TITOLO ORIGINALE: She Said
USCITA ITALIA: 4 gennaio 2023
USCITA USA: 18 novembre 2022
REGIA: Maria Schrader
SCENEGGIATURA: Rebecca Lenkiewicz
GENERE: drammatico
DURATA: 129 min
Presentato fuori concorso al 40° Torino Film Festival
Prodotto, tra gli altri, dalla Plan B di Brad Pitt, Anche io di Maria Schrader (Unorthodox) rappresenta un primo tentativo esplicito di storicizzazione e razionalizzazione di un fatto, di un fenomeno, di un movimento incontrovertibilmente presente, il cosiddetto #MeToo, attraverso il retelling meticoloso e filologico dell’inchiesta delle giornaliste del New York Times Jodi Kantor e Megan Twohey, che, nel 2017, portò a galla una vera e propria rete di abusi, violenze, molestie sessuali a Hollywood. A partire da una questione di corpi che accomuna la pellicola di Schrader col recente Blonde di Andrew Dominik, Anche io viaggia e procede nel suo racconto tenendo insieme il valore della parola e la ricca sintesi delle immagini (e di un ottimo montaggio), dando vita ad un esempio lucidissimo di cinema.
Irlanda, 1992. Una ragazza è a passeggio col cane a pochi metri da casa sua. I boschi lasciano ben presto spazio a sabbia e mare, quando in lontananza vede comparire una nave d’epoca coloniale, con tanto di soldati e marinai che scendono a terra con le scialuppe. No, non sta avendo un’allucinazione, una visione o un incubo: sta semplicemente assistendo alla magia del cinema nel suo compiersi. Incuriosita, si avvicina alla scena, fino a scoprire ciò che ne sta dietro: operatori di macchina, assistenti di produzione, ecc... Colpita, quasi si trattasse di un'epifania o di un'illuminazione, da quell’ambiente stimolante, vivo, attraente, affascinante, la ragazza decide quasi subito di entrare a farne parte. Stacco. Vediamo quella stessa ragazza, qualche anno dopo, correre per le strade di Londra in lacrime, semi-vestita, distrutta emotivamente e psicologicamente. Il suo nome è Laura Madden, è una delle assistenti di uno dei più grandi produttori cinematografici al mondo, Harvey Weinstein della celebre e premiata The Weinstein Company, ed è appena stata vittima di un tentativo di abuso.
Così: con due segmenti che descrivono due diversi momenti della vita della stessa persona in relazione ad una passione, il cinema, poi divenuta una professione, coniugati a loro volta mediante una ellissi netta, acuminata, sferzante, traumatica, precisissima, semplice, eppure meravigliosamente sintetica; inizia Anche io di Maria Schrader, pellicola che costituisce un primo tentativo esplicito di storicizzazione e razionalizzazione di un fatto, di un fenomeno, di un movimento incontrovertibilmente presente - uno di cui il nostro zeitgeist è assolutamente intriso - grazie al racconto meticoloso e filologico dell’inchiesta delle giornaliste del New York Times Jodi Kantor e Megan Twohey, che, nell’ottobre 2017, portò a galla una vera e propria rete di abusi, violenze, molestie sessuali (e di relativi insabbiamenti, tentativi di corruzione e accordi di omertosa riservatezza) perpetrati e commessi dal succitato Harvey Weinstein, ai danni di attrici e sue assistenti.
Un'inchiesta, questa, che ha successivamente dato il là ad uno dei più grandi, importanti e partecipati movimenti della storia: il cosiddetto #MeToo, appunto Anche io, come recita la più solidale ed unitaria traduzione italiana del titolo originale, She Said (fondamentalmente "lei ha detto"), il quale si sofferma invece sull’elemento, sul valore, sul potere, sulle emanazioni e diramazioni, sulle necessità, così come sulle responsabilità della parola.
