TITOLO ORIGINALE: Poker Face
USCITA ITALIA: 24 novembre 2022
USCITA USA: 16 novembre 2022
REGIA: Russell Crowe
SCENEGGIATURA: Russell Crowe
GENERE: thriller, drammatico
DURATA: 95 min
Presentato in anteprima alla Festa del Cinema di Roma 2022
Se c'è una cosa che Poker Face non sa fare, è mantenere la promessa del suo titolo. E non tanto nell'assenza del gioco del poker, quanto piuttosto nell'evidenza del suo fallimento. Basterebbe anche solo scoprire quante mani ci hanno lavorato, o anche solo il passaggio fortuito di regia a Russell Crowe, per capire di trovarsi di fronte ad un'opera senz'altro rovinosa, tutt'altro che originale, eppure quasi unica nel suo genere, o meglio, nella sua sconclusionatezza, ingenuità e schizofrenia filmica. Ciò nonostante, c’è qualcosa in Poker Face che sussurra all’orecchio (e agli occhi) dello spettatore. Forse il fatto di sembrare un film-bilancio, di lasciar trasparire un forte disagio, di conservare una scintilla di umanità, capace di farne un emblematico film "d'autore".
Se c’è una cosa che Poker Face non sa fare, è mantenere la promessa del suo titolo. E non tanto nella poca presenza, se non proprio nell’assenza, al di là della metafora spicciola sul bluff e l’imperscrutabilità delle persone a noi più care, del poker - quello c’è, seppur in una sequenza tensivamente nulla ed inefficace, con una camera che esegue i movimenti e le scelte più proverbiali possibili. Ma piuttosto nell’evidenza del suo fallimento.
Che Poker Face corresse il rischio di essere un film brutto, lo si poteva prevedere già solo da quante persone ci hanno suppostamente lavorato. Basterebbero infatti i cinquanta produttori, i cui nomi potete scorrere e scoprire su una qualsiasi pagina tecnica dedicata al film (una scoperta, a suo modo, davvero affascinante!). Oppure ancora, il fatto che il film sia passato fortuitamente nelle mani di Russell Crowe, che, da solo attore protagonista com'era, ne è diventato di fatto autore totale. O anche solo vedere come (e per quanto tempo) appare a schermo il titolo nei primi minuti della pellicola, per capire che ci troviamo di fronte ad un’opera rovinosa, tutt’altro che originale, eppure quasi unica nel suo genere, o meglio, nella sua sconclusionatezza ed ingenuità filmica.
Seconda regia dell’attore neozelandese - che, a dispetto di quel che sembra, e pur recitando in produzioni dubbie e mostrandosi con una corporatura tanto importante quanto preoccupante, non ci ha mai realmente abbandonati -, Poker Face racconta infatti la storia di un uomo, tal Jake Foley, che pare aver avuto tutto ciò che la vita avesse da regalargli - successo, ricchezze, una bella famiglia - che, tutt’a un tratto, riceve una notizia che mai avrebbe voluto ricevere. Un uomo metodico, prudente, riflessivo, che ama aver sempre tutto sotto controllo, ma che improvvisamente deve fare i conti con l’imprevedibilità della vita, e ripensare tutto ciò che è, è stato e sarà, filtrato attraverso la lente della sua mortalità (e di un tumore inoperabile). Capirà, in punto di morte, che la vita di ognuno di noi ruota attorno a tre pilastri fondamentali: il karma, la fortuna e la fisica (specie quella di Newton, che ama citare in voice-over enfatici su immagini grammaticalmente pubblicitarie). Che l’esistenza "è una partita". Che "ogni corpo inerte, applicata una determinata forza, cambia il proprio stato". Che “le opportunità che creiamo per noi stessi hanno conseguenze sulla vita degli altri”.
Malgrado l’istanza narrante tenga a comunicarceli tutti, didascalicamente, a voce, ognuno di questi pensieri è chiaro a noi spettatori non appena compare a schermo il primo piano di Russell Crowe, che, nonostante il viso segnato, butterato, sciupato, rimane comunque uno dei pochi attori viventi capaci di raccontare un personaggio anche solo con un singolo sguardo.
