TITOLO ORIGINALE: L'Envol
USCITA ITALIA: 12 gennaio 2023
REGIA: Pietro Marcello
SCENEGGIATURA: Pietro Marcello, Maurizio Braucci, Maud Ameline
GENERE: drammatico
DURATA: 99 min
Presentato alla Quinzaine des Réalisateurs del 75º festival di Cannes
Dopo il grande successo di Martin Eden, Pietro Marcello torna dietro la macchina da presa di un racconto di finzione con Le vele scarlatte, un altro adattamento di un grande romanzo novecentesco, che egli trasla e traduce per il grande schermo alla sua maniera, dunque rileggendolo, attualizzandolo, appunto adattandolo nel senso più stretto, ma pure virtuoso del termine, secondo le esigenze della sua sensibilità ed intuizione registica. Il risultato è un componimento a metà tra il sano trasognare e il necessario e moderno disincanto, un’apologia, un’ode del fare, del creare, del costruire, del fabbricare e, ça va sans dire, del sognare nella loro formazione e formulazione più artigianale, vera e verace, autentica ed antropica, ma pure miracolosa e miracolistica. E dunque una parabola autoriflessiva sulla magia del cinema, capace di rendere possibile o anche solo apparentemente credibile una mera, essenziale, primitiva illusione. Un invito a credere. Un’illusione fuori dal tempo in cui trovare fuga ed insieme risposta al proprio presente.
Sarà una coincidenza, ma Le vele scarlatte, la terza regia di finzione di Pietro Marcello (già mirato e ammirato alle prese con una trasposizione intelligente ed originalissima di Jack London in Martin Eden), ha qualcosa in comune con un film a lui apparentemente antitetico e sensibilmente molto diverso qual è di fatto Godland dell’islandese Hlynur Pálmason.
E, questo qualcosa, non consiste tanto in una scelta fotografica capace di restituire la concretezza, la matericità, ma pure l’umanità del fare film, dell’esserci e partecipare attivamente, faticosamente, direttamente alla creazione di qualcosa, come la fotografia di una terra dimenticata o forse ultima roccaforte di Dio e del mistero della sua creazione, oppure il racconto della melodrammatica storia di un padre e di una figlia nella campagna francese del primo dopoguerra. Ma piuttosto nel fatto che ciò che entrambi hanno da dire di più interessante e rilevante lo disvelano, sintetizzano, cesellano nelle primissime inquadrature, per poi limitarsi purtroppo ad un’indulgente ripetizione e reiterazione dello stesso discorso, solo in situazioni e con dinamiche differenti.
Nel caso de Le vele scarlatte, con cui Marcello adatta alla sua maniera (secondo la lezione di Martin Eden: dunque rileggendolo, attualizzandolo, appunto adattandolo nel senso più stretto, ma pure virtuoso del termine) un altro grande, per quanto meno popolare, romanzo novecentesco, ovvero Vele scarlatte del russo Aleksandr Grin; quanto appena scritto avviene con un paio di materiali d’archivio risalenti al periodo del primo conflitto mondiale, nel quale vediamo file di reduci che attraversano prima una cittadina sepolta sotto le macerie e poi un paesaggio paludoso incolto e selvatico per tornare alle loro case.
Immagini, queste ultime, che Marcello inserisce e giustappone alle proprie, operando su di esse un rinvigorimento ed una saturazione dei colori, un potenziamento dei toni della natura, in contrapposizione al grigiore e alla cupezza (anche esistenziale) delle presenze umane che attraversano questi luoghi e delle costruzioni che ne hanno contaminato l’essenza.