D'altro canto, è proprio tra questi due poli semantici: da un lato, il lavoro di squadra, la collettivizzazione dello stesso problema, il proverbiale detto “l’unione fa la forza” che qui è pure alla base della pratica e del processo di indagine e ricostruzione giornalistica, dall’altro, l’ontologia e l’essenza della parola con tutto ciò che ne concerne; che si colloca, in maniera equidistante e sintetica, il dramma d’inchiesta di Maria Schrader - già firmataria della bella Unorthodox, un altro testo, più precisamente una miniserie, sulla ricostruzione di un caso true crime nel quale l’elemento femminile e l’idea di un sessismo (e maschilismo) sistemico giocavano una parte importante - che è appunto tra le più dirette ed eclatanti autoriflessioni del cinema sui suoi fantasmi dietro le luci, i flash, il glamour, lo stardom, i film, lo spettacolo tra un “azione” ed uno “stop”, sugli irrisolti e i crimini della sua spietata macchina dei sogni, di costruzione dei mondi, che, in questo caso, diventa oliato ingranaggio di sfruttamento, disillusione, violenza ed annientamento.
Non a caso, a produrre c’è anche la Plan B di Brad Pitt, di cui si è parlato recentemente proprio in relazione ad un’altra pellicola che andava a scardinare le illusioni della macchina hollywoodiana e ad analizzare il ruolo, la posizione e la storia della donna o, più in generale, della figura femminile all’interno di quest’ultima. Stiamo parlando di Blonde di Andrew Dominik, film controverso, estremamente dibattuto e, proprio per questo, (per chi scrive) altrettanto interessante, che puntava i riflettori e rileggeva la figura di Marilyn Monroe quale eccellente rappresentante e risultato di un mondo, quello del cinema appunto, affamato di un’idea, di un’immaginario, di un’invenzione, di una favola ed infine di un corpo fatto per essere visto, ammirato, desiderato, penetrato, sfruttato, invidiato, sessualizzato, cannibalizzato, distrutto, finanche annientato.
Ed è, in primis, da una questione di corpi che vengono spersonalizzati, oggettificati, ridotti a meri strumenti dentro e fuori la scena; che corrono il rischio o vengono violati ed aggrediti nel loro intimo da un potere consolidato, immarcescibile, apparentemente inscalfibile, che prende il via l’indagine di Kantor e Twohey, il movimento #MeToo e, di conseguenza, lo stesso film di Schrader.
Quegli stessi corpi che la cineasta non ci mostra mai nel momento in cui sono sul punto di venire assaliti, attaccati, offesi, ma di cui rispettosamente ed elegantemente decide di concederci le ferite, le cicatrici, i lividi, gli sfregi, i solchi emotivi, più che prettamente e solamente fisici. Quindi, vediamo le lacrime, gli sguardi afflitti, la voce strozzata nel raccontare la propria esperienza; camere d’hotel impregnate indelebilmente dei fatti lì consumatisi, quasi set allestiti ad hoc per un film dell’orrore, tra indumenti stesi a terra, rimasugli di cibo, accappatoi; angoscianti carrellate di corridoi che accompagnano e fanno da sfondo a testimonianze audio che Schrader inserisce crudamente, senza tanti orpelli, freddamente volti a certificare il disarmante squallore del male e il nostro ruolo passivo di meri ascoltatori e certificatori di tale amara verità.
Ecco, in Anche io si ascolta tanto: migliaia di parole, centinaia di pensieri, decine di testimonianze; si assiste ad incontri in locali, ristoranti, fast food, bar (un classico dei film d’inchiesta da Tutti gli uomini del presidente in poi), si origliano telefonate e conversazioni private, e si (ri)scoprono dibattiti redazionali che nostalgicamente ci riportano ad un’idea di giornalismo che, oggi come oggi, appare sempre più sbiadita.
Ciò nondimeno, questa preponderanza della voce, della parola (scritta od orale), della sua ricerca spasmodica, eppure sempre rispettosa dell’intervistata e del suo volere, ma anche (e questo è un aspetto che, per chi scrive, eleva e arricchisce il testo di Schrader) della sua invadenza nelle vite private e nei momenti più intimi delle due giornaliste e collateralmente delle loro rispettive famiglie; non impedisce all’immagine o, più propriamente, al montaggio di volere la loro parte.
