TITOLO ORIGINALE: Tre di troppo
USCITA ITALIA: 1 gennaio 2023
REGIA: Fabio De Luigi
SCENEGGIATURA: Michele Abatantuono, Fabio De Luigi, Lara Prando
GENERE: commedia
DURATA: 107 min
Per la sua seconda esperienza dietro la macchina da presa, Fabio De Luigi riabbraccia la collega ed amica Virginia Raffaele, con la quale era riuscito a rendere indimenticabili momenti di pellicole, dal canto loro, dimenticabili. Tre di troppo è allora la riconferma deliziosa di questo sodalizio fulgido, amabile e (si spera) fruttuoso, ma anche forse l’attestazione palese ed evidente della croce che gli pare essere inevitabile. Al di là dei quindici minuti iniziali, contraddistinti da una messa in scena incontenibile che inanella ed amalgama curiosamente un profluvio di ispirazioni, stili, linguaggi, registri e stimoli diversissimi, i due attori sono infatti così centrali, così ingombranti ai fini del prodotto in sé e per sé, da convertirsi anche nella sua sola colonna portante e nel suo unico, vero motivo d’interesse. Il grande cuore dimostrato è capace tuttavia di fare di Tre di troppo una commedia che è impossibile non amare.
Che la coppia Fabio De Luigi - Virginia Raffaele funzionasse bene su schermo ed avesse una chimica invidiabile, non lo si scopre mica con Tre di troppo, ultima esperienza dietro - oltre che davanti - la macchina da presa del comico, attore e showman romagnolo, fu membro della Gialappa’s Band e, anche solo una decina di anni fa (ovvero in tutt’altro tempo per il cinema e l’industria italiana), re incontrastato del botteghino.
Basterebbe infatti notare e ricordarsi dell’alchimia che avevano dimostrato di fatto tutte le volte che si sono incontrati sulla scena (ergo in quasi tutte apparizioni che la Raffaele ha concesso al grande schermo). Parliamo quindi di Com'è bello far l'amore di Fausto Brizzi e di Una donna per amica di Giovanni Veronesi: pellicole, queste ultime, neppure poi così brillanti, ma che ciononostante contengono momenti capaci di tramutarsi in spazi comici esilaranti solo ed esclusivamente per la sintonia e il feeling dimostrati da questa strabiliante coppia di mattatori.
In tal senso, Tre di troppo è allora la riconferma deliziosa di questo sodalizio fulgido, amabile e (si spera) fruttuoso, ma anche forse l’attestazione palese ed evidente della croce che gli pare essere inevitabile. I due attori sono infatti così centrali, così ingombranti ai fini del prodotto in sé e per sé, da convertirsi anche nella sua sola colonna portante, nonché nell'unico o quasi motivo d’interesse del racconto imbastito dallo stesso De Luigi, insieme a Michele Abatantuono e Lara Prando.
Diciamo quasi perché forse il frammento più interessante e riuscito della pellicola sono i suoi quindici minuti iniziali. Quelli in cui l’istanza narrante ci presenta e delinea le caratterizzazioni dei due protagonisti della pellicola, Marco e Giulia, interpretati, neanche a dirlo, dal duo comico.
Infusi dello spirito di Peter Sellers, graficamente partoriti dalle menti di Chris Meledandri, Pierre Coffin e Chris Renaud, e fuoriusciti da un cartoon della Illumination, i personaggi - dal gusto angloamericano - di De Luigi e Raffaele entrano in scena con una carica e sintesi segnica, una veemenza, una cattiveria ed una malizia inediti per l’attuale panorama italiano. Alti ed altezzosi, slanciati ed impeccabili, coesi in tutto: fisicamente, sessualmente, filosoficamente, sentimentalmente; arroganti, aggressivi, prepotenti e meschini fino a diventare spregevoli, detestabili, ripugnanti; sprezzanti ed insolenti nei confronti di ogni cosa sia e significhi bambino e conseguentemente genitore: Marco e Giulia non lasciano un attimo di tregua allo spettatore, mentre vengono inquadrati, glorificati, assecondati, piegati e modellati, trasfigurati e sublimati dalla macchina da presa e da una messa in scena incontenibile, che, a partire da un accenno sottile, intelligentissimo, molto dark, al “lavoro più vecchio del mondo” (il genitore, che pensavate?), inanella ed amalgama curiosamente un profluvio di ispirazioni, stili, linguaggi, registri e stimoli diversissimi: dalla slapstick comedy a sperimentazioni cartoonesche con la CGI (ed un cane pestilenziale che sembra il frutto di una fantasia di Wes Anderson), fino ad arrivare ad un segmento propriamente horrorifico, kinghiano nella fattispecie.
Lo stesso segmento che coincide poi con l’arrivo, nel racconto di Abatantuono, De Luigi, Prando, di una quota fantastica e di un elemento magico, che è sempre più presente nel recente cinema nostrano dai tempi de Lo chiamavano Jeeg Robot o, in altre parole, da quando lo sceneggiatore Nicola Guaglianone (qui presente, non a caso, in veste di attore in un simpatico cameo) ne ha calcato, seppur a suo modo e dietro le quinte, le scene.
