TITOLO ORIGINALE: Avatar: The Way of Water
USCITA ITALIA: 14 dicembre 2022
USCITA USA: 16 dicembre 2022
REGIA: James Cameron
SCENEGGIATURA: James Cameron, Rick Jaffa, Amanda Silver
GENERE: fantascienza, azione, avventura
DURATA: 192 min
Tredici anni dopo aver scosso il mondo con Avatar, la sua parabola sulla visione, l'annunciazione (sterile, purtroppo) di un nuovo corpo cinematografico e spettacolare, James Cameron torna al cinema con La via dell'acqua, una creatura filmica strana, forse però (e perché) pure unica nel suo genere, un film destabilizzante, spesso quasi schiacciante, uno che nasconde un grande impianto teorico dietro un’idea semplicissima, o ancora, la definizione più stretta del concetto di sequel che lui stesso ha contribuito a varare, un’opera corale che respira all’unisono in un flusso condiviso. Con Avatar - La via dell'acqua, Cameron scopre o forse inventa addirittura la formula alchemica, la pietra filosofale, il respiro essenziale del blockbuster, tenendo insieme un'apparente ed inconciliabile contraddizione. Semplicemente ed ambiziosamente oltre, Avatar - La via dell'acqua è un film sul vedere e sul vedersi come mai prima d’ora. Come parte di un incantesimo imprendibile, inspiegabile, impenetrabile, ma di fronte agli occhi di chi sa (e vuole) guardare.
Non molti sanno che, finito Avatar [qui la nostra retrospettiva], James Cameron aveva intenzione di abbandonare il cinema, quel mondo a cui - lo ricordiamo - si è approcciato quasi per caso e in cui ha iniziato a muoversi come tecnico degli effetti speciali, lavorando in B-movies cormaniani quali Il pianeta del terrore, Android - Molto più che umano e Rock ’n’ Roll High School, tutti inestimabili gioielli di immaginazione ed invenzione “fai-da-te”.
Infatti, nonostante la Fox avesse ordinato un sequel immediato del kolossal subito dopo il suo grande successo al box-office, il regista non voleva “ripercorrere la stessa strada”. Desiderava dedicarsi viceversa ad altre sue passioni, come, ad esempio, la sostenibilità ambientale e l’esplorazione degli oceani. Ecco quindi che, nel 2012, all’interno di un sottomarino progettato insieme alla National Geographic Society, Cameron divenne il primo uomo a raggiungere in solitaria il punto più profondo della Terra, nella Fossa delle Marianne.
Col senno di poi, è davvero una coincidenza curiosa e pure un po' buffa che, nel tentativo estremo di allontanarsi per sempre dalla strada intrapresa “quasi per caso”; quella che lo aveva reso una delle personalità più importanti della storia del cinema nordamericano, uno degli ultimi grandi, vecchi cantastorie dell’industria spettacolare hollywoodiana (dopo Lucas, Scott, Zemeckis e Spielberg) ed uno dei più forti sostenitori dell’immagine quale principale veicolatrice di significati e storie; egli non sia però riuscito ad allontanarsi dall’acqua, l’elemento in cui è sempre parso trovarsi più a suo agio. Quello che ne ha segnato il debutto (con Piraña paura) e che, da allora, è tornato ciclicamente nei suoi progetti: dal sottovalutato The Abyss, passando per i documentari scientifico-eroici, fino ad arrivare al suo film più premiato (Titanic); e che per lui non è tanto un’ossessione, quanto piuttosto un richiamo insopprimibile e affascinante al di là di ogni ragionevole comprensione e dubbio.
E laggiù, nei 10.929 metri di profondità della Fossa delle Marianne, ci piace pensare che, quasi fosse il protagonista di uno dei suoi film, Cameron abbia trovato qualcosa; una cosa che lo abbia infine spinto ad intraprendere questa nuova impresa, ad assecondare e dar corpo, forma, vita, per l'ennesima volta, ad una follia necessaria, essenziale, vitale, e dunque a dare il via alla produzione di ben quattro sequel ambientati nel suo eccellente Eden immaginifico, cinematografico, visionario, di cui il primo, che non a caso si intitola La via dell’acqua, è appena sbarcato nelle sale, ben tredici anni dopo l’uscita del capitolo originale.
