TITOLO ORIGINALE: Dahmer – Monster: The Jeffrey Dahmer Story
USCITA ITALIA: 21 settembre 2022
PIATTAFORMA/CANALE: Netflix
GENERE: drammatico, thriller, biografico
N. EPISODI: 10
DURATA MEDIA: 45–63 min
Approdata in punta di piedi nel catalogo streaming di Netflix, Dahmer - Mostro: La storia di Jeffrey Dahmer di Ryan Murphy e Ian Brennan racconta la storia di uno dei più noti serial killer statunitensi, conosciuto anche come Il Cannibale di Milwaukee e condannato a 15 ergastoli per aver compiuto atti di violenza sessuale, necrofilia, cannibalismo e squartamento su diciassette giovani(ssimi) ragazzi. Al di là del retelling biografico, filologico, sistematico, messo in scena in maniera precisa e con un grande senso dell'affabulazione e del coinvolgimento, votato al racconto diretto, “sul campo”, in prima linea dell’uomo, delle violenze, della punizione e dell’effetto sull'opinione pubblica, Dahmer è innanzitutto la denuncia e la messa a processo di un’intera nazione e dei suoi mali apparentemente ineluttabili, immortali, "zombeschi". Non necessariamente una serie perfetta, ma senz’altro un prodotto che dimostra, ancora una volta, il fulgido intuito e l'attenta sensibilità di Ryan Murphy e, ancora una volta, le immense potenzialità discorsive del filone true crime.
“Non è solo un raccapricciante spettacolo horror, è una metafora di tutti i mali che affliggono la nostra nazione” si dice ad un certo punto, in una delle puntate conclusive di Dahmer - Mostro: La storia di Jeffrey Dahmer. Una frase che, pur nel suo apparente didascalismo e nella sua retorica, rivela esplicitamente quali siano davvero le intenzioni di questa nuova serie Netflix e, in particolar modo, dei suoi due autori: Ryan Murphy - ossia “l’uomo più potente” e prolifico della TV contemporanea, già mente dietro il successo di Nip/Tuck, Glee, American Horror Story, American Crime Story e delle netflixiane The Politician, Hollywood, Ratched e Halston - e il sodale Ian Brennan.
Non che ci voglia poi molto ad intuire e comprendere il significato politico e il messaggio profondo di questo retelling, in dieci capitoli, della storia e dei crimini indicibili e raccapriccianti di Jeffrey Dahmer (uno dei serial killer più efferati delle cronache statunitensi, conosciuto anche come Il Cannibale di Milwaukee, condannato a 15 ergastoli per aver compiuto atti di violenza sessuale, necrofilia, cannibalismo e squartamento su diciassette giovani(ssimi) ragazzi, quasi tutti appartenenti a minoranze etniche e sessuali), basti pensare a come si apre, alla primissima inquadratura del pilota, nella quale prima ascoltiamo e poi vediamo un telegiornale raccontare di cinque agenti di polizia accusati per aver picchiato un collega nero sotto copertura in Wisconsin.
Ora, pur trattandosi di un poliziotto in borghese e trovandoci diegeticamente nel 1991, il rimando che Murphy e Brennan vogliono tracciare è chiaro e immediato, ed è alla contemporaneità, a quelle dolorosissime immagini che, nel maggio del 2020, hanno fatto il giro di un mondo ancora immerso nell’incubo del Covid, e che, come saprete meglio di noi, mostravano un afroamericano di Minneapolis, di nome George Floyd, ammanettato, sbattuto per terra e soffocato con il ginocchio da un agente di polizia (bianco). Una serie di immagini ed un nome che sarebbero poi diventati il martire e il "casus belli" di una rivolta che ha interessato gli Stati Uniti per settimane intere, riportando agli occhi dei media internazionali e dell’attenzione pubblica (e, di conseguenza, dell’immaginario collettivo e della sua industria) il movimento attivista Black Lives Matter.
È dunque nel segno di tutte queste tensioni che hanno traumatizzato l’America e, ça va sans dire, le menti della sua industria creativa più grande, che Dahmer nasce e diventa un prodotto anche necessario. Sarebbe infatti scorretto ridurre il serial Netflix all’etichetta di prodotto true crime, rendendolo dunque uno dei tanti (alcuni pregevolissimi, altri meno) presenti e disponibili sulla piattaforma di Los Gatos.
