TITOLO ORIGINALE: Corro da te
USCITA ITALIA: 17 marzo 2022
REGIA: Riccardo Milani
SCENEGGIATURA: Riccardo Milani, Furio Andreotti, Giulia Calenda
GENERE: commedia, sentimentale
Pierfrancesco Favino e Miriam Leone sono gli assoluti mattatori di Corro da te, il nuovo film di Riccardo Milani (Come un gatto in tangenziale). La storia di uno yuppie fuori tempo massimo, capo di un'importante azienda di scarpe da ginnastica, scapolo d’oro ed inguaribile playboy, esponente più eccellente di una società fallocentrica e maschilista, che tenta di conquistare il cuore di Chiara, violinista paraplegica perspicace, solare, intelligentissima, brillante, diventa motivo di ritorno o, meglio, di (solo) ricordo della commedia che fu, di quel cinema italiano che si scagliava e riusciva a scalfire la maschera collettiva perbenista, che sapeva trattare con sensibilità e vis comica territori spinosi ed "intoccabili". Peccato però che Corro da te non sappia o non voglia andare fino in fondo, che si accontenti giusto di un mero memorandum dei tempi andati, finendo inoltre per spezzare la preziosa sensibilità e raffinatezza comica precedentemente instaurata.
Tanto si è detto a proposito (e a sproposito) di Corro da te, il nuovo film di Riccardo Milani, noto regista di commedie di grande successo commerciale, divenute dei piccoli casi cinematografici tutti italiani, come i due Come un gatto in tangenziale, Scusate se esisto! o Benvenuto presidente. Pellicole che, pur non brillando per uno stile ricercato, tempi perfetti o gag geniali (anzi...), riescono e sono riuscite comunque ad imporsi e ad emergere in un mercato ormai saturo di prodotti di questo genere, che, salvo eccezioni (collocate soprattutto nel panorama delle nuove piattaforme di streaming), non hanno davvero nulla di nuovo o interessante da dire.
In tal senso, pure Corro da te - remake duro e puro (nel senso che forse gli unici aspetti veramente originali sono gli attori) della commedia francese politicamente scorretta Tutti in piedi di e con Franck Dubosc - è un po’ “il solito film di Riccardo Milani”, con i suoi luoghi comuni, le sue convenzioni, le sue battute facili, quei tipici momenti in cui la narrazione si congela per lasciare spazio a siparietti sì divertenti, tuttavia assurdamente gratuiti in questa loro disgiunzione dal fluire del racconto, oppure ancora le scenette ricorrenti, gli equivoci (ricavati dalla commedia all’italiana più classica) infilati a forza e portati fino al limite della sopportazione…
Elementi compensati però da una buona sintonia tra gli attori, un ritmo godibilissimo (nei limiti) ed un pizzico di satira, ironia, finanche parodia di temi ed argomenti “intoccabili” che ciononostante, se confrontate con i film anche solo di quaranta, cinquant'anni anni fa, appaiono al pari di un tentativo risibile, miserevole, maldestro, fallimentare di riportare la commedia de noantri a quegli stessi, irraggiungibili livelli di maestria, padronanza ed irriverenza.
Fin da subito, colpisce infatti la scrittura del protagonista, Gianni, portato in scena da un Pierfrancesco Favino puntuale e convincente chiamato ad interpretare il ruolo di un attore nato, un personaggio, quest'ultimo, a metà tra un “romanista imbruttito” ed uno yuppie fuori tempo massimo, capo di un'importante azienda di scarpe da ginnastica, scapolo d’oro ed inguaribile playboy. Un personaggio, insomma, che, anche solo trent’anni fa, sarebbe stato definito un vincente, uno che dalla vita ha tutto ciò che si può desiderare, esponente illustre di una società fallocentrica che vede la donna alla stregua dell’oggetto di una scommessa.
Un personaggio in sé vecchio di cui oggi, come giusto ed ovvio che sia, si evidenziano e mettono in luce invece i difetti, la disumanità, l’arroganza, l’ignoranza e la cafonaggine, le deprecabili qualità di trasformista ed acrobata sociale, la visione maschilista e sessista, finanche l’impotenza, la vecchiaia e la precarietà fisica.
Ricollegandoci a quanto sopra, sono allora proprio la cattiveria, la meschinità e l’empietà talora esagerate, gonfiate, pretestuose, impossibili, combinate ad un approccio evidentemente dissacrante nei confronti di tematiche come la morte, la religione e la disabilità (come è intuibile sin dal trailer, Gianni si fingerà disabile per conquistare Chiara, una ragazza paraplegica perspicace, solare, intelligentissima, brillante), a costituire gli elementi più interessanti di Corro da te.
“Qualità” capaci di porre il personaggio di Favino (quasi) sullo stesso piano di un mostro sessantino e settantino, addirittura di equipararlo, con le dovute distanze, ad una qualsiasi maschera di Alberto Sordi, facendo così dell’opera un rigoroso e garbato richiamo ad un cinema italiano che faceva ridere, che si scagliava e riusciva a scalfire la maschera collettiva perbenista, che sapeva trattare con sensibilità e vis comica territori spinosi, magari mostrando qualche limite figlio della propria epoca, ma servendo pezzi di storia del cinema ad oggi immortali.
Peccato però che Corro da te non sappia o non voglia andare fino in fondo, che si accontenti giusto di un mero riecheggio di ciò che fu, finendo inoltre per spezzare quella preziosa sensibilità e raffinatezza comica - anche e soprattutto nella cattiveria, nella deprecabilità, nella sfrontatezza, nella tracotanza - e così sprofondando in moralismi facili, bassi, da pubblicità progresso, superficialità stridenti, in un atteggiamento fin troppo protettivo nei confronti di Gianni/Pierfrancesco Favino, perfino nel cattivo gusto, nella grossolanità, nella trivialità. È quello che succede, ad esempio, nella sequenza di presentazione degli “amici di Chiara” con, in sottofondo, Chariots of Fire.
Non per questo stiamo parlando di un film insufficiente o non riuscito. Anzi, tutto il contrario: Corro da te dimostra un’attenzione al gesto, all’espressione, al tic comico che pochi contemporanei possono vantare ed una capacità di gestione degli attori (oltre a Favino, è bene citare la prova di una deliziosa Miriam Leone e la naturale simpatia di volti noti come Vanessa Scalera, Piera Degli Esposti, Pietro Sermonti e Carlo De Ruggieri) che, sommati al contributo di un’indubitabile chimica d’ensemble, rinvigoriscono da sole una sceneggiatura che, nel muoversi appunto con troppa circospezione, inoltre incapace di compromettersi del tutto in ciò che propone, di indossare gli stessi panni dall’inizio alla fine; finisce per scivolare in risvolti deludenti e piatti, utile terreno fertile per tutte quelle critiche che un testo con cotanto potenziale inespresso avrebbe potuto benissimo evitarsi.
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