TITOLO ORIGINALE: Vanskabte land
USCITA ITALIA: 5 gennaio 2023
REGIA: Hlynur Pálmason
SCENEGGIATURA: Hlynur Pálmason
GENERE: storico, drammatico
DURATA: 143 min
Presentato fuori concorso al 40° Torino Film Festival
Diventato noto agli occhi del mondo festivaliero con l'acclamato A White, White Day, l'islandese Hlynur Pálmason firma, con Godland, il suo terzo lungometraggio. Che è innanzitutto una crasi, una sintesi dei precedenti due, a partire dalla traduzione bilingue del titolo; ma anche una riconferma del tema centrale della poetica del cineasta, ovvero il rapporto della figura umana con la natura e ciò che lo circonda, da cui deriva, in ogni caso, il riconoscimento della miseria, dell'effimerità, della mortalità, della definitività della condizione di essere umano. A tal fine, questa volta sfrutta la storia vera e documentata del ritrovamento di una collezione di proto-fotografie su lastre di collodio umido della fine del XIX secolo e la fotografia in sé e per sé quale strumento parziale di comprensione del reale e di ciò che ci circonda. Peccato solo per una grande incapacità di sintesi ed un'indubbia sfiducia nelle immagini quali portatrici immediate e semplici di significato.
Di cosa voglia parlare, su cosa sia incentrato e cosa voglia esprimere, Godland, terzo lungometraggio dell’islandese Hlynur Pálmason (diventato noto agli occhi del mondo festivaliero con l’acclamato drama/thriller A White, White Day - Segreti nella nebbia), lo mette bene in chiaro, anzi lo mostra a meno di cinque minuti dai titoli d’apertura, con l’immagine di un sacerdote in posa di fronte a quella che dovrebbe essere una rappresentazione stilizzata e decisamente astratta di un panorama nordico, freddo, tempestoso.
In questa immagine apparentemente trascurabile risiede, in realtà, la sostanziosità e sostanzialità più profonde del testo di Pálmason, il quale torna a parlare della figura umana in rapporto, contrapposizione, dialettica, lotta, interrogazione, con la natura e ciò che lo circonda. Un confronto più o meno pacifico, conciliatorio, facile, che non fa altro che porre quest’ultima di fronte e direttamente con la verità della propria esistenza e la miseria, l'effimerità, la mortalità, l’inevitabilità, la definitività della propria condizione di essere umano.
Nel caso di Godland - con cui il cineasta compie una specie di crasi e sintesi dei suoi due lavori precedenti, del dualismo che li percorreva, così come della multietnicità e multiculturalità che caratterizza il cinema di quest’ultimo, a partire dalla scelta di tradurre il titolo sia in danese, sia in islandese, fino ad arrivare all’effettivo incontro/scontro di culture e posizioni -, Pálmason prende spunto dalla vicenda provata e reale del ritrovamento di una collezione di proto-fotografie su lastre di collodio umido della fine del XIX secolo, e la inserisce nella storia, ricamata e sviluppata a posteriori, di un prete danese che accetta e si imbarca in una missione di evangelizzazione della selvaggia, aspra e misteriosa Islanda (con tanto di costruzione di una chiesa). Egli decide tuttavia di prendere la strada più lunga e difficile da percorrere, al fine di scoprire, esplorare e vedere con i propri occhi questa terra, che, proprio perché ancora perlopiù disabitata ed incontaminata, conserva il tocco primigenio ed originario di Dio. Che è, come da titolo italiano, la terra di Dio.
Ciò detto, al di là dell’elemento sacro e morale di Lucas, questo sacerdote (interpretato nervosamente dal sodale Elliott Crosset Hove, a cui vengono dedicati primi piani che ricordano il cinema dei maestri russi) che, a metà tra Silence di Scorsese e Il petroliere di Paul Thomas Anderson, andrà incontro prima ad una profonda messa in discussione della propria fede, ma anche ad uno scontro ideologico fallocratico, arrogante e velenosissimo con quella che inizialmente è la sua guida in questa landa vastissima ed impervia (portata su schermo, sempre secondo quel processo di crasi di cui parlavamo sopra, dall’altro sodale Ingvar Eggert Sigurðsson); quello che più interessa a Pálmason e ai fini discorsivi del suo testo è proprio l’elemento fotografico in sé e per sé.
