TITOLO ORIGINALE: The Hanging Sun
USCITA ITALIA: 12 settembre 2022
REGIA: Francesco Carrozzini
SCENEGGIATURA: Stefano Bises
GENERE: thriller, drammatico
PIATTAFORMA/CANALE: Sky/Now TV
Film di chiusura della 79ª edizione della Mostra del Cinema di Venezia
Alessandro Borghi ribadisce la trasversalità ed elasticità della propria recitazione in The Hanging Sun, co-produzione Italia-Regno Unito che dimostra due delle istanze più attuali e contingenti all’interno del panorama cinematografico: 1. le conseguenze che un mondo sempre più globalizzato può avere anche sulla costruzione e riproposizione di un dato immaginario, e 2. l’ansia da prestazione e conseguente omologazione che un certo tipo di cinema sta dimostrando nei confronti della quality TV, delle sue forme ed emanazioni. Da un lato, quindi, il film di Carrozzini è un interessantissimo esperimento di adozione italiana di un certo tipo di storie e immaginario, dall’altro, purtroppo, ricorda fin troppo - nelle scelte fotografiche, nel ritmo dello storytelling, addirittura nel casting - l’episodio di una qualsiasi serie Sky Original. Così, tentando di accontentare tutti o, perlomeno, un pubblico quanto più vasto, The Hanging Sun finisce per non accontentare davvero nessuno.
“Il mondo è sempre più piccolo” si dice ad un certo punto di The Hanging Sun - Sole di Mezzanotte di Francesco Carrozzini. Una frase di passaggio, posta in una sequenza di raccordo, detta tra l’altro da uno dei villain (se così possiamo definirlo) del film, eppure quella che meglio riesce ad inquadrare i presupposti di questa co-produzione Italia (Cattleya e la Grøenlandia di Matteo Rovere) - Regno Unito (Sky Studios), adattamento dell’omonimo romanzo del giallista norvegese Jo Nesbø, con un grande cast internazionale, tra cui figurano Alessandro Borghi - che dopo l’esperienza di Diavoli torna a ribadire la trasversalità ed elasticità della propria recitazione -, Jessica Brown Findlay (reduce da Downton Abbey), Peter Mullan e Charles Dance (Game of Thrones).
Il thriller nordico di Carrozzini è invero la dimostrazione di due istanze quanto mai attuali e contingenti all’interno del panorama cinematografico: la prima riguarda le conseguenze che un mondo sempre più globalizzato può avere anche sulla costruzione e riproposizione di un dato immaginario; la seconda concerne invece l’ansia da prestazione che un certo tipo di cinema sta dimostrando nei confronti di una televisione che sta annullando progressivamente lo scarto qualitativo delle proprie proposte, talora addirittura superando il grande schermo nella capacità di parlare e fidelizzare le masse. Evidenza, quest'ultima, che spesso porta il cinema ad arroccarsi in posizioni ben precise e distinte, tuttavia, in molti casi, polverose ed anacronistiche, o addirittura - specie per quanto riguarda l'industria italiana ed europea in genere - ad una vera e propria omologazione tecnico-visiva dei prodotti.
Pertanto, quasi si trattasse di una variazione e semplificazione del proverbiale paradosso del gatto di Schrödinger, le proposte televisive (ed ampliamo questa categorizzazione anche al panorama del direct-to-streaming) diventano e appaiono sempre più cinematografiche e peculiari, mentre quelle cinematografiche si adagiano su standard televisivi - e il più delle volte su quelli della peggiore o decente specie. Sia chiaro, quella appena esposta è tutt'altro che una regola comprovata e persistente, quanto piuttosto di una percezione soggettiva, derivante però da un trend abbastanza riconoscibile, oltre che facilmente comprovabile.
