TITOLO ORIGINALE: 브로커
USCITA ITALIA: 13 ottobre 2022
REGIA: Hirokazu Kore'eda
SCENEGGIATURA: Hirokazu Kore'eda
GENERE: drammatico, commedia
Vincitore del Prix d'interprétation masculine al festival di Cannes 2022
Seconda trasferta del giapponese Hirokazu Kore'eda successiva alla vittoria della Palma d'Oro a Cannes 2018, Broker riprende l'idea di una criminalità romantica, emozionante, empatica, commovente alla base del premiato Un affare di famiglia, e la applica alla storia di un duo di trafficanti di neonati ripudiati ed abbandonati da ragazze-madri senza futuro, né speranze. Il risultato è un film che continua la linea discorsiva del precedente Le verità, ma che spesso si mostra sfocato, didascalico, disorientato. Per fortuna che, a rivitalizzarlo quanto basta per commuovere, ci pensa un Song Kang-ho, come sempre, espressivamente dinamico e carismatico.
Hirokazu Kore’eda è oggi forse il vero erede della commedia di Age e Scarpelli. L’unico regista in grado di rendere il crimine un qualcosa di romantico, emozionante, empatico, commovente, poetico.
Di questo, ce ne aveva dato prova nel meraviglioso Un affare di famiglia, vincitore della Palma d’Oro al festival di Cannes del 2018, e ce ne convince, con maggior forza ed enfasi, oggi nel suo ultimo (Le buone stelle -) Broker.
Laddove infatti nel primo film si parlava pur sempre di una famiglia povera, costretta, da vere e proprie esigenze fisiche, materiali, esistenziali, a rubare, in una sorta di parabola collettiva e più socialmente intrisa del mito di Robin Hood; qui l’attenzione è riposta su due uomini, Sang-hyeon e Dong-soo, impegnati in un tanto intricato quanto sgangherato traffico di esseri umani, per l’esattezza di neonati abbandonati a loro stessi, per strada e in baby box, da giovani ragazze-madri, che loro vendono a famiglie facoltose che non possono avere figli.
Inoltre, trattandosi di una trasferta in Corea del Sud per il regista giapponese (la seconda dopo quella francese de Le verità, subito successiva alla vittoria a Cannes), anche il discorso e la critica sociale si intensificano in qualche modo, assumendo valenza e connotati ben più complessi rispetto alla “più semplice” disparità sociale e povertà di Un affare di famiglia.
Difatti, in Broker, al di là dell’immancabile idea di famiglia allargata, artificiosa, eppure non meno emotivamente vera od intensa, i temi cardine sono le responsabilità che socialmente associamo alla figura materna, la rinuncia e l’abdicazione a tale ruolo (sia attraverso l’aborto, sia mediante l’abbandono di minore) ed infine la conseguente ed inevitabile stimmate che gesti del genere comportano all’interno della società civile. Argomenti, questi ultimi, che non possono non prescindere dall'idea originale di una società e di un mondo in cui tutto è ormai quantificabile e capitalizzabile, pure gli affetti, i legami, gli esseri umani.
Punta dunque in alto Kore’eda, ma lo fa con la consapevolezza dei validissimi elementi su cui può contare per informare un ibrido, un matrimonio felice tra il suo cinema, i luoghi, i sentimenti e l’energia tipici dei suoi racconti, e la vivacità attuale - in termini culturali e d’immaginario collettivo - del cinema sudcoreano. È quanto mai evidente, infatti, il tentativo di replicare, se non ampliare (a priori, purtroppo invano) il successo festivaliero del film del 2018, innanzitutto, dando il proprio copione in mano a Song Kang-ho, uno dei volti più internazionalmente riconoscibili del momento - senz’altro il più riconoscibile dell'odierno cinema asiatico -, un attore nel pieno della sua parabola ascendente, appena reduce dal boom planetario di Parasite.
È lui - vincitore per il ruolo del Prix d'interprétation masculine all’ultimo festival di Cannes - ad interpretare uno dei due malviventi titolari del traffico di neonati, muovendosi ancora, con una semplicità e flessibilità disarmanti, in uno spettro espressivo che va dalla commedia nera al dramma profondo.
Ed è sempre lui il protagonista delle sequenze più difficili ed emotivamente complesse della pellicola; colui che è capace di donare la giusta (e necessaria) sensibilità, delicatezza, spettacolo, ma anche verità al copione di un Kore’eda compostissimo, non sempre a fuoco, spesso impegnato in un dialogo iconografico oltremodo pericoloso con la cinematografia in cui è immigrato, e non sempre capace di esprimere con le immagini ciò che invece, in un secondo momento, sente l’urgenza od è comunque tenuto a comunicare a parole - talora pure in maniera didascalica.
In più, è proprio attraverso le sue mani che passa il filo del discorso. È con la macchina da cucire che egli aziona in maniera stranamente incantevole che si intesse il ricamo di Kore’eda, tant'è che abbiamo tutte le ragioni per pensare che, in gran parte dei frammenti, Sang-hyeon sia una sorta di alter ego dello stesso regista, alle prese con la catena di eventi che contribuisce a mettere in moto insieme al suo collega (un ottimo e credibilissimo Gang Dong-won), e con la finzione, la dissimulazione, la maschera, che mantiene e sostiene fin proprio alla fine, quando noi spettatori scopriremo che la ragione per cui ha intrapreso questa strada criminosa, discutibile, problematica non è tanto la benevolenza o l’avidità, quanto piuttosto un modo per compensare una mancanza, un rimpianto, una ferita ancora aperta, un dolore ancora latente.
A tal proposito, è utile riprendere in mano il precedente film di Kore’eda, il già citato Le verità, per capire cosa voglia ribadire il giapponese, al di là dei dubbi etico-morali che pone al suo pubblico e ai suoi protagonisti in un road movie di fatto proverbiale e schematico, ravvivato tuttavia dall’abilità degli interpreti (tra cui citiamo anche una suadente Lee Ji-eun, un adorabile e giovanissimo Lim Seung-soo ed una versatilissima Bae Doona, già apprezzata nella serie Sense8) e da un paio di momenti e sequenze di grandissimo cinema (si veda la telefonata della poliziotta al suo fidanzato).
Broker, infatti, altro non è che un proseguimento ideale - solo ad una latitudine e in una società diverse - di quell’idea secondo cui le verità non appassionino, ma lo facciano invece le finzioni, magnifiche od imperfette che siano. Quella stessa idea per cui le finzioni (cinematografiche) ci aiutano a fare i conti, quasi fossero un passaggio obbligato, con i fenomeni della vita. Con le molteplici verità che si nascondono tra le pieghe, nella trama, nei destini del nostro mondo. Con la nostra verità.
Pertanto, seguendo la via tracciata da Fellini prima di lui, Kore’eda dà forma ad uno dei discorsi forse più apologeticamente cinematografici che siano mai esistiti. Uno che nobilita il cinema quale luogo di transustanziazione della prosa della vita in poesia dell’umanità. Come quadrilatero essenziale ed esistenziale in cui si racchiude tutto il senso possibile: il senso di un vincolo, di un cordone, di un’unione imprevedibile, gioiosa oppure dolorosissima, ma sempre e comunque necessaria, vitale, innata.
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