Una sequenza all’insegna della malinconia, come può essere quella per una storia d’amore impossibile ed ormai conclusa, e che può essere preda di sinonimi quali tristezza, inquietudine, dolore, amarezza, ma è anche capace di figurare un valore diverso, positivo. Ovvero una ricerca, di un percorso tutto interiore, che amplia i confini della conoscenza di sé e del mondo, che spinge verso una vertigine nuova, un diverso scopo esistenziale, un orizzonte altro (dell’immagine), riassunto nel “banale” cambiamento di un angolo di ripresa (all’inizio dal basso, infine dall’alto).
Una sequenza che ci spinge insomma a rimettere in discussione quanto visto (e non ascoltato o detto), senza però farcelo comprendere appieno, senza risolvere e sbrogliare del tutto l’intricata matassa ordita ed intessuta sino a quel momento, ma che ci lascia comunque addosso qualcosa di indicibile, indefinibile ed intraducibile a parole, ma percettibile, visibile, comprensibile grazie alle immagini. Che sono tra le più indimenticabili della filmografia di Park Chan-wook e degli ultimi anni di cinema.
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