TITOLO ORIGINALE: Master Gardener
REGIA: Paul Schrader
SCENEGGIATURA: Paul Schrader
GENERE: drammatico, thriller
In concorso alla 79ª edizione della Mostra del Cinema di Venezia
Un anno dopo avervi presentato Il collezionista di carte, Paul Schrader torna al Lido con Master Gardener, conclusione ideale della trilogia della redenzione iniziata con First Reformed e proseguita con il film con Oscar Isaac. Un Joel Egerton perfetto volto schraderiano ed una magnifica ed imprevedibile Sigourney Weaver guidano una pellicola di cui, pur essendo praticamente un more of the same rispetto ad altri film del regista, è innegabile il fascino, il rapimento, i piccoli sprazzi di sperimentazione (col sonoro e con gli effetti visivi), la potenza espressiva e la lucidità e solidità compositiva.
Inizia con una serie di immagini di fiori che sbocciano, si aprono, rivelano la propria natura interna, Master Gardener, nuovo lungometraggio (fuori concorso alla 79ª edizione della Mostra del Cinema di Venezia) dell’oggi Leone d’oro alla carriera Paul Schrader e terzo (e ultimo) capitolo di un’ideale trilogia della redenzione, iniziata con First Reformed e proseguita con Il collezionista di carte.
Un montaggio - in split screen con i titoli di testa - che si rivela ben presto importante non soltanto perché il protagonista del film, di lavoro, fa il giardiniere, ma anche perché una componente cruciale del racconto immaginato ed imbastito fascinosamente dallo stesso Schrader prevede proprio il lento disvelamento dei suoi personaggi, fiori di un giardino (il mondo) che, all’inizio della pellicola, ci viene detto diviso, frammentato in tre tipi.
Vi è quello alla francese, sinonimo di ordine, rigore, simmetria, classicità, manierismo; quello all’inglese, che, a differenza del precedente, non si avvale più di elementi per definire e circoscrivere lo spazio, ma si basa sull’accostamento e l’avvicendarsi di elementi naturali e artificiali; infine, vi è il giardino selvatico, che cresce incondizionato, libero, selvaggio appunto, in maniera del tutto naturale.
Queste informazioni ce le comunica Narvel Roth (un Joel Egerton in forma smagliante, la cui fisicità ed espressività si coniuga impeccabilmente con lo stile e il mondo schraderiano), mastro giardiniere presso i Gracewood Gardens, fratello putativo del pastore Ernst Toller e dell’ex-carceriere/giocatore di poker William Tell - rispettivamente protagonisti dei già citati First Reformed e Il collezionista di carte - ed eccellente antieroe schraderiano.
Un uomo dunque algido, riservato, schivo, spigoloso, sempre impeccabile nell’abbigliamento e nella pettinatura, che, perseguitato da uno o più errori della sua vita passata, ha ora trasformato il giardinaggio e i fiori nella sua vita, in una valvola di sfogo, in una routine necessaria, privativa, monacale, calvinista, esatta, con una storia, delle regole e delle pratiche ben precise, che lui conosce alla perfezione e che, nell’iperdettaglio solito di Schrader, non perde tempo a dimostrare al pubblico.
Anche lui, come il Tell di cui sopra scrive diari pieni di riflessioni, pensieri e parallelismi tra vita e pratica redentiva, tra vita e giardinaggio, il quale diventa ben presto una metafora ed una figurativizzazione, talora metafisiche, di ciò che lo (e ci) circonda.
Tutto, nella sua vita, prosegue, un giorno dopo l’altro, senza grossi cambiamenti o differenze, sorvegliato, osservato, dominato, impegnato nel compiacere ogni volere (anche sessuale) dell’anziana e ricca vedova Mrs. Norma Haverhill (una Sigourney Weaver tanto elegante, quanto imprevedibile e sconcertante, qui in una delle sue migliori interpretazioni), donna che non nasconde certo, anzi forse ostenta, un razzismo ed un classismo ben esemplificati dalla sua mania di dover etichettare, classificare, categorizzare, fornire aggettivi a tutto e tutti, senza grandi distinzioni, siano essi cani, persone o fiori. D’altronde, come afferma lo stesso Roth, i nostri nomi e cognomi non sono altro che classificazioni e targhette, al pari di quelle che identificano i tipi e le specie dei fiori.