Capiamo subito quindi quali sono le reali intenzioni di Jake. E questo diventa un problema per un film che vorrebbe intraprendere prioritariamente la strada del thriller ad alta intensità, con l’aggancio narrativo di una rimpatriata, con annessa partita a poker, con gli amici di una vita, durante la quale Foley intende mettere (metatestualmente) in scena un regolamento dei conti, un match a carte scoperte, una purificazione pre-mortem della propria coscienza e della loro. I suoi piani purtroppo verranno presto interrotti da un trio di criminali, assoldati o chiamati da uno degli invitati, ed interessati a sottrarre le numerose opere d’arte appartenenti al miliardario.
L’imprevedibilità, l’imperscrutabilità, del tutto assente per quel che concerne il thrilling e il coinvolgimento nelle vicende (che, anche per colpa della proverbialità degli spunti di messa in scena, risente di una generale monotonia e di un languido torpore), Poker Face la ritrova, ma non la realizza certo, nella generosità, nell’indulgenza, nonché nella frequenza con cui la sceneggiatura di Crowe (e, di conseguenza, la sua trasposizione) intraprende nuovi percorsi narrativi senza alcuna soluzione di continuità.
Tant’è che questa generosità, indulgenza e rapidità si convertono fin da subito in una via di mezzo tra schizofrenia, naïveté e quell’esuberanza tipica che generalmente coglie un attore nel momento in cui decide - volente o nolente - di darsi alla regia e, in particolare, di autodirigersi (ovviamente ci sono delle eccezioni!).
Tre elementi che pervadono tutta la concretezza filmica del progetto: dall’inizio zuccheroso e nostalgico stile Stand by Me, con influenze da videoclip, le biciclette anni ‘80 e le estati torride passate in amicizia, al montaggio psichedelico e lisergico col santone eremita che sciorina aforismi orientaleggianti e filosofeggianti; passando per le sequenze in auto a metà tra un film di corse (e, in questo caso, parliamo di una delle sequenze di gara meno coinvolgenti e frenetiche mai viste) e lo spot di un nuovo modello, con tanto di dettagli del veicolo, effetti dati dalle pozzanghere per terra e tramonti ad hoc; fino ad arrivare alla sequenza conclusiva, spartita tra la succitata partita a poker - che non fa altro che ricordarci quanto difficile, strepitoso ed eccezionale sia ancora oggi il lavoro di Martin Campbell in quella (bellissima) seconda metà di Casino Royale - ed un home invasion con derive palesemente tarantiniane nella caratterizzazione bizzarra e logorroica dei tre criminali, di cui uno esperto d’arte.
Che poi quasi nessuno di questi itinerari, o per meglio dire, incidenti di percorso, così come il resto del cast di interpreti (su cui spicca un Liam Hemsworth deturpato da un make-up facciale ridicolo), funzioni davvero è un altro paio di maniche.
Ciò nonostante, c’è qualcosa in questa stranezza, in questo racconto di continue rifrazioni tra quadri, poker e finzione, in questo testo sbilenco, sregolato, caotico, dissestato, che sussurra all’orecchio (e agli occhi) dello spettatore.
Forse il fatto di sembrare quasi un film-bilancio di una vita, di una carriera, di un modo (vecchio) di fare cinema. Forse il fatto di lasciar trasparire un forte sentimento di disagio, di essere fuori posto e fuori tempo (massimo). Forse perché, proprio come il volto (da poker) di Russell Crowe, oltre la spossatezza, le imperfezioni e i difetti, la pellicola conserva comunque una scintilla di altruismo, di desiderio, di rimpianto. Insomma, di un’umanità che “vede” male, ma quantomeno con un trasporto ed un’innocenza che sono rari da trovare in questa forma grezza nel cinema contemporaneo.
Poker Face è una di quelle opere con cui i teorici della Nouvelle Vague sarebbero andati a nozze. Il che non lo rende automaticamente ed assolutamente un tentativo riuscito, né tantomeno sufficiente, ma un film “d’autore”? Senz’altro sì.
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