TITOLO ORIGINALE: Blonde
USCITA ITALIA: 28 settembre 2022
USCITA USA: 28 settembre 2022
REGIA: Andrew Dominik
SCENEGGIATURA: Andrew Dominik
GENERE: drammatico, biografico
In concorso alla 79ª edizione della Mostra del Cinema di Venezia
Dopo aver fatto vincere la Coppa Volpi a Brad Pitt con L'assassinio di Jesse James per mano del codardo Robert Ford, Andrew Dominik torna a parlare di mito con Blonde. Non tanto un semplice biopic su Marilyn Monroe, quanto piuttosto un’esperienza sensoriale che segue, col fiato sul collo, passo passo - e pure in termini filmici - l’analisi e la riflessione psicologica ed esistenziale condotta sul persona(ggio) della star hollywoodiana per antonomasia. La storia di un’idea, di un’immaginario, di un’invenzione, di una favola, che diventa e si concretizza in un corpo fatto per essere visto, ammirato, desiderato, penetrato, sfruttato, invidiato, sessualizzato, cannibalizzato, distrutto, finanche annientato da un cerchio di luce, legato ad una bugia che suona ancestrale, ma che, in realtà, è profondamente umana. Un film complesso, problematico, volutamente provocatorio e controverso, sovrabbondante, imperfetto, vittima di sé stesso e dei propri meriti, eppure imperdibile ed unico nel suo genere.
Sembra quasi un’affascinata ed insieme rassegnata constatazione del proprio inevitabile destino, quella che esce dalle labbra di una spaesata e disorientata Norma, la quale ha già iniziato a farsi strada nel mondo dello spettacolo di Los Angeles - tra servizi fotografici in veste di pin-up e qualche ruolo da protagonista in film di bassa lega, pagati “a peso di intimità” -, tuttavia, non con il suo vero nome, con un nome ed un’identità Norma(le), troppo normale; troppo legata ad un’infanzia di cicatrici e violenze, ad un passato da orfana, figlia di una madre prostituta con evidenti disturbi psichiatrici e di un padre, apparente divo del grande schermo, che ha amato (e pagato) quest’ultima fino a quando ella non gli ha detto di aspettare una bambina; ma con quello “così finto” di Marilyn Monroe.
Un nome, che diventa personaggio e poi corpo, arrivando a rappresentare, per la ragazza, una vera e propria maledizione, una condizione soffocante, uno spettro invadente, biancastro, abbagliante, splendido, ipnotico, plumbeo, pervasivo, iconico, “larger than life”, che le renderà la vita un puro inferno di angoscia, sofferenza, privazione, traumi, violenza e mortificazione.
E sono proprio le ragioni e le conseguenze della nascita, dell’invasione e della sopraffazione di questo spettro più pallido e cadaverico, che etereo e puro, ciò che interessa maggiormente ad Andrew Dominik e al suo Blonde, un’opera che, come il quasi coevo Elvis di Baz Luhrmann (sarà un caso che entrambi i registi siano australiani?), utilizza i presupposti e l’apparenza del biopic hollywoodiano per dar vita ad altre riflessioni o accondiscendere altri bisogni espressivi.
Laddove però quello sul Re del Rock - che ne sfrutta la figura e la storia per parlare, in realtà, dell’artificio faustiano dello spettacolo e delle sue illusioni - si rivela ben presto essere uno degli inserti più misurati e nazionalpopolari della filmografia di Luhrmann, Blonde adotta un atteggiamento distruttivo, desacralizzante, vandalistico ed iconoclasta nei confronti del filone, delle strutture e degli assiomi del film biografico, innanzitutto disinteressandosi di una ricostruzione filologica ed attenta degli eventi ed ignorando così quasi tutti i grandi capisaldi, le interpretazioni e i momenti cruciali della carriera di Marilyn Monroe.
La pellicola di Dominik assume pertanto la forma di un’esperienza sensoriale che segue, col fiato sul collo, passo passo - e pure in termini filmici - l’analisi e la riflessione psicologica ed esistenziale condotta sul persona(ggio) della star hollywoodiana per antonomasia.
Un’esperienza, dunque, sovrabbondante, allucinata e schizofrenica nella scelta e nell’insistente e cangiante variazione di formato, colore e stile di ripresa (da una fotografia più classica, tipicamente casalinga od elegiaco-filologica, al documentario e mocumentario, fino ad arrivare ad estremi quali lo snuff movie e il porno); onirica, visionaria, sfuggente, indefinibile, come, del resto, era la stessa attrice e la sua immagine; volutamente controversa, esplicita, divisiva e provocatoria, poiché votata interamente - con la connivenza della colonna sonora sintetica (esattamente come l’immaginario e il personaggio della diva), martellante ed alienante, tra Lynch e i Pink Floyd, degli “amici” Nick Cave e Warren Ellis - a porre lo spettatore nel posto, nei panni e nello stato d’animo giusto per fruire e comprendere quello della sua protagonista, riportata in vita da una Ana De Armas magnifica (seppur resa un po’ troppo piagnucolosa) che riesce a non farsi soverchiare dall’immagine e dal mito di Marilyn, dandone viceversa un’interpretazione molto personale.
La storia di un’idea, di un’immaginario, di un’invenzione, di un’amore (“che è solo illusione”), di una favola, di un nome utile soltanto a scoprirne un altro (quello di un “daddy”, di un padre, di un uomo che non si conosce e si ricerca in tutti gli altri), che si insinua ed insidia nella propria carne nelle fattezze di un riflesso alterato di sé, di una “magica amica”, per poi diventare e concretizzarsi, a sua volta, in un corpo fatto per essere visto, ammirato, desiderato, penetrato (con lo sguardo o i suoi vari prolungamenti e surrogati), sfruttato, invidiato, sessualizzato, cannibalizzato, distrutto, finanche annientato da un cerchio di luce, legato ad una bugia che suona ancestrale, ma che, in realtà, è profondamente umana.
La pellicola di Dominik vuole perciò farci sentire tutte le responsabilità, il peso, oltre che l’irrefutabile bisogno di vedere e così rubare immagini, istantanee, sezioni del corpo di questa diva. Tant’è che ci pone praticamente allo stesso livello dei paparazzi che sparano addosso a Marilyn con i loro flash; che vendono pezzi della sua carne, del suo corpo al miglior offerente, anche dopo che quest’ultimo ha esalato l’ultimo respiro. Di più: siamo proprio noi, con il nostro sguardo indignato eppure insaziabile, ad imprigionare ancora una volta Norma Jean Baker in quel contenitore, da cui prima o poi ella riuscirà finalmente a liberarsi.
Blonde ci ricorda, in conclusione, quanto il cinema sia e possa essere ancora un grande veicolo di sensazioni, una grande, forse la più potente forma d’immersione esistente; ma anche quali possono essere i rischi di fatto autolesionisti che si possono correre a distruggere, dissacrare, demolire le regole, le forme, i canoni, fino al punto di non ritorno.
Un’opera più unica che rara, tuttavia imperfetta, talora didascalica e prolissa, e vittima di sé stessa, della visione che le è stata imposta da qualcuno (Dominik stesso), dei propri meriti e peculiarità, ma che, così facendo, compie, forse involontariamente, uno dei più grandi omaggi a Norma Jean Baker. Ad una stella invisibile, muta e dolorosamente sola. Prima di Marilyn, oltre Marilyn.
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