L'ellissi di cui abbiamo parlato in apertura è, d’altronde, forse l’intuizione più potente e la scelta più riuscita del solidissimo montaggio firmato da Hansjörg Weißbrich, il quale introietta il ritmo inarrestabile, eppure sempre regolarissimo e cadenzato della scrittura, del battere a computer, del processo del citare, sfogliare, confrontare, registrare, annotare, riportare e raccontare quale progressivo avvicinamento alla realtà dei fatti, e la adatta e trasporta nella sua composizione.
La successione alternata, inarrestabile ed incalzante di immagini e sequenze restituisce pertanto alla perfezione (anzi ci permette) il naturale ed inevitabile affioramento e decorso della verità, rende le dimensioni del lavoro di Kantor e Twohey, descrive le ricadute personali che questa vicenda ha nelle loro vite, così come fornisce il passare del tempo, dei giorni, delle settimane, dei mesi, passati con il timore (instillato benissimo da Schrader & co. pur trasponendo su schermo una storia di cui tutti, o quasi, conoscono già il finale) che qualcuna si tiri indietro o che una testata rivale possa uscire prima di loro con la stessa storia; e quindi anche lo spontaneo thrilling legato a tutto il processo di composizione del pezzo, sua revisione, impaginazione e pubblicazione.
Non solo, l’inebriante montaggio di Weißbrich è anche in grado di rendere percettibile la presenza, tanto fantasmatica ed impalpabile, quanto opprimente e pericolosa, di un fuoricampo che scruta, osserva e che, quando finalmente viene rappresentato e lambito dalla macchina da presa, non viene tuttavia realmente personalizzato, quasi a significare e sottolineare quanto questa faccenda e questo fenomeno trascendano e siano ben più estesi, ingenti, radicati ed importanti del solo Harvey Weinstein. Non c'è da stupirsi, a tal proposito, che facciamo la conoscenza di una delle due giornaliste proprio mentre sta per far uscire un articolo sugli scandali sessuali legati a Donald Trump, che, malgrado queste accuse, riuscirà, come sappiamo bene, ad accomodarsi nello Studio Ovale.
Ciò detto, al di là di un cast ben assemblato su cui risplendono una più spigolosa Carey Mulligan ed un’amabile Zoe Kazan nel ruolo delle due reporter, il complesso lavoro di Weißbrich può dirsi forse l'ingrediente più rappresentativo di un’opera solidissima a cui bisogna riconoscere inoltre il pregio di non indulgere in una celebrazione agiografica ed apologetica del giornalismo (nel quale pure - lo si mette bene in chiaro - sussistono simili forme di tossicità), e che, a differenza di altre sue colleghe (nel tema e nello spirito), non cade mai nel fazioso, nell’artificioso o nel pretestuoso. Anzi, a tal proposito, ci ha colpiti la, seppur comprimaria, rappresentazione dei mariti di Kantor e Twohey, due uomini comprensivi, nuovi, disposti a mettersi di lato, che si distaccano completamente da quel fallocentrismo profondo contro cui si battono le due donne, tuttavia mai ridicolizzati o resi in modo macchiettistico.
Forse il suo più grande difetto - giusto per dare una misura - consiste nell’assecondare e perseguire la via dei “cartelli”, ovvero una delle scelte, per chi scrive, tra le più abusate e didascaliche contestualmente al filone biografico-monografico, subito dopo un ultimo segmento semplicemente da manuale, che conferisce ad una cosa così semplice come un click, una portata gigantesca ed universale ed un effetto di fatto destabilizzante, sconvolgente e traumatico per la nostra contemporaneità. È indubbio ciononostante che ci troviamo di fronte, parimenti al lavoro di indagine e ricostruzione delle giornaliste, ad un esempio lucidissimo di cinema. Ad un atto di fede nella parola. Ad un appiglio incoraggiante per l’immagine in tempi ambigui, instabili, incerti, insicuri e di inflazione ipertrofica come quelli che stiamo vivendo, in sala e non.
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