TITOLO ORIGINALE: The Watcher
USCITA ITALIA: 13 ottobre 2022
PIATTAFORMA/CANALE: Netflix
GENERE: thriller, drammatico, giallo
N. EPISODI: 7
DURATA MEDIA: 45-50 min
Dopo il successo planetario di Dahmer, l'instancabile duo Murphy-Brennan riaccendono i riflettori su un’altra storia true crime per farne eccellente e succulento cibo da piattaforma, da bingewatching, da agile intrattenimento casalingo. Con The Watcher, gli autori riaffermano il motivo per cui ogni autore ha e avrà sempre bisogno di una “storia realmente accaduta” (sia essa scioccante, travolgente, inquietante) a sorreggere la propria, dando vita ad un divertissement che ciononostante vuole ribadire, solleticare, appagare la nostra dipendenza nei confronti delle storie, dell’arte del racconto, dell’affabulazione, ma anche portare al massimo punto di ebollizione, l’attinenza, attenzione, critica e militanza socio-politica dei prodotti firmati Ryan Murphy.
Guardare può rovinare la vita delle persone. Soprattutto quando la propria vita è sotto i riflettori del mondo intero.
Lo scoprono, a loro spese, i Brannock in The Watcher, quando diventano motivo di chiacchiericcio, scetticismo ed intolleranza per gli abitanti di una cittadina di periferia del New Jersey, che soffre il loro modo di fare arrogante, supponente, borghese, da gente di città, e sembra volerli punire, con una sorta di contrappasso, assecondando la loro eccentricità ed appariscenza, ed informandoli di essere osservati giorno e notte, nell’intimità della villa vittoriana anni ‘20 che hanno appena comprato.
Oppure in seguito, quando la figlia Ellie, infastidita e angosciata dall’oppressione, dal controllo ossessivo e maniacale, e dalle attenzioni talora eccessive (e psicologicamente interessanti) che il padre esercita nei suoi confronti, decide di pubblicare online un video in cui denuncia apertamente il comportamento del genitore (con dettagli tanto veritieri, quanto falsati), servendo di fatto agli occhi di tutto il mondo, lo “spettacolo” della sua attuale situazione familiare.
Che guardare possa rovinare la vita delle persone, lo sanno bene anche gli instancabili Ryan Murphy e Ian Brennan, che, reduci dal successo planetario di Dahmer, riaccendono i riflettori su un’altra storia true crime, riaprendo così la ferita di un’altra famiglia americana, per farne eccellente e succulento cibo da piattaforma, da bingewatching, da agile intrattenimento casalingo.
Con The Watcher, sembra quasi che il Re Mida della serialità contemporanea e il suo fido e sodale collaboratore abbiano voluto inconsapevolmente rispondere alle critiche ricevute poche settimane fa proprio a riguardo della serie da record che, in questo mese, ha infiammato gli abbonati di Netflix, da parte dalle famiglie delle vittime del cannibale di Milwaukee e, a ruota, anche da una cospicua fetta di pubblico.
E in parte lo fanno, prendendo spunto dall’omonimo articolo di Reeves Wiedeman, originariamente pubblicato nel 2018 sulla rivista newyorchese The Cut, e sviluppando una storia in sette puntate che ribadisce il motivo per cui, nonostante tutto, la finzione sarà sempre subordinata al fatto vero. Quello per cui ogni autore ha e avrà sempre bisogno di una “storia realmente accaduta” (sia essa scioccante, travolgente, inquietante) a sorreggere la propria. Perché è proprio vero che, in molti casi, la realtà supera la fantasia!
Pertanto, nel drammatizzare e adattare per il piccolo schermo, la storia di una famiglia che, a seguito dell’acquisto della casa dei loro sogni, inizia a ricevere lettere strane e minacciose da parte di uno sconosciuto che si firma “L’osservatore”, il duo Murphy-Brennan - assistito e coadiuvato dagli sceneggiatori Reilly Smith e Todd Kubrak - dà vita ad un prodotto più vicino allo stile e al tono di una qualsiasi stagione di American Horror Story - perciò non sempre sobrio e compunto, ma suscettibile a qualche incursione (controllata) in un'estetica più trash e camp -, quasi si trattasse di un suo spin-off non dichiarato. A tal proposito, si pensi inoltre alla rivitalizzazione di un vecchio volto del cinema come Mia Farrow, che dona al progetto quella cifra conturbante e un po’ bizzarra, quella nota pseudo-soprannaturale e semi-folkloristica.
Parliamo quindi di un divertissement, senz’altro meno greve, ostico, complesso, impegnato (ed impegnativo) di Dahmer, che nondimeno vuole ribadire, solleticare, appagare la nostra dipendenza, di per sé arcaica e primordiale, nei confronti delle storie, dell’arte del racconto, dell’affabulazione. Una disciplina che Murphy e Brennan dimostrano ancora una volta di saper padroneggiare con un gusto ed un tocco inconfondibili, riuscendo a coinvolgere ed appassionare - che è un po’ come ingannare - un pubblico variegato ed eterogeneo alla ricerca sia del dramma familiare più tipico, sia di un giallo vorticoso, ma anche tutti coloro che, di questa storia, dei suoi sviluppi e del suo finale aperto, conoscono già tutto.
Per questo, oltre che alla scrittura trascinante - seppur soggetta talora a verbosità e didascalismi di sorta e a risvolti prevedibilissimi - bisogna rendere grazie prima ad un ottimo lavoro di casting e successivamente ad un ensemble di interpreti preciso e perfettamente a suo agio con l’eccentricità ed assurdità del racconto.
Su tutti, oltre alla Farrow, è d’obbligo citare un Bobby Cannavale molto abile e sempre credibile nel restituire emotivamente la catabasi paranoica e distruttiva di un uomo e delle sue certezze, il cui viso splendente ed insieme durissimo è a dir poco perfetto per il ruolo e la figura di un padre non sempre smagliante, anzi inizialmente detestabile per i modi antiquati, machisti ed autoritari con cui cerca di tenere insieme i pezzi di una famiglia in rapido declino. Ma anche Naomi Watts, che qui torna a ribadire quanto la propria ambiguità ed enigmatica espressiva sia assurdamente perfetta per territori quali il thriller, l’horror, il mystery. Infine, come scordarsi di una Jennifer Coolidge meravigliosa ed esuberante nei panni di un’agente immobiliare sessualmente procace che serve agli autori proprio come cifra parodistica, autoironica ed innegabilmente kitsch del proprio cocktail.
Uno di quei cocktail funzionalissimi ed editorialmente intriganti, che stregano ed acchiappano nella prima metà, per poi perdersi ed incartarsi quasi rovinosamente nella seconda, tra doppi e tripli twist, inutili lungaggini e vicoli ciechi.
Una serie, The Watcher, con cui Ryan Murphy sembra in fondo prendersi gioco e portare ai massimi estremi, al massimo punto di ebollizione, l’attinenza, attenzione, critica e militanza socio-politica dei suoi prodotti, facendo di questa casa, dei suoi inquilini e dei suoi fantasmi, un concentrato dei conflitti nevrotici, dei traumi insopprimibili, delle ambizioni sfrenate, dei mali inestinguibili e delle inquietanti prospettive di un paese intero, in via di disfacimento, disilluso, impaurito, sempre più individualista ed avido, diffidente e fallace, così come di una filosofia esistenziale tutta americana, che si ritorce, anzi si sta già ritorcendo contro le persone, imprigionandole in incubi travestiti da sogni, compresi di tre piani, giardino, cantina e piano da macellaio per la cucina.
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