TITOLO ORIGINALE: Grazie ragazzi
USCITA ITALIA: 12 gennaio 2023
REGIA: Riccardo Milani
SCENEGGIATURA: Michele Astori, Riccardo Milani
GENERE: commedia, drammatico
DURATA: 117 min
Dopo Corro da te, Riccardo Milani continua la parabola del suo cinema fieramente popolare con Grazie ragazzi, remake del francese Un triomphe, a sua volta tratto dal documentario Les Prisonniers de Beckett. Forte di volti peculiari, alcuni grezzi, altri finalmente protagonisti, il regista dà vita ad una commedia placida, sobria, umilissima che dimostra un'etica, un valore ed un rispetto per la risata. Malgrado una scrittura semplicemente non all’altezza dei requisiti minimi di una trattazione più drammatica e seria di tematiche quali le carceri italiane e l'indifferenza deterministica delle istituzioni in merito alla riabilitazione dei condannati e delinquenti, Grazie ragazzi riesce comunque ad emanciparsi rispetto alla materia originale e per di più a ricordarci e ricordare al cinema italiano che è bene perseguire le proprie intenzioni, i propri progetti, il proprio sguardo fino in fondo e alle estreme conseguenze.
Se c’è una cosa che bisogna apprezzare di Grazie ragazzi e di cui bisogna dare il merito al regista Riccardo Milani e al suo co-sceneggiatore e co-soggettista Michele Astori, è il non assecondare e perseguire a tutti i costi, con ogni mezzo possibile, la via della commedia, accontentandosi di un più placido, sobrio ed umile dramedy. Di scegliere di strappare una risata, o forse due, allo spettatore solo ed esclusivamente nei momenti in cui è strettamente necessario. Di mostrare quella che potremmo defnire un’etica ed un rispetto tutt’altro che scontati (specie in un panorama italiano di tanti giullari e saltimbanchi e di pochi, se non pochissimi, mattatori) per la risata, l’ilarità, l’effetto esilarante.
Grazie ragazzi - che è il remake nostrano del fortunatissimo Un triomphe di Emmanuel Courcol, a sua volta tratto dal documentario Les Prisonniers de Beckett di Michka Saäl (quest’ultimo, incentrato sulle esperienze dell'attore svedese Jan Jönson nei penitenziari) - preferirebbe insomma che noi spettatori ridessimo, di gioia, con, e non dei personaggi; in accordo ed armonia col loro cammino esistenziale e teatrale da carcerati, e non strettamente del fatto di esserlo, dei carcerati.
Sta di fatto però che, nelle due ore di racconto delle vicende di un attore teatrale tramontato che si ritrova a dover insegnare cosa sia il teatro, cosa significhi recitare e come portare in scena Aspettando Godot di Beckett, ad un "concentrato di umanità", ovvero ad un manipolo di carcerati della Casa Circondariale di Velletri; i momenti più riusciti, quelli che meglio e più rumorosamente incontrano il calore e il sostegno del pubblico, sono proprio quelli stimolati dalla puerile, eppure buffissima inadeguatezza dei galeotti con la pratica, l’ambiente e (figuriamoci) la filosofia teatrale. Così come fa decisamente ridere, per quanto concettualmente e comicamente vecchio, nonché anacronistico ed improbabile in un mondo e in una realtà che dovrebbero corrispondere ai nostri (in cui dunque l’adattamento dei porno non esiste praticamente più, o comunque non sarebbe certo una pratica redditizia), uno dei primi equivoci legati all’attore, quest'ultimo riscopertosi, per fini puramente materiali, doppiatore di film porno, ovvero la frugale sessione telefonica di doppiaggio osè, con tanto di celerino che assiste sbattezzato alla scena.
Purtroppo però, nel momento in cui Milani & co. azzerano i tempi comici e vorrebbero dotare il proprio racconto di un retrogusto anche e soprattutto drammatico, o addirittura di risvolti pseudo-politici, -pedagogizzanti, -moralistici, Grazie ragazzi cede il fianco ad una scrittura semplicemente non all’altezza dei requisiti minimi di una trattazione e di tematiche di questo tipo.