Questo perché, malgrado si presti prevedibilmente molta attenzione al tentativo di analisi psicoanalitica della figura di Jeffrey Dahmer - dunque, delle potenziali ragioni di questa sua follia omicida, di questo suo peculiare accanimento sugli omosessuali e minoranze quali afroamericani e asiatici, così come dei suoi complessi e perversioni, delle sue difficoltà con entrambe le figure genitoriali, del suo desiderio di omologazione ed integrazione in un sistema esigente e talora spietato, della sua ossessione per il corpo maschile, in particolare per fisici statuari, guizzanti, perfettamente modellati - ed insieme ad un’osservazione meticolosa e precisa del suo modus operandi (il primo episodio, in tal senso, è una lezione di ritmo e tensione; forse il migliore tra i tanti bei pezzi di televisione proposti dalla serie), Murphy e Brennan sono innanzitutto interessati a tracciare una sorta di fil rouge tra ieri e oggi, ad inquadrare Dahmer all’interno della storia e della società statunitensi passate e presenti.
Perché non è stato fermato prima? Perché ha potuto agire liberamente, alla stregua di una mina vagante, per quasi quindici anni? Perché nessuno ha sospettato di lui prima del 1991, nonostante gli fossero già stati riconosciuti reati in precedenza e malgrado le numerose lamentele dei vicini riguardo all’insostenibile odore di putrefazione proveniente dal suo appartamento? La risposta a tutte queste domande è da scovare in un tessuto sociale fortemente retrivo, razzista, omofobo, benaltrista, maschilista, classista; lo stesso che ha discriminato, ghettizzato, abbandonato Dahmer, e che questi ha poi fatto proprio, cavalcato e sfruttato, a proprio uso e consumo, per assecondare le proprie pulsioni e portare a termine le proprie gesta criminose. Ma anche, e in particolar modo, nell’incompetenza, nel pregiudizio, nell’intolleranza e nell’ignoranza del corpo di polizia di Milwaukee sulle cui sviste, errori e negligenze il serial fonda gran parte dell'apparato discorsivo e polemico dei suoi ultimi episodi.
In tal senso, come già anticipato sopra, infatti, Dahmer è, sì, un true crime filologico, sistematico, messo in scena in maniera precisa e con un grande senso dell'affabulazione e del coinvolgimento, votato al racconto diretto, “sul campo”, in prima linea dell’uomo, delle violenze, della punizione e dell’effetto sull'opinione pubblica, e, pertanto, al magistrale lavoro mimetico di un Evan Peters qui alla sua migliore interpretazione, ma è, in primis, la denuncia e la messa a processo di un’intera nazione e dei suoi mali apparentemente ineluttabili, immortali, zombeschi, se vogliamo rimanere in tema.
Una nazione - con uno dei tassi più alti di episodi di serial killing - che Murphy e Brennan riescono a contenere, sintetizzare e sublimare perfettamente nel fetido e nauseabondo appartamento al 924 di North 25th Street, quello in cui Dahmer ha compiuto gran parte delle sue brutalità. Un bilocale, il cui tanfo putrescente e la cui angosciante verità riescono a valicare i confini fisici e così spandersi su tutti e dieci gli episodi della serie, e che, allora come oggi, ha smascherato l’America, obbligando quest'ultima al riconoscimento del lato più malato, inquietante, putrido di sé, ad un confronto sanguinolento con il ricordo di quello che è stato, è e purtroppo sarà di nuovo.
Jeffrey Dahmer è insomma l'ennesimo riflesso, l'ennesimo scheletro della storia morfologica, biologica, socio-politica di un paese mai realmente progredito e progressista. Un fantasma che, ciò nondimeno, è forse più facile (e solito) mettere sotto il tappeto, bruciare in un forno crematorio, nascondere sotto una pila di macerie, o sminuire nella trasfigurazione del merchandising, del soldo, dell'industria dell'immaginario.
Ebbene, è invece con un grido avverso, uno che richiede a gran voce giustizia, riscatto o quantomeno memoria, che si chiude Dahmer, non necessariamente una serie perfetta, ma senz’altro un prodotto che dimostra, ancora una volta, il fulgido intuito e l'attenta sensibilità di Ryan Murphy e, di nuovo, dopo il suo American Crime Story, le immense potenzialità discorsive del filone true crime.
Un prodotto che ricorderemo dunque non solo per la scrittura e l’interpretazione del suo ideale protagonista, ma anche e soprattutto per il sorprendente cambio (in corsa) del punto di vista, per l’attenzione riposta al dramma delle vittime, e per la cura narrativa e compositiva di chi si è battuto per loro. Meravigliosi, in tal senso, l’accorata interpretazione di Niecy Nash, così come tutto il sesto episodio, che prende le parti di Tony Hughes, un trentenne sordomuto brutalmente ucciso da Dahmer, che diventa, nella serie, una sorta di rappresentante di tutte le sue prede e della loro condizione sociale ed esistenziale: come sintetizza bene il titolo dell’episodio, ridotte al silenzio.
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