Attraverso il recupero del formato 1,33:1 (il cosiddetto "quadrotto" con gli angoli arrotondati), il quale riecheggia e restituisce la storicità scientifica, materiale costrittiva, liturgica, ardua della pratica fotografica di fine ‘800; il cineasta islandese vuole infatti sottolineare quanto limitate e limitanti, parziali, incomplete, faziose, immobili e mortifere, irrisorie, inaffidabili, inadeguate, imperfette siano le nostre forme di comprensione, registrazione, rappresentazione, narrazione, trasfigurazione (l’immagine che fa da sfondo fotografico a quell’uomo di cui sopra), iconografizzazione, definizione, visualizzazione della realtà, del mondo, della natura, del creato e dei suoi misteri, dei suoi segreti taciuti ed inafferrabili (“Qual è il tuo segreto? Perché non parli” chiederà il prete ad un cavallo). E, di riflesso, come già anticipato sopra, quanto meschini ed esigui siamo noi in confronto alla vastità, alla magnificenza soverchiante, all’imprevedibilità, alla mutevolezza, al dinamismo, alle regole e alle leggi inestricabili che muovono e guidano tutto ciò che non siamo noi.
Un’evidenza che il cineasta, coadiuvato in fotografia da Maria von Hausswolff, (ri)conferma attraverso la sua smentita e, nella fattispecie, tramite una serie di piani sequenza e panoramiche che, ontologicamente ed automaticamente, nel momento esatto in cui decidono di inquadrare e fissarsi su qualcosa perdono di vista qualcos’altro. Movimenti e rappresentazioni che, in tal senso, non possono di fatto disporre di una vera e propria visione d’insieme, definitiva, risolutiva, vera.
Ma anche e soprattutto un passaggio, quello del rapporto tra uomo e natura, in cui Godland si avvicina e accenna quasi alla tradizione western (solo herzoghianamente raffreddata), dove, come ben saprete, ad una conquista territoriale, geografica, topografica corrisponde sempre la conquista di uno spazio, così come di una posizione, di uno sguardo, di un orizzonte entro i suoi confini.
Peccato che quanto avete letto fino a questo punto sia intuibile e deducibile, come già scritto in apertura, già nei primi dieci minuti di film e che, di conseguenza, i restanti 130 non offrano altro se non panorami suggestivi, primi piani intensi e la ripetizione ossessiva degli stessi chiaroscuri, di suddetta contrapposizione, di suddetti discorsi, delle medesime situazioni e delle solite soluzioni visive. E se tutto questo può risultare indubbiamente utile allo spettatore ai fini immersivi e di immedesimazione nella faticosa, opprimente e disorientante traversata del protagonista (con l’aiuto spettacolare e il potere avvolgente del grande schermo), lo stesso fa di Godland un’opera non tanto pienamente compiuta, quanto piuttosto soddisfacentemente completa ed articolata.
Se padre Lucas dovrà allora accettare il suo posto, la sua utilità, la sua funzionalità, la sua inevitabilità all’interno della “terribile bellezza”, lo spettatore, per venire a capo ed avventurarsi proprio in questa “terribile bellezza”, dovrà essere disposto a sobbarcarsi o quantomeno accettare che neppure (anzi soprattutto) la produzione più impegnata, sofisticata, anacronisticamente detta “d’autore”, è immune a due delle piaghe dilaganti del presente cinematografico. Che sono l’incapacità di sintesi (più nell’atto pratico, che nelle intenzioni) e (questo, perlomeno coerentemente al discorso filmico) la sfiducia nell’immagine.
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