TITOLO ORIGINALE: Marcel the Shell with Shoes On
USCITA ITALIA: 9 febbraio 2023
USCITA USA: 24 giugno 2022
REGIA: Dean Fleischer Camp
SCENEGGIATURA: Dean Fleischer Camp, Jenny Slate, Nick Paley
GENERE: animazione, commedia, drammatico
DURATA: 90 min
Candidato all'Oscar per il miglior film d'animazione
Su commissione di A24 e di un paio di altre case di produzione indie, il regista Dean Fleischer Camp e l'attrice Jenny Slate traggono un lungometraggio dalla serie di corti finti documentari, realizzati con tecnica stop-motion, che già nel 2010 spopolarono in rete. Corti che avevano per protagonista una conchiglia antropomorfa, con un occhio di plastica ed un paio di scarpe da ginnastica, di nome Marcel, e delle sue piccole, grandi imprese quotidiane all’interno di un ambiente casalingo estremamente comune. Ebbene, Marcel the Shell è innanzitutto questo: un'avventura dai contorni fiabeschi ed esistenziali che ricorda tanto i mumblecore di Spike Jonze, i vecchi fasti della Pixar e le opere di Miyazaki e Takahata; ma è anche un ragionamento sull'iconismo del suo protagonista e sui nuovi media quale ricettacolo ideale di "nuove storie". Peccato soltanto che il film rispetti sin troppo la promessa del proprio titolo e finisca per rimanere intrappolato o forse bearsi del suo piccolo, anzi minuscolo mondo. E dell'aspetto adorabile della sua mascotte.
Cos’è Marcel the Shell? In concreto, l’idea di Jenny Slate e Dean Fleischer Camp - lei un’attrice e comica di stand-up, lui un regista ed uno sceneggiatore -, che nel 2010 concepirono una serie di cortometraggi, animati con la tecnica della stop motion e costruiti come finti documentari, che raccontavano in pochissimi minuti la storia di questa conchiglia antropomorfa, alta giusto un paio di centimetri, con un occhio di plastica ed un paio di scarpe da ginnastica, di nome Marcel (doppiata dalla stessa Slate), e delle sue piccole, grandi imprese quotidiane all’interno di un ambiente casalingo estremamente comune.
Pur nascendo quasi come un capriccio, come uno sfizio artistico, come un esperimento di sintesi e di storytelling in miniatura, il progetto di Marcel the Shell ha ricevuto così tanti consensi sul web da convincere la A24 - attuale patria elettiva e più rappresentativa del panorama cinematografico indie statunitense (in collaborazione con altre piccole case di produzione, tra cui la Chiodo Bros. Production, madre del cult Killer Klowns from Outer Space, e Cinereach) - a commissionare, per l’appunto, un lungometraggio che unisse tutte le microscopiche situazioni in cui la conchiglia Marcel si ritrovava coinvolta nei corti e darle un afflato narrativo ed una gamma emotiva più coesa, precisa e rifinita.
Ciò detto, qualora volessimo invece definire artisticamente, esteticamente e concettualmente Marcel the Shell, diremmo che è più che altro un C'mon C'mon che ce la fa e ce l’ha fatta (e il riferimento non è casuale, dal momento che anch’esso porta la firma della già citata A24!). Ovvero un altro film che prende due territori narrativi popolari e proverbiali (qui, l’avventura che diventa romanzo di formazione; lì, il rapporto emotigeno e traumatico tra un uomo e suo nipote) e li legge con un occhio più evidentemente e dichiaratamente documentaristico, per farne infine parabola e cinema esistenziale ed esistenzialista. Un altro elemento che accomuna questi due film è inoltre la caratterizzazione dei rispettivi protagonisti: entrambi, seppur fisicamente diversissimi, esseri curiosi, perspicaci, precoci, che interrogano, analizzano, fanno ironia e talora mandano in crisi la realtà che li circonda e le persone che lo abitano.
