TITOLO ORIGINALE: La California
USCITA ITALIA: 24 novembre 2022
REGIA: Cinzia Bomoll
SCENEGGIATURA: Cinzia Bomoll, Piera Degli Esposti, Christian Poli
GENERE: drammatico, thriller
DURATA: 100 min
Presentato in anteprima alla Festa del Cinema di Roma 2022
Terza prova dietro la macchina da presa della scrittrice Cinzia Bomoll, La California appartiene a quella nuova schiera di cinema italiano che si sta allontanando dall'asse Roma-Napoli della produzione nostrana, spingendosi nella provincia e nella periferia più remota. A differenza di Margini, la visione che La California ci offre della provincia è più agrodolce, meno incazzata e rabbiosa di quella di Falsetti & co., più amarcord, all'insegna tanto di un sentito ed elegante omaggio alla compianta Piera Degli Esposti, quanto di una materializzazione del disorientamento, dello sfasamento, del bipolarismo tipico dell’età adolescenziale - e, di conseguenza, del filone coming-of-age. Al di là dell'appassionata e appassionante descrizione bozzettistica degli abitanti di questa provincia emiliana, però, La California manca di quella spinta, di quel ritmo, di quella compiutezza e compattezza che ne avrebbero definito la riuscita.
Appartiene a quel nuovo cinema italiano di provincia, La California, il terzo lungometraggio scritto e diretto dalla scrittrice Cinzia Bomoll; quel cinema italiano che, forte del sempre maggiore supporto e disponibilità delle commissioni regionali, si sta allontanando dall’asse Roma-Napoli della produzione nazionale.
L’esemplare più fulgido e pregevole di tale distacco, che è anche un distacco a favore della (ri)scoperta di atmosfere, genere, sensibilità, di una ruvidezza e spontaneità nel raccontare e, spesso, nel raccontarsi, di territori geografici e narrativi oggi alternativi, ma che, una volta, nell’età d’oro degli autori, erano frequentissimi e sotto gli occhi di tutto il mondo; è il recente Margini di Niccolò Falsetti, la storia di un trio di streetpunker col sogno di sfondare nel mondo della musica, trovare l’aggancio giusto, diventare famosi e poter così fuggire da un contesto sociale di provincia deprimente ed opprimente.
Viceversa, anche se uno dei suoi personaggi è un punk rocker - il cui aspetto corrisponde ciononostante più ad una “maschera tanto per” che ad un vero e proprio stile e filosofia di vita -, la visione che La California ci offre della provincia è più agrodolce, meno incazzata e rabbiosa di quella di Falsetti & co., più amarcord, in un certo senso. Senza scomodare l'intransigente modulo felliniano, un po' come già fatto da Ligabue in Radiofreccia.
Una visione che è dunque filtrata attraverso l’occhio del cuore, dei ricordi, degli aneddoti; che nasce da un viaggio indietro nel tempo, da una riproposizione e ricostruzione filmica dell’aria che pervade quei luoghi e dello spirito che trasuda dalle storie e dai racconti dei suoi abitanti. Il tutto, ricoperto da una patina magica, mistica, misteriosa, eppure rassicurante e confortante, com’è d’altronde la figura che, di questo lato esoterico e folkloristico, ne è l’eccellente emanazione: un personaggio etereo, fantasmatico, evanescente, elegante che è insieme collante ideale, spettatrice silenziosa e narratrice di ciò che avviene su schermo.
A rafforzare questa percezione, è la voce che Bomoll sceglie, con grande eleganza e misura, di affidare a questa figura (di cui, non a caso, non ci è mai concesso il volto), dedicando il film - che diventa perciò anche un omaggio, una dedica, un testamento artistico - alla compianta Piera Degli Esposti (qui anche in veste di co-sceneggiatrice), la quale si inserisce nel racconto con un’ambiguità accordata e congrua al suo discorso principale. Con una doppiezza (vocale) che rimanda, in primis, all'idea di uno spirito affascinante, appartenente ad un altro tempo, un tempo remoto, ermetico, arcano, onnisciente, un po’ inquietante, che racconta, commenta, gioca, dialoga sagacemente con le vicende e i suoi protagonisti, ma anche alla figura di una nonna che consola, spiega e conforta con una storia che forse è la sua e che forse potrà servirci a capire di più della nostra, di quello che è stato e di quello che sarà.
Da questa icona del cinema, della televisione e del teatro italiani (come ricorda la citazione che precede i titoli di coda) parte quel senso di inconciliabile ed eterna doppiezza che poi è fondamentale per La California, il quale consiste, in sostanza, nel romanzo di formazione, dalla fine degli anni ‘70 agli sgoccioli degli anni ‘90, di due gemelle omozigote, Ester e Alice (le esordienti Silvia e Giulia Provvedi, meglio conosciute in TV e sui social come le Donatella), figlie del punk-salutista-protoecologista di cui sopra, interpretato da un Lodo Guenzi credibile in quanto padre improbabile, ma non sempre centrato nella recitazione; e di una fervente comunista (una Eleonora Giovanardi soffocata e monocorde), distrutta da una gravidanza accidentale e non voluta, ormai persa nei suoi deliri alienati e schizofrenici a forma di tortellini, mentre assiste ai punti di svolta della storia italiana ed internazionale (dalla strage di Bologna alla caduta del muro di Berlino, fino alla salita al governo di Berlusconi).