Tuttavia, come spesso accade nei copioni e nei racconti di Schrader, l’esistenza monacale, penitente, contrita, routinaria, asservita del suo antieroe incontra una deviazione, un bivio, un imprevisto che, nel caso di Narvel, ha il nome e le fattezze di Maya (una Quintessa Swindell fortunatamente migliore della La Linda de Il collezionista di carte), pronipote della signora Havernill, funestata da una storia familiare dolorosa, la quale diventa allieva ed apprendista del nostro nelle arti e nel mestiere del giardinaggio, per poi diventare forse qualcosa di più, provocando così una rottura, ma anche un disvelamento della vita che è stata.
L’apparizione di Maya, come sottolineato dalla sua maglia caleidoscopica, con su scritto “Niente sentimenti cattivi”, porta pertanto colore, calore, infatuazione, tentazione nella grigia ed incolore, seppur florida tenuta di Gracewood Gardens, favorendo una via di fuga, una possibilità di trasformazione tutt’altro che immediata, al nostro Narvel, nel cui intimo inizia a crescere il seme dell’amore e, al contempo, a rifiorire quello dell’odio, quel passato di cui il suo stesso corpo è macchiato indelebilmente.
Se conoscete o quantomeno avete visto i precedenti lavori di Paul Schrader, specie i suoi ultimi, quelli più divisivi e controversi, Master Gardener non sarà certo una sorpresa o una rivelazione per voi. Anzi, quando le vicende di giardiniere e allieva si sposteranno da Gracewood, alcuni chiaroscuri, giochi di luce, inquadrature, le scenografie (di camere e piscine di motel spogli e disabitati) vi sembreranno (ma ovviamente non lo sono) riciclate da Il collezionista di carte.
Eppure, malgrado ci si trovi di fronte al solito, prevedibile, talora maldestro Schrader, è innegabile il fascino, il rapimento, i piccoli sprazzi di sperimentazione (col sonoro e con gli effetti visivi), la potenza espressiva e la lucidità e solidità compositiva di un racconto e di un’esistenza (quella del mastro giardiniere) scanditi, più che in tre movimenti, in tre giardini, quelli sopra elencati.
Si passa quindi dal rigore, dalla lividezza, dalla privazione, dall'obbedienza, dall’essenza carceraria, contrita, colpevole, del giardino alla francese di Gracewood, all’unione di elementi naturali (l’amore) e artificiali (l’odio politico, razziale, suprematista) del giardino all’inglese, attraverso una messa a nudo letterale, che è anche una purificazione dai propri peccati passati, la promessa di una redenzione; per poi giungere ad una conoscenza dell'ebbrezza caleidoscopica, della gioia folle, della prospettiva quasi onirica, tuttavia irrealizzabile, del giardino selvatico.
Tre passaggi, tre stadi obbligati, sistematici, da seguire con rigore, come una pratica dogmatica ed incontestabile (un classico della mitologia schraderiana), ma soprattutto necessari per raggiungere un equilibrio, una pace interiore, una maggiore consapevolezza riguardo a sé e al proprio futuro.
Al nostro futuro, che non è più soggetto, diviso, ostacolato da maglie di filo spinato o sottili vetri di un carcere, ma può lasciarsi andare ad un finale melodrammatico, ad un ballo senza rimpianti, odio, gabbie, altri dogmi oltre a quello dell’amore.
D’altronde, cos’è il giardinaggio se non una profonda fede nel futuro. Nel cambiamento. Anche degli anti eroi schraderiani.
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