Medesimi sono gli anni passati anche su Pandora per la tribù Omaticaya, di cui l’ex-marine Jake Sully, ora tutt’uno col suo nuovo corpo (cinematografico), è ancora il leader indiscusso. Al momento, tuttavia, egli, con l’aiuto della moglie Neytiri, è impegnatissimo a portare a termine un’altra missione, forse la più difficile di tutta la sua vita (e che, non casualmente, affronta secondo l’unica filosofia che conosce, ossia quella del soldato), quella che lo mette più in crisi come uomo. Ossia essere e, soprattutto, avere senso come padre di quattro figli, il diligente (quasi un ibrido di mamma e papà, una natura profetica) Neteyam, (il ribelle, sensibilissimo) Lo'ak, Kiri (la figlia, dal concepimento misteriosissimo e miracoloso, dell’avatar della compianta dottoressa Grace) ed infine la piccola Tuk.
Eppure, come (ci) dice lo stesso Sully, “la felicità è semplice”, ma è altrettanto semplice tutto il suo contrario: l’infelicità, la tristezza, la malinconia, il dolore, la sofferenza, la morte. A tal proposito, pur avendoli sconfitti anni e anni prima, all’orizzonte, o meglio, in cielo si stagliano nuovamente le navicelle degli invasori, i quali, in fuga da un pianeta Terra che “sta morendo”, sono pronti a piegare nuovamente Pandora ai loro sporchi, corrotti, immorali ed individualistici scopi. Tornano allora a spirare i venti di guerra e nessuno è più al sicuro, specialmente Jake e la sua famiglia.
Ebbene, prima di conoscere il vero significato e l’entità di questa “via dell’acqua”, Avatar 2 passa di fatto quasi un’ora per rifarci prendere contatto con la realtà di Pandora e (per chi vedrà il film in 3D, che, anche in questo caso, non è tanto consigliato, quanto obbligatorio) dimestichezza con quello sguardo reincarnato che, nel primo, diventava l’elemento fondativo di un nuovo corpo cinematografico e di una riscoperta e rianimata forma di spettacolo.
Ci riporta a correre tra le foreste e a volare tra le rocce sospese, patria del popolo Omaticaya. Ci stupisce, ergo ci fa tornare bambini, ma, a differenza del primo film, lo fa in maniera più concreta ed evidente, in quanto pone l’obiettivo ad un’altezza minore, all’altezza di teenager e bambino, come sono, del resto, i figli di Jake e Neytiri e pure Spider, una sorta di (quinto) figlio acquisito, malgrado le perplessità e le idiosincrasie tradizionaliste della regina Na’vi - un ragazzo umano nato su Pandora, che, troppo piccolo per poter essere rimandato sulla Terra, si è innamorato della foresta e ha stretto un forte sodalizio con i Sully. Ritorna alle origini sensuali e spirituali del racconto del 2009, rifacendo o, addirittura, riproponendo inquadrature e momenti di quel capolavoro. Ridefinisce quelli che sono gli equilibri e le ideologie dei due schieramenti - e gli umani (specie i bianchi), questa volta, sono ancora più mostruosi, ipocriti, perversi, boriosi, arroganti, fallocentrici, ridicoli, parodistici, goliardicamente odiosi nel senso più spielberghiano del termine (alias la rappresentazione dei nazisti nel suo cinema). Riporta indietro dal regno dei morti, nel corpo di un avatar, pure il villain del primo film, il colonnello Miles Quaritch, che, pur non volendo virilmente accettare, né tantomeno guardare in faccia la propria morte (che rimarrà per lui un trauma, così come l’immagine e le frecce della sua assassina), tenterà di vendicarsi e prendersi la sua rivincita nei confronti dell’ex marine e della sua famiglia.
