TITOLO ORIGINALE: Jipuragirado japgo sip-eun jimseungdeul
USCITA ITALIA: 15 settembre 2022
REGIA: Kim Yong-hoon
SCENEGGIATURA: Kim Yong-hoon
GENERE: thriller, noir
Dalla Corea del Sud con furore, arriva un noir con venature pulp e black comedy, in bilico tra Tarantino e i Coen. Nido di Vipere, esordio di Kim Yong-hoon, adatta e "coreanizza" il romanzo Beasts Clawing at Straws del giapponese Keisuke Sone, dando vita ad un film che, dal regista di Pulp Fiction, recupera l’attenzione per una forma di dialogo digressiva, logorroica, prorompente, a briglia sciolta, la violenza inaudita, esplicita e sordida, la discontinuità dell’esposizione, la scomposizione del racconto in capitoli, i leggendari trunk shot; mentre, da quelli di Non è un paese per vecchi, l'attenzione maniacale per il montaggio e la centralità narrativa dell’elemento del destino e di quello spettacolare dell'incastro narrativo perfetto. Tutte influenze, richiami e sottrazioni, che ciononostante Yong-hoon riesce comunque a rileggere e riutilizzare secondo uno spirito ed un modus operandi visibilmente sudcoreani. Il risultato è, sì, un divertissement senza troppe pretese, eppure così consapevole del mezzo e del linguaggio che sta adoperando, così intelligente, da aggiungere l'ennesimo, brillante tassello ad un cinema (l'unico) che, negli anni, è riuscita ad intaccare il predominio inflessibile dell’immaginario statunitense.
Se vedrete Nido di vipere, l’esordio sul grande schermo del sudcoreano Kim Yong-hoon, aspettandovi di trovarvi di fronte al nuovo Parasite, all’erede spirituale di Park Chan-wook, o ad un prodotto quantomeno originale, poliedrico, sorprendente, rimarrete probabilmente delusi.
Non è infatti per l’audacia, l’eccentricità, né tantomeno per il sapore di novità che quella di Yong-hoon può dirsi una pellicola riuscita, quanto piuttosto per la brillantezza, il senso di ritmo ed intrattenimento, ma anche il grande rigore, la compostezza e la correttezza formale con cui quest’ultimo riesce a rendere fresco, sempre dinamico ed estremamente coinvolgente un noir postmoderno, dalle venature pulp e black comedy, come tanti altri, il quale, in molte delle sue soluzioni, riecheggia palesemente tanto cinema occidentale, a partire, inevitabilmente, da Quentin Tarantino e dai fratelli Coen - sempre che non si voglia scomodare giganti del genere come Nicholas Ray e Howard Hawks.
Dal primo, Yong-hoon trafuga infatti l’attenzione per una forma di dialogo digressiva, logorroica, prorompente, a briglia sciolta, apparentemente pourparler, tuttavia utile mezzo - insieme ai piccoli dettagli, alle singolarità, alle ossessioni per determinati oggetti o marche - di caratterizzazione ed iconografizzazione dei propri personaggi, grotteschi, macchiettistici, sopra le righe. O ancora, la violenza inaudita, esplicita e sordida, la discontinuità dell’esposizione, la scomposizione del racconto in capitoli (sei, per l’esattezza), i leggendari trunk shot…
Invece, dei registi di Non è un paese per vecchi, Fargo, Blood Simple e Crocevia della morte (tutti titoli che tornano, in maniera preponderante, in questo Nido di vipere), il cineasta incorpora l’attenzione maniacale per il montaggio, che è indubbiamente una delle punte di diamante della produzione, così come la centralità narrativa dell’elemento del destino, con la sua angosciante imprevedibilità, il suo grande senso dell’ironia, la sua banalità disarmante e la sua travolgente crudeltà.
Tutte influenze, richiami e sottrazioni (a fin di bene, sia chiaro) che ciononostante Yong-hoon - qui impegnato anche in qualità di sceneggiatore, nell’adattamento e trasferimento in Corea del Sud del romanzo Beasts Clawing at Straws del giapponese Keisuke Sone - riesce comunque a rileggere e riutilizzare secondo uno spirito ed un modus operandi visibilmente sudcoreani, come dimostrato dalle modalità di costruzione del climax, dall’uso di una colonna sonora tra il serio, il misterico e il faceto, ma anche dalle inconfondibili ambientazioni portuali di una Pyeongtaek valorizzata, a sua volta, dalla fotografia fredda ed elegantissima di Kim Tae-sung.
Ecco quindi che un racconto, riassumibile nell'allegoria del suo titolo originale, che segue le vicende di un collettivo di individui, più o meno raccomandabili, accomunati tutti dal desiderio di arricchirsi il più in fretta e facilmente possibile, così da scampare ad una situazione personale soffocante, da cui non sembra esserci via d’uscita, le cui strade arrivano a collidere ed incrociarsi per via di una borsa di Louis Vuitton piena di contanti; e che, proprio per questo, potrebbe funzionare in qualunque contesto, in qualunque paese del mondo e per qualsiasi tipo e nazionalità di pubblico, diventa il nocciolo duro di un film, sì, universalmente accessibile, ma che, ciò malgrado, non perde nemmeno un briciolo della propria, insospettabile identità.
Una pellicola, dunque, smaccatamente sudcoreana, che punta tutto sull’effetto spettacolare di un incastro narrativo eufemisticamente perfetto e sulle doti di un poker di interpreti di prim’ordine (le cui prove sono purtroppo sminuite e banalizzate da un doppiaggio italiano non proprio a fuoco): dalla più famosa Youn Yuh-jung, passando per una Jeon Do-yeon (già apprezzata in The Housemaid) a metà tra una Barbara Stanwyck ed una Ava Gardner, fino ad arrivare ai divertentissimi Jung Woo-sung, Park Ji-hwan e Yoon Je-moon; che Yong-hoon dirige con una misura ed un controllo ineccepibili, riuscendo inoltre a far risaltare la personalità, l’apporto, la presenza e la sfumatura che ognuno di loro regala a questo grande (in termini di proporzioni) affresco umano.
L’affresco di un’umanità che conosce e parla solo la lingua del denaro e che (soprav)vive seguendo un’unica regola: quella dell’inganno, della bugia, della dissimulazione.
Quindi, sì, è lecito dire, scrivere, o anche solo pensare che Nido di vipere non sia altro che un esercizio regolare, imbellettato, tuttavia manchevole di grande fantasia. Un giocattolone, un divertissement senza troppe pretese od ambizioni. Tuttavia, non si può che apprezzare un film che conosce il mezzo e il linguaggio come le sue tasche, che sa fare intrattenimento con grande stile, ma che, soprattutto, aggiunge un tassello ad una filmografia (l’unica) che, proprio con il noir, da Pietà di Kim Ki-duk in poi, è riuscita ad intaccare il predominio inflessibile dell’immaginario statunitense.
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