Così facendo - e (bisogna dirlo) in modo molto raffinato - il cineasta casertano ci introduce in quella che è la dicotomia estetica, di approccio, emozionale, ma anche fotografica alla base della pellicola. Difatti, così come la fotografia di Marco Graziaplena è spartita tra un tocco pittorico ed una corporeità cruda e ruvida, Le vele scarlatte frappone un gusto fantastico, un’atmosfera magica, un’allure fiabesca, ad un racconto vitale e familiare di traumaticità, dolori, sogni e speranze, raccontato con immagini dalla composizione ed esecuzione simil-documentarista, ed una camera a mano, imbracciata, operata, suonata al pari di uno strumento musicale dallo stesso Marcello, il quale si immerge completamente nelle vicende e nella storia che è chiamato a raccontare e trova il suo film a partire da ciò che l’essenza, il potere e la magia intrinseca ad ogni elemento pro-filmico (in particolare, a luoghi e volti, tutti affascinanti ed esoterici, a partire dal nerboruto e Geppetto Raphaël Thiéry, passando per l’esordiente, musa e ninfa Juliette Jouan, fino ad arrivare ad una meravigliosa e confortevole Noémie Lvovsky e ad un sarcastico, maldestro, sdrucito, ma romanticissimo Louis Garrel) e che l’alchimia tra di essi suscita in lui e nella sua sensibilità ed intuizione registica.
Egli e il suo occhio artificiale scrutano, osservano, si fissano, filtrano, focalizzano, costruiscono e disfanno, scrivono e cancellano, ammettono e confutano, sempre e solo rispondendo al loro insopprimibile, più immediato ed essenziale bisogno, ossia inquadrare, mettere in scena (d’altronde, in francese, lingua e cultura tutrice della visione di Marcello, regista si dice metteur-en-scène, letteralmente “colui che mette in scena”). Tale discorso acquisisce inoltre ancor più veridicità, senso ed attinenza nell’economia di una storia (e di un film) che è, di fatto, un componimento a metà tra il sano trasognare e il necessario e moderno disincanto, un’apologia, un’ode del fare, del creare, del costruire, del fabbricare e, ça va sans dire, del sognare nella loro formazione e formulazione più artigianale, vera e verace, autentica ed antropica, ma pure miracolosa e miracolistica.
Non a caso, Le vele scarlatte inizia proprio con una citazione tratta dal testo di Aleksandr Grin, nella quale questi scrive che “i cosiddetti miracoli si possono compiere con le proprie mani”. Le mani, appunto: simbolo e strumento per antonomasia del fare, ma anche veicolo attraverso cui dare forma e concretezza alle proprie fantasie, voce all’assunto “faccio ergo sogno” o all’idea che ogni cosa che immaginiamo infine può avverarsi. Un veicolo, dunque, politico e poetico in un mondo in cui, come afferma la presenza forse più evidentemente fantastica del film, “nessuno crede più nella magia”. Che è, neanche a dirlo, la magia del cinema, quel mezzo capace di rendere veritiero, possibile o anche solo apparentemente credibile una mera, essenziale, primitiva illusione; di visualizzarla, di farne un sogno ad occhi aperti.
Ecco quindi che Marcello prende le pagine e l’impianto e il racconto innegabilmente fiabesco di Grin per farne materia filmica moderna e femminile (il sogno del cinema diventa infatti il mezzo di affrancamento, riscatto ed emancipazione di una giovane donna dall’esistenza indigente e compassionevole), ma soprattutto per farne parabola e manifesto autoriflessivo per una filmografia che crede nel potere dell’arte e nel richiamo della creazione, nel bene e nel male, sia nei suoi esiti più positivi(stici), sia nelle sue mortifere conseguenze.
Una filmografia che pensa ai sognatori e agli artisti come a dolenti intermediari tra l’empietà e la crudeltà del tempo (ellittico, come il montaggio di Carole Le Page ed Andrea Maguolo), della Storia e di una società che osserva, giudica e deprava, e l’illusione atemporale, eppure dignitosa, nobile e responsabilizzante del “e vissero per sempre felici e contenti”.
Ne Le vele scarlatte, Pietro Marcello crede e ci invita allora a credere alla sua creazione: al rapporto che tratteggia calorosamente con i gesti, i silenzi e gli sguardi, ad una Francia tutt’al più inedita e rugosa, ad un’illusione fuori dal tempo in cui trovare fuga ed insieme risposta al proprio presente. E poco o non così tanto importa se il risultato finale consiste in un film privo di grandi picchi, talmente lieve da diventare evanescente, meno compiuto, prorompente e riuscito di Martin Eden.
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