Diciamo subito: non è esattamente questo il caso di The Hanging Sun. Ciò nonostante, la facilità di concezione e riproposizione di un determinato vocabolario estetico e stilistico, unita a quell’uniformazione - d’immagine, ma pure di racconto - ai canoni e alle norme televisivo-seriali sono i due elementi alla base della produzione del noir di Francesco Carrozzini. Un film che, da un lato, si mostra, dunque, quale interessantissimo esperimento di adozione, di fatto italiana, di un certo tipo di storie e immaginario; quale riprova del coraggio, dell’intraprendenza e della dinamicità produttiva della Grøenlandia di Matteo Rovere, qui davvero coerente con il proprio motto “idee oltre i confini”; quasi quale estremizzazione de La belva di Ludovico di Martino (che trasportava nell’ambiente romano una storia di vendetta ed azione violenta e corporale, in pieno stile John Wick), ma che, dall’altro, a dispetto della visione sullo schermo di una sala cinematografica, ricorda fin troppo - nelle scelte fotografiche, nel ritmo dello storytelling, addirittura nel casting - l’episodio di una qualsiasi serie Sky Original.
Impressione, quest’ultima, confermata a sua volta dalla distribuzione limitata nei cinema (solo tre giorni!) per poi lasciare posto a quello che è il suo vero sfruttamento, ossia quello della pay-tv. Eppure, rispetto a questo - a differenza forse di qualche esercente - chi scrive non ha nulla in contrario, anzi quello di Carrozzini non è certo il primo - e non sarà nemmeno l’ultimo - film ad adottare questa “finestra evento”.
Il vero problema di The Hanging Sun risiede piuttosto nel suo voler adottare un certo tipo di racconto e di immaginario (il thriller/noir nordico dei vari Skjoldbjerg, Oplev, Alfredson, Hallström, Nørgaard), senza però riscriverlo a proprio modo, secondo la propria sensibilità, dunque discostandosi del tutto dal nostro glorioso passato di inumatori e puntando solo ed esclusivamente al pubblico (televisivo!) più ricco e variegato possibile.
Così facendo, però, prima l’opera di adattamento di Stefano Bises (non a caso, sceneggiatore prevalentemente di televisione), poi la messa in scena di Carrozzini - quest’ultimo, coadiuvato dalla fotografia abbastanza standardizzata e didascalica di Nicolai Brüel - peccano di poca personalità e, pure peggio, di ancor meno mordente.
Detto più banalmente: tentando di accontentare tutti o, perlomeno, un pubblico quanto più vasto, The Hanging Sun finisce per non accontentare davvero nessuno, anzi rivelandosi nelle fattezze di una pellicola abbastanza anomala per essere un thriller, fin troppo scolastica nei discorsi che vuole portare avanti, del tutto maldestra e carente nell’azione e nella sua resa, consapevole, eppure fin troppo irreprensibile nell’uso del linguaggio cinematografico e dei mezzi a propria disposizione per coinvolgere realmente e non mostrarsi, al contrario, artificiosa e programmatica.
Un’intransigenza e pulizia, quelle alla base della composizione di Carrozzini, che si ripercuotono successivamente, e in maniera del tutto inevitabile, anche sul fronte delle interpretazioni, le quali tradiscono la loro reale natura strumentale e funzionale. Laddove pertanto Alessandro Borghi appare soffocato in un ruolo che certo parafrasa ed indossa col suo solito stile e la sua indubbia grazia, ma che non riesce mai a rendere davvero credibile e proprio, la Finlay porta su schermo un personaggio femminile forte ed emancipato, che arriva addirittura a compiere un gesto definitivo per liberarsi dall’oppressione di una società ed una comunità maschilista, retriva e misogina, ma che ciononostante cade sempre e comunque nella parabola della “principessa in pericolo”. Dal canto loro, Mullan e Dance, che conferiscono al progetto quella nota di freddezza nordica e di spigolosità britannica, devono la loro presenza solo ed esclusivamente ad una necessità di legittimazione della pellicola anche presso un pubblico extra-europeo.
Nondimeno, The Hanging Sun si chiude proprio nel momento in cui sembrerebbe prendere il volo, avere un’elevazione, scaricare l’austerità dell’operazione e lasciar fuoriuscire qualcosa, anche solo un’emozione, un prurito, un turbamento, dietro tutta questa tecnicalità e razionalismo produttivo. Invece, come ben fa notare il pastore Jacob di Charles Dance, “il ghiaccio e il freddo sono i nostri custodi”.
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