Quota fantastica che consiste, in fondo, nel gancio narrativo dell’intera operazione, la quale si converte pertanto alla dottrina delle if-comedies simil Big, Ricomincio da capo, Sliding Doors e What Women Want. Difatti, a seguito di una serie di motteggi e derisioni, uno degli amici (alienati, esauriti, prosciugati, traumatizzati dall’esperienza genitoriale) di Marco e Giulia gli scaglia addosso una maledizione, che consiste, di fatto, in un’inversione dei ruoli, facendo irrompere improvvisamente, nelle loro vite perfette, ben tre figli da accudire, seguire, accontentare, istruire e forse amare.
Ciò detto, la premessa, così come quei quindici, venti minuti iniziali - contraddistinti inoltre da una presenza inquietantemente esilarante - non vengono sviluppati uniformemente ed adeguatamente, con la medesima esuberanza, pure chiassosa, caotica ed informe, e la giusta dose di cinismo e malignità, dalla restante porzione di Tre di troppo.
Paradossalmente, più la pellicola si addentra nei meandri dell’inadeguatezza comica dei due neo-genitori, montando una sorta di assurdo e surreale inferno dantesco, composto dalle tipiche situazioni e da tutti i mali irriducibili e più contemporanei dell’esperienza genitoriale; più essa si sgonfia, perde di mordente, vivacità e, in modo speciale, di quell’elemento magico che si rivela essere un mero veicolo: dà infatti il via a tutto e torna solo negli ultimi minuti, a chiusura del cerchio e restaurazione, con qualche ricordo in più, della realtà iniziale.
Ciò detto, quello che di efficacemente comico rimane in questa generosissima porzione centrale è concesso e regalato allo spettatore, da un lato, da una certa sfrontatezza e coraggio nell’includere parolacce e temi come la droga in un prodotto rivolto, nello specifico, ad un pubblico familiare; dall'altro, e in larga parte, appunto dalle travolgenti e convincenti interpretazioni di Fabio De Luigi e Virginia Raffaele - la quale non solo arriva sorprendentemente (per il cinema italiano, almeno) a condividere lo stesso screentime del collega, bensì viene anche e soprattutto capita dal De Luigi regista, sia in qualità di attrice, e di corpo e volto comico iper-modellabili, sia pure come donna con una propria sessualità e sensualità, che ella non disdegna di esprimere e la macchina da presa non esita a rappresentare a sua volta - e dalle interazioni che la coppia intrattiene con tutto il cast di comprimari, tra cui citiamo un esilarante Fabio Balsamo ed una magnifica Barbara Chichiarelli.
Forse il film e la regia attore-centrica sono così tanto concentrati su loro due, così come sulla rappresentazione assurda ed esasperata degli adulti, da dimenticarsi poi di quello che è in fondo il vero fulcro di tutta la questione: i bambini, nei confronti dei quali il cinema italiano dimostra ancora una certa idiosincrasia ed una certa reticenza narrativa, e che pertanto vengono inclusi nella pellicola alla stregua di veicoli ed oggetti magici.
Conosceremo sì Max, Sofia e Simeone (i bravissimi e simpaticissimi Francesco Quezada, Greta Santi e Valerio Marzi), ma lo faremo sempre attraverso gli occhi impreparati e disagiati dei loro genitori e, di conseguenza, mediante una caratterizzazione sommaria ed estremamente bidimensionale. Max, dalla fattezze più rotondeggianti, è dolce ed affettuoso, sempre in cerca di abbracci dalla madre. Sofia è definita dalla sua passione per Stranger Things, di cui vorrebbe interpretare Undici in una recita scolastica. Simeone, infine, è forse il più precoce e maturo dei tre, ma anche il più acuto, come denotano didascalicamente anche i suoi occhiali.
Un'approssimazione e totale soppressione della vita e del punto di vista dei bambini, queste, che Michele Abatantuono aveva già mostrato e fattoci lamentare nel recente Tutti a bordo (dove l'aspetto bambinesco ed infantile era semmai ancor più importante), e che spoglia un po’ il finale, enfaticamente ed evidentemente emotivo, della carica patetica e commovente che avrebbe potuto sprigionare, qualora avessimo pensato, già da subito e non solo alla fine, ai tre come a vere persone e veri personaggi attivi della vicenda.
Al di là però di tutto quello che di inesatto, impreciso ed ingenuamente grezzo c’è e ci può essere, Tre di troppo può vantare tre cose che gran parte del coevo cinema italiano non ha: un senso editoriale e commerciale, una capacità di interessare e parlare sia ad un pubblico adulto che bambino (pur non rendendogli giustizia) - una caratteristica che mutua dal miglior cinema per famiglie d’oltreoceano -, e, ultimo ma non certo per importanza, un cuore. Un grande cuore. Il che non è cosa da poco per una commedia orfana come la nostra, che, in Fabio De Luigi e Virginia Raffaele, ha trovato forse due nuovi tutori.
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