Un’ora, la primissima di Avatar - La via dell’acqua, in cui Cameron ci propone giusto un assaggio dell’evoluzione tecnologica che ha investito e portato a livelli mai visti prima la motion capture, così come la composizione stereoscopica delle immagini e la loro resa più immersiva (diversamente dall’effetto pop-up ed emersivo del primo), grazie ad una grafica più nitida e pulita degli elementi in movimento, e ad un potenziamento e ad un uso più accentuato della profondità di campo; ma anche una vera e propria lezione di montaggio - che lui stesso ha curato insieme a David Brenner, John Refoua e Stephen E. Rivkin -, dove tutto è rigorosamente e miracolosamente posto al momento giusto, nelle giuste dosi, essenziale ed insieme fluviale, inflessibile eppure dinamicissimo, invisibile ma percettibilissimo.
Due elementi, questi ultimi, le cui potenzialità narrative, emozionali, tecniche e tecnologiche esploderanno letteralmente nelle due ore successive, dando vita ad un climax quasi estatico, che è sia la perfezione e lo stato dell’arte, sia il testamento, la pietra tombale, la massima latitudine dell’epopea hollywoodiana.
Uno in cui ogni variabile della visione e del racconto: ovvero tutti gli archi narrativi tracciati fino ad allora, l’evoluzione dei numerosissimi personaggi (la cui scrittura, caratterizzazione e approfondimento, molto più ricalcati di quanto accadeva nel primo capitolo, sembrano avvicinarsi agli standard dell’odierna “complex TV”) e tutto l’infotainment fantastico del mondo acquatico del clan Metkayina e della cosiddetta “via dell’acqua” al quale Cameron, assistito dai co-sceneggiatori Rick Jaffa e Amanda Silver, dedica uno statico ma (di nuovo) vivissimo e vitale intermezzo - quest'ultimo, più vicino al primigenio cinema delle attrazioni mostrative (tant’è che avrebbe potuto pure liberarsi della parola), dove il canadese racconta più storie insieme semplicemente facendocele guardare da sguardi ed ocularizzazioni sempre diverse, ribaltando continuamente prospettiva, lasciandone intuire il funzionamento, lasciando che sia l’intensità e sostanziosità semantica dell’immagine, ma anche il suo misterioso ed illusorio miracolo a guidarci, stimolarci, eccitarci, emozionarci, accompagnarci -; confluisce nella promessa di un nuovo, forse ultimo viaggio attraverso l’(im)possibile.
Superata questa decostruzione strutturale, possiamo liberamente dire che Avatar - La via dell’acqua è una creatura filmica strana, forse però (e perché) pure unica nel suo genere. Un film destabilizzante, spesso quasi schiacciante, i cui motivi, ragioni e sentimenti sono però quanto di più istintivo, innato, spontaneo; uno che nasconde un grande impianto teorico dietro un’idea semplicissima, quella supposta (da Jake) semplicità, e quindi la semplice formula della felicità (per lo spettatore) o, ancora, la definizione più stretta del concetto di sequel che lui stesso, prima con Aliens - Scontro finale e poi con Terminator 2 - Il giorno del giudizio, ha contribuito sostanzialmente a varare. Vale a dire prendere il primo film, ma ampliarlo, trasmutarlo (in nuovi corpi, ma con gli stessi attori - si pensi a Stephen Lang e a Sigourney Weaver), trasmigrarlo, prendere quello che era l'individualismo avventuroso, da classico racconto di frontiera, e parcellizzarlo, distribuirlo, spalmarlo su una moltitudine di personaggi e storyline differenti, ma che contribuiscono ad un’opera corale che respira all’unisono in un flusso condiviso: la via dell’acqua.
Un appiglio facile - le numerose attinenze col primo capitolo - per chi, non pago di aver sminuito il vero discorso del primissimo film sulla base di una disonesta e mera insoddisfazione narrativa e narratologica, si scaglierà anche contro la natura sequel-remake di quest’ultimo. Una possibilità rispetto cui Cameron dimostra grande consapevolezza e alla quale risponde con un imprevisto sense of humor e sottile intelligenza, non facendo altro che foraggiare le critiche relative alla prevedibilità e proverbialità dell’intreccio ed includendo pure Tarzan (e un “ragazzo scimmia”, lo chiamano proprio così) nel mucchio conveniente (e quasi più prevedibile del film stesso) di Pocahontas e Balla coi lupi.