Perciò: finché si tratta di utilizzare il teatro (dell’assurdo, quello di Beckett e del semanticamente oculato Aspettando Godot) quale metafora retorica della condizione di vita delle sue maschere “nella finzione della finzione”, o addirittura come veicolo di espressione, di esorcizzazione, oppure come palliativo, per rifuggere la loro condizione di carcerati - dominata dal preconcetto, dalla diffidenza, dalla noncuranza, dal disinteresse, dal determinismo, dall’irreparabilità, dal pressapochismo o, altrimenti, dall’ipocrisia, da atteggiamenti opportunistici, dalla vera finzione (simulata per equità e giustizia), che è spesso quella delle istituzioni -, Grazie ragazzi raggiunge in scioltezza il proprio obiettivo. Quando però dovrebbe addurre, rappresentare, fornire motivazioni rispetto a tali illazioni e critiche al sistema-Italia, si adagia su espedienti troppo indulgenti, affabili, innocui. Nella fattispecie, alla persuasività di un Antonio Albanese dimesso e per lo più in sottrazione, ad un finale confortevole, e alle parole non tanto di rottura, ma piuttosto riconciliatorie di un monologo, accompagnato dalla voce musicale oggi forse più sistemica e cerchiobottista, che è quella di Vasco Rossi.
In tal senso, alla pellicola di Milani manca dunque quell’effetto agrodolce e amaro che ben si sarebbe intonato con le atmosfere e la dimensione carceraria del racconto, rimpiazzato, al contrario, da un senso di incompiutezza e di irresolutezza che ne minano dalle fondamenta le speranze di memorabilità e di profondità.
Sta di fatto comunque che, dopo Corro da te, Grazie ragazzi non fa che continuare la parabola e riconfermare l’idea di un cinema popolare, che sa rendere lievi la realtà e alcuni dei suoi temi caldi, senza mai eccedere e diventare di cattivo gusto. Un cinema, quello di Milani, che si trova incredibilmente e maggiormente a suo agio con i volti - ancora meglio se peculiari o grezzi -, grazie a cui riesce a rendere apprezzabili ed un minimo appassionanti pure testi meno o non totalmente brillanti come quest’ultimo. Il quale è pure una creatura strana, lunga, eppure frettolosa e raffazzonata nello sbrogliare dinamiche e situazioni e nell’unire tra loro i diversi episodi di una vera e propria costruzione per ellissi, ma anche ripetitiva nella proposizione di un paio di momenti ed incerta nella sua seconda metà.
Laddove allora Antonio Albanese costituisce, per l’appunto, il paciere, il sicuro approdo ed una presenza quasi evanescente lungo tutto il corso del film (il suo personaggio avrebbe dovuto essere decisamente più ingombrante e fragile, meno , meno pragmatico e censorio e, in particolare, non così nettamente positivo), la parte da leoni spetta agli interpreti dei cinque talentuosi carcerati che saranno chiamati a portare in scena (più e più volte) l’assurdo testo di Godot. Parliamo dunque dell’intensissimo Vinicio “il Freddo” Marchioni, di un delizioso Giacomo Ferrara, di un divertentissimo Giorgio Montanini (che pare nato per il ruolo del padrone Pozzo), di un Andrea Lattanzi (ahinoi) trascurato ed infine del quasi esordiente Bogdan Iordachioiu, su cui si compie miracolosamente quel discorso di cui sopra in merito ai volti inesplorati e nuovi.
Inoltre, in questo marasma di piccoli attori (più per nome, che per statura espressiva), di caratteristi indubbiamente abili e dotati del nostro cinema che diventano grandi e finalmente protagonisti, riescono a ritagliarsi un piccolo spazio anche due figure decisive nell'economia del film, poiché veri e propri arbitri dello sviluppo della trama. Il riferimento è, ovviamente, ad una Sonia Bergamasco molto precisa e funzionale e ad un Fabrizio Bentivoglio impegnato nel recuperare la lezione di Turné di Gabriele Salvatores e donare ad un personaggio abbastanza blando e monotono un allure, un fascino, una particolarità tali di renderlo forse uno degli elementi più riusciti della pellicola.
Una pellicola, Grazie ragazzi, che, oltre ad emanciparsi e a trovare una propria cifra inedita rispetto all’originale francese, ci ricorda e ricorda al cinema italiano che, a volte, è meglio esprimere e comunicare verità essendo veri, che essere giusti ma irrimediabilmente falsi. Magari scivolando qua e là su qualche dettaglio, sbagliando l’approccio ad una determinata sequenza, non mostrandosi all’altezza dei propri compiti e delle proprie supposte ambizioni, ma sempre e comunque perseguendo la propria visione, la propria arte, le proprie idee, le proprie intenzioni, il proprio sguardo fino in fondo. Fino alle estreme conseguenze. Nel bene e nel male. Nella commedia più sguaiata e nel dramma più patetico e retorico.
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