Due gemelle uguali e facilmente interscambiabili nell’aspetto, ma di fatto diametralmente opposte, come suggeriscono acutamente i poster che campeggiano sopra i loro letti - la più mite, introversa, dark (anche di capelli), alternativa, una Morticia Addams della bassa; colei che si sente oscurata dall’esuberanza della sorella e dalla preferenza che i genitori, in particolare la madre, sembrano esprimere nei suoi confronti, ha infatti il poster di Ian Curtis, il frontman della band britannica post-punk Joy Division; mentre quella più solare, vivace, fumantina, diretta, irriflessiva e disinvolta, più grunge e trasandata, non a caso ha quello di Kurt Cobain, volto leggendario dei Nirvana e di un'intera generazione (scelta scenografica che forse anticipa quello che sarà poi il suo destino).
Prima con questo luogo non-luogo, con questa frazione campestre, periferica, (per chi scrive) familiare, ma al contempo aliena e peculiare, insomma, con la California (quella vera) e La California (ora Casale California, in provincia di Modena, anch’essa vera, ma in un altro senso); e poi con i personaggi di Ester e Alice, Bomoll decide quindi di materializzare, dare un volto ed un luogo, figurativizzare il disorientamento, la confusione, lo sfasamento, il “sentirsi due persone nello stesso corpo”, il bipolarismo tipico dell’età adolescenziale, e di conseguenza del romanzo di formazione, coming-of-age o teen drama che dir si voglia. Ma anche quel desiderio di scappare, di diventare qualcun altro, altrove, riecheggiando così anche quell’american dream a cui la California (mitica o reale che sia) rimanda inevitabilmente. Un sogno che, in ogni caso, si scontra irrimediabilmente con la ruvidezza della realtà, la banalità del male, la sua inevitabilità illusoria e la necessità di prendere una decisione, di scegliere chi si vuole diventare, di essere finalmente una, di trovare la propria strada, di conoscere l’amore.
Il contesto come prigione della propria vera natura, un luogo in cui tutto è acuito, in tutto è più intenso, in cui succede sempre qualcosa anche quando, apparentemente, non accade nulla, oppure come limbo di passaggio, di transito obbligato per riunirsi con sé stessi, la propria storia, le proprie radici e, solo dopo, andare avanti, è l’aspetto forse più affascinante del film di Cinzia Bomoll. Affascinante e divertente come, d’altronde, è il lato più nostalgico della sua sceneggiatura: la descrizione miniaturistica di questi momenti di vita quotidiana del piccolo paesino perso nella bassa modenese, il racconto bozzettistico di questi vitelloni unici, veraci, genuini, particolari.
Dai quattro stoici umarell che sempre stazionano, giorno e notte, col sole e con la pioggia, di fronte al Circolo Arci nella piazza del centro, alla parrucchiera rocker (una Angela Baraldi magnetica) che forse partirà, con due improbabili sagome, per un’improbabile tour in giro per l’Europa. Dalla barista interpretata da Nina Zilli, che sorprendentemente non asseconda il suo essere cantante (una scelta inconsueta e molto interessante da parte di Bomoll, bisogna ammetterlo), al capostazione di una fermata in cui "passa un solo treno al giorno". Dal signorotto locale, padrone acquisito della grande fabbrica che sta impestando l’aria della regione, esibizionista, volgarotto ed impenitente (uno Stefano Pesce sovraccaricato e travolgente, talora pure troppo), ad Abner (un Andrea Roncato molto contenuto in un ruolo inedito), nonno misantropo, quasi ascetico, e confessore di Ester e Alice, nonché ex-partigiano e, in tal senso, collegamento diretto e vivo con la memoria storia di cui l’Emilia è intrisa.
Forse, questi personaggi sono addirittura troppi caratteristici e, dal canto suo, la macchina da presa della Bomoll - coadiuvata dal lavoro fotografico di ispirazione quasi ghirriana di Maura Morales Bergmann - indulge sin troppo sulla libera messa in scena della loro vita semplice, dei loro screzi e discorsi da bar, dei loro modi, usi e costumi. Tant’è che, quando si discostano da quello che è questo accorato lavoro miniaturista, si risvegliano da questa osservazione compiaciuta e piacevole, e sono chiamati a soddisfare le esigenze loro intrinseche, il film e il racconto - complice un montaggio non sempre chiarissimo e spesso indeciso - mancano di quello slancio, di quel ritmo, di quella compiutezza e compattezza che ne avrebbero definito la riuscita.
Al contrario, tutte le possibili intuizioni, anche la svolta thriller sul finale, oppure quegli stralci di satira politica, si perdono in un nulla di fatto, tra la nebbia fitta e persistente, gli infiniti campi di grano, le strade senza fine che portano ovunque e in nessun luogo, e gli orizzonti di uno sguardo senz'altro promettente, ma ancora troppo poco rifinito.
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