Ma appunto tale semplicità, tale essenzialità, tale linearità è solo una delle sostanze di un composto chimico ben più importante; serve al canadese per realizzare quello che è evidentemente, come anticipato sopra, un progetto ed un disegno teorico; per tradurre e trasmutare (appunto) in concretezza filmica ciò che gli ha mostrato, concesso, accordato, consegnato la via dell’acqua. Che è poi la forza inconscia, passionale, automatica, poiché umanissima, delle storie, quello che la dottoressa Grace e ora il suo clone cristologico (e quindi lucasiano) sta(va) cercando, un miracolo, una connessione, un sistema di pesi e contrappesi, di azioni e reazioni, di doni e perdite, una forza invisibile che scorre in tutto e tutti e che qui viene resa finalmente visibile, sensuale, tattile.
Possiamo dire allora che Cameron, in questo lunghissimo periodo, oltre alla tecnologia necessaria a realizzare le sue luminosissime ed iconiche ombre, ha trovato, forse addirittura inventato, la formula alchemica, la pietra filosofale, il respiro (importantissimo in termini mitopoietici e tensivi nel racconto) essenziale del blockbuster e lo ha posto in essere e al servizio di una pellicola che si vuole spingere ancora più in là del suo capostipite, oltre i confini della visione. Il tutto, pur mantenendosi a richiami, attrazioni, temi, leitmotiv, istinti archetipici, primitivi, essenziali, semplicissimi, basilari, universali.
Un po’ come i tulkun, le bestie sensibili ed iper intelligenti, animali secolari, più simili a contenitori post-moderni, a grandi computer, a magniloquenti banche dati su tutto lo scibile universale, ma che, pur in questo loro essere futuribili, quasi utopici, rimangono comunque avidi di storie e racconti, empatici e umanissimi. Essi sono, a tutti gli effetti, incarnazione di ciò che è, per chi vi scrive, Avatar - La via dell’acqua - e il fatto che il liquido energetico e l’elisir di lunga vita sia contenuto al loro interno è solo una conferma di questa nostra idea.
Ciò detto, il segreto dell’eccezionalità e della vera singolarità di questo sequel - in cui, come sempre avviene nei film di Cameron dai tempi del primo Terminator, il destino del mondo dipende da uno o più legami, siano essi naturali o acquisiti, e dalla loro armonia, dalla loro riunione, dal loro riconoscimento, dal loro sguardo (“ti vedo”) - sta proprio nel suo riuscire a tenere in armonia e in equilibrio questa apparente ed inconciliabile contraddizione.
Oltre il post-modernismo di generi e linguaggi diversi tra loro: romanzo di formazione, action-thriller, monster movie, western hawksiano, film muto e cinema delle attrazioni, ma anche serie televisiva e videogioco; oltre l’ipertesto (si pensi ai riferimenti alla letteratura dei grandi romanzieri avventurosi, tra cui, più esplicitamente, Melville e il suo Moby Dick, passando appunto per i suoi colleghi di cui abbiamo già citato i nomi sopra, a cui potremmo aggiungere quello del coetaneo Michael Mann); oltre l’autocitazione e il compendio: dalla Neytiri-Sarah Connor al disorientamento di scrittura del villain Quaritch sulla falsariga di quanto avvenne in Terminator 2 con il leggendario personaggio di Arnold Schwarzenegger, dalla “maternità surrogata” di Aliens, affidata, non a caso, proprio alla storica Ripley, alla love story uomo-natura, con tanto di bioluminescenze, di The Abyss, per non parlare infine del catastrofico epilogo stile Titanic dove l’innocenza di alcuni individui diventa una consapevolezza storica, una consapevolezza della propria(!) storia.
Insomma, Avatar - La via dell’acqua è semplicemente ed insieme ambiziosamente oltre. Un alieno, inimmaginabile, nuovo vaso di Pandora. Ancora una volta, tredici anni dopo, un cinema per cui Hollywood non è e, probabilmente, non sarà pronta. Vedere e vedersi come mai prima d’ora; come parte di un incantesimo imprendibile, inspiegabile, impenetrabile, ma di fronte agli occhi di chi sa (e vuole) guardare.
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Per i dettagli sui retroscena della lavorazione, abbiamo fatto fede all'articolo di Mirko D'Alessio su BadTaste.it.