TITOLO ORIGINALE: L'uomo sulla strada
USCITA ITALIA: 7 dicembre 2022
REGIA: Gianluca Mangiasciutti
SCENEGGIATURA: Serena Cervoni, Mariano Di Nardo
GENERE: drammatico, thriller
DURATA: 110 min
Presentato in anteprima alla Festa del Cinema di Roma 2022
Opera prima del romano Gianluca Mangiasciutti, L'uomo sulla strada è una tipica storia di percezione, memoria e ricordi distorti che vorrebbe essere un thriller (delocalizzato) dei sentimenti, ma funziona più come dramma sull'accettazione e sul perdono. Il suo peccato originale consiste forse nel sottovalutare la percezione e l'intelligenza dello spettatore e puntare, anche drammaturgicamente, su un twist che è possibile prevedere sin dai trailer. Ma, per fortuna, ci pensa Aurora Giovinazzo col suo sguardo magnifico, il suo fisico robusto e la sua intensità espressiva a portare L'uomo sulla strada verso il film che avrebbe potuto essere, ma che purtroppo non è.
Chi è L’uomo sulla strada? Michele, figlio di una famiglia benestante ed influente, proprietaria di un’industria metallurgica, di cui, alla morte del padre, è diventato ed è tuttora il padrone, personaggio schivo, tenebroso, enigmatico, ex alcolista e teppista, costantemente perseguitato da un brutto ricordo, da un fantasma, da un volto e da un nome che non riesce proprio a dimenticare. Sono quelli di Irene, che, da piccola, diventa l’unica testimone della morte del padre, investito proprio dal giovane rampollo in un eccesso di euforia. Per dieci anni rivivrà quell’incubo, tentando di ritrovare e visualizzare il volto di quell’uomo, responsabile di indicibili sofferenze e di un trauma che ha condizionato tutta la sua esistenza e ne ha forgiato il carattere, finché, a pochi mesi dall’entrata in prescrizione del reato, se lo trova di fronte a sua insaputa. Abbandonata la scuola e l’unico luogo in cui sta bene: la piscina; la neo diciottenne verrà infatti assunta come impiegata proprio nella fabbrica che dirige Michele, con cui malauguratamente stringe un rapporto sempre più saldo che potrebbe pure tramutarsi in qualcos’altro…
Mentiremmo se non vi dicessimo che quanto avete appena letto, punteggiatura inclusa, è tutto (o solo?) ciò di cui parla L’uomo sulla strada. E prima che tiriate fuori i forconi gridando allo “spoiler”, sappiate che le righe di cui sopra sono tutto ciò che si riesce a dedurre e a presumere non tanto a metà dei 110 minuti lungo cui si sviscera il racconto scritto da Serena Cervoni e Mariano Di Nardo, ma addirittura dal minuto scarso di trailer che trovate disponibile online e che probabilmente avrete visto in sala, se ne siete assidui frequentatori.
Ed è forse proprio questa sottovalutazione percettiva e spettatoriale il peccato originale, oltre che il limite più evidente dell’opera prima del romano, classe 1977, Gianluca Mangiasciutti, la quale si configura, o meglio, vorrebbe configurarsi quale thriller delocalizzato, italiano solo nei nomi coinvolti nella produzione, integralmente guidato dai personaggi, dalla tensione emotiva, dall’innesco e disinnesco delle relazioni e delle dinamiche che si instaurano tra loro. Una pellicola che intende parlare delle ossessioni e delle ombre della nostra vita che, per quanto tentiamo di scacciare, tornano regolarmente a chiedere il conto.
Un film, L’uomo sulla strada, che ciononostante, viste le premesse deboli: leggasi l’inconsistenza dell'intreccio, una scrittura fin troppo plateale del personaggio di Michele, interpretato, a sua volta, da un Lorenzo Richelmy poco abile nel lavorare con le possibili sfumature psicologiche del suo personaggio, funziona, ripiega e si converte rapidamente alla dottrina del dramma. Di un dramma su una sindrome di Stoccolma sui generis, a parti rovesciate ed inconsapevole per una di queste due, che accenna anche ad una possibilità di perdono, accettazione e redenzione, i cui meccanismi e toni Mangiasciutti impiega e rispetta meglio di quanto non faccia con la componente thrilling - appunto prevedibile, come il jumpscare con cui sceglie di aprire la pellicola - del racconto che è chiamato a mettere in scena.
Al di là di un impianto tecnico-visivo corretto, forse pure troppo (tanto da sembrare gestito da un algoritmo), ravvivato giusto dalla scelta - di per sé molto interessante - di non mostrare mai il volto del padre di Irene, né di dirne il nome; gran parte della (non impeccabile) riuscita drammatica del progetto è però data dall’esattezza di una meravigliosa Aurora Giovinazzo per la parte di Irene.
Dopo averci letteralmente stregati e aver fornito una prima, grandissima prova di maturità col ruolo di Matilde in Freaks Out di Gabriele Mainetti, la giovanissima attrice romana non solo si riconferma quale uno dei volti più fotogenici e penetranti che il cinema italiano abbia partorito negli ultimi anni, bensì riesce in una delle sfide forse più difficili proposte dal copione di Cervoni e Di Nardo, ossia non banalizzare ed esasperare il personaggio che porta in scena. Un personaggio, Irene, di cui Giovinazzo trattiene nello sguardo tutta la verità, tutto il carattere e quel dolore che spesso la porta a compiere gesti inconsulti, drastici, impetuosi, procaci, ma pure tutta l’umanità che permane in lei e che è possibile intravedere ogni tanto attraverso le piccole crepe di un corpo robusto, muscoloso, mascolino, involucro esemplare di una personalità altrettanto forte, intensa e corposa.
È lei l’unico elemento in grado di affascinare, allargarsi fino al cuore dello spettatore e trascendere i limiti e le costrizioni della creatura filmica di Mangiasciutti, che invece, dal canto suo, si trascina innocua, indolente, fiacca, ripete medesime situazioni pure due volte, la butta sul metafisico, la tira per le lunghe, fino ai suoi tre(!), immotivati finali, per poi dirigersi subitaneamente verso un gelido e (ahinoi) prevedibilissimo oblio.
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