Tuttavia, a differenza del film di Mike Mills (che, come da noi previsto, molti si sono già un pochino dimenticati) - il quale peccava di un’eccessiva verbosità e di una freddezza che contrastava in maniera rovinosa con le pretese poetiche, liriche e commoventi del racconto -, Marcel the Shell riesce ad essere più autentico, immediato, diretto, universale, gioioso, a suo modo originale, delizioso anche quando inciampa in uscite banali e in una scrittura che non riesce sempre a tenere il passo dell’inventiva e della meraviglia di ciò che appare a schermo. Ma anche e soprattutto, a non cadere del tutto nello stereotipo del cinema d’autore più autoreferenziale ed ingabbiato nei propri complessi anacronistici e capricci solipsistici e pretestuosi.
Il merito è, come anticipato, proprio di Marcel e del suo mondo, i quali ci hanno ricordato il primo Tim Burton, qualcosa di Noah Baumbach e Spike Jonze, coniugato con la stop-motion materica e palpabile di Wes Anderson, e, in particolar modo, i vecchi fasti della Pixar di Toy Story o, ancora, la grandezza che lo Studio Ghibli e registi come Miyazaki, Takahata e Yonebayashi riuscivano a scoprire ed informare nelle piccole cose che tutti noi diamo per scontato, nell’essenzialità (che diventa essenza) della vita, nei sentimenti più puri e primigeni; in mondi dalle dimensioni esigue ed irrisorie, che ciononostante riuscivano e riescono tutt’oggi a farci sognare e a spargere la loro magia, i loro discorsi e la loro umanità al di là dei propri confini morfologici, raggiungendo latitudini impensabili, spingendosi verso prospettive insondabili.
Ecco, tutto questo c’è ed emerge con indubbia intensità nella pellicola sempre diretta da Dean Fleischer Camp e doppiata, oltre che dall’immancabile Jenny Slate, da Isabella Rossellini; nella quale siamo dunque chiamati, quantomeno all'inizio, ad assistere e partecipare ai modi ingegnosi e creativi con cui il nostro Marcel (n compagnia di sua nonna Connie, ruspante e tenerissima) si districa nelle sue mansioni giornaliere, a sopportarne l’irrefrenabile parlantina, ad ascoltarne le numerose ed insistenti domande e riflettere sulla nostra esperienza di spettatori ed individui. Insomma, ad entrare in punta di piedi nella straordinaria ordinarietà di questa creatura, che, come da copione, è più umana degli esseri umani, ma è anche puramente e prettamente cinematografica.
Nel senso sia che è il cinema che ne certifica e permette l’esistenza, sia che è "inconsapevolmente consapevole” delle regole del mezzo e del linguaggio, specie di quello documentaristico, ed è pertanto in grado di disinnescarlo, di superarlo, di precederne i processi, di tenere testa alla sua spersonalizzata automaticità, imperturbabile artificiosità ed inerte oggettività. Allora quella che, ad un primo livello, potremmo definire alla stregua della costruzione e del consolidamento di un rapporto d’amicizia tra intervistatore (lo stesso Fleischer Camp, in un ruolo autoriflessivo molto interessante) ed intervistato, diventa in realtà un’invocazione alla personalizzazione delle proprie opere, ad un’autorialità ed autorialismo imprescindibili, necessari e non negoziabili; una chiamata ad esserci e a farsi coinvolgere nel segno che si crea e in ciò che si racconta che potrebbe quasi assurgere a manifesto politico e poetico dell’odierno cinema indipendente, così come pensato ed espresso da A24 et similia.
Questa sua consapevolezza viene manifestata e sfruttata inoltre a fini narrativi, precisamente nel momento in cui la pellicola è costretta ad andare oltre la mera alternanza di situazioni comiche, sentimentali, di estro e genio compositivo, di semplice e spensierata vita che diventa avventura e divertimento, a non accontentarsi più di queste sequenze capaci cionondimeno di rendere meravigliosi e fiabeschi anche i più comuni e usuali degli oggetti che tutti abbiamo nelle nostre case; e decide pertanto di affiancare a questa passione di ozio incantato e a questa predisposizione miniaturistica, un percorso di crescita, una narrazione che deve arrivare da qualche parte. Ovvero ritrovamento di quella famiglia (allargata) persa per colpa degli umani, della loro noncuranza, del loro continuo dare per scontato tanto un collettivo di oggetti che molti definirebbero meri acchiappa-polvere, portafortuna, soprammobili, cianfrusaglie, quanto una relazione amorosa.
La sceneggiatura, scritta dagli stessi Camp e Slate insieme a Nick Paley, integra, in questo senso, l’idea di sfruttare il forte valore e potenziale iconico di Marcel in quanto mascotte e (perché no?) segno e figura cinematografica estremamente espressiva quale motore principale e spinta essenziale per questa ricerca. E di farlo non solo applicato ai mezzi di comunicazione classici, come il cinema e la televisione (con il cammeo di alcuni conduttori di programmi del piccolo schermo, tra cui la giornalista e conduttrice Lesley Stahl di 60 Minutes), ma anche ai nuovi media come i social network e le piattaforme di condivisione video (vedasi Tik Tok e specialmente YouTube, che è poi il luogo da cui è partita per davvero l’odissea e dove è nato il successo di questo piccolo progetto). Nuovi media, che permettono agli autori di introdurre ed integrare nei discorsi del film l’idea di una socialità ormai comunitaria, dei social quale luogo per eccellenza dove oggi risiede la maggior parte delle cosiddette “nuove storie”.
Peccato che, al di là di questi discorsi estremamente interessanti ed affascinanti sul presente e il futuro del cinema in quanto mezzo di comunicazione e conoscenza, ma anche come veicolo di narrazioni ed emozioni, Marcel the Shell finisca poi per adagiarsi fin troppo sulla promessa del proprio titolo. La conchiglia infatti è talmente onnipresente e centrale nell’economia della composizione di Fleischer Camp da diventare ben presto opprimente ed ingombrante, imprigionando la pellicola nelle maglie convenienti e, in fin dei conti, pure commercialmente fruttifere (specie per quanto riguarda la stagione dei premi) della sua personalità candida, del suo modo di porsi sempre buffo ed amabile (pure quando potrebbe risultare arrogante, saccente, sfrontato), del suo aspetto grazioso, minuto e delicato, della sua emotività agrodolce e sensibilità, sviluppata a tal punto da renderlo anche il solo ed unico responsabile morale della storia.
Non è allora del tutto inesatto dire che Marcel è un po’ tutto ed un po’ troppo: il metro, il garante, la certificazione, il respiro, la personalità, l’immagine, la voce, l’emozione, il canto e il controcanto, il fantastico e l’ordinario, il mattatore assoluto dell’opera, la quale, dal canto suo, non riesce sempre a contenerlo e seguirlo come dovrebbe.
Abbiamo già parlato di alcune uscite abbastanza proverbiali, ma si potrebbe dire lo stesso della risoluzione del dramma familiare che lo segnano indelebilmente e lo spingono a prendere la propria vita in mano, a vivere e non a sopravvivere sacrificandosi per il bene di chi si ama, ad uscire dal proprio guscio, guardare al futuro e crescere. Allo stesso modo, delude anche la mancata evoluzione di un motivo avventuroso (dal contenuto scarso per un’ora e trenta di racconto), che rimane sempre e comunque contenuto fra quattro mura ed un giardino, con una sola, dimenticabile, vera interazione con l’esterno e con il mondo.
Un mondo ed un'umanità, che, dal canto loro, sono sempre lì ad osservare incantati e passivi al di là di uno schermo, ma non sono mai davvero interpellati. Che, pressoché come lo spettatore, non sono e non si percepiscono mai fino in fondo in quanto parte attiva ed integrante di questa comunità nuova, di questa ridefinizione esistenziale, di questa famiglia globalizzata, più soddisfatta nell'isolarsi nei propri angoli contemplativi e solitari; nel rimanere nei propri, di gusci. Di quella stessa idea e filosofia indie, che, come avviene in questo caso, dalle piccole cose parte e nelle piccole, anzi minuscole, cose purtroppo rimane.
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