TITOLO ORIGINALE: The Card Counter
USCITA ITALIA: 3 settembre 2021
USCITA USA: 10 settembre 2021
REGIA: Paul Schrader
SCENEGGIATURA: Paul Schrader
GENERE: drammatico, thriller
In concorso alla 78ª edizione della Mostra del Cinema di Venezia
Paul Schrader, volto cardine della New Hollywood e storico collaboratore di Martin Scorsese, torna al grande schermo con un film che cristallizza, relega ed esprime tutto ciò che ha dire (o non dire) nell’immagine e nel rigore e controllo talora simmetrico, giocato su un apparente minimalismo ed un’evidente sottrazione, di una composizione finalizzata ad esprimere le due tematiche principali di una sceneggiatura prevedibilmente ispirata dal cinema dei maestri Ozu, Dreyer e Bresson (di cui cita apertamente Pickpocket). L’analisi psicologica e il racconto esistenziale di un torturatore pentito, divenuto un abile giocatore di poker, che vede il gioco come una routine necessaria, privativa, quasi monacale, esatta, con regole ben precise, ma anche e soprattutto come una pratica purificatrice e liberatoria. Un film imperdibile che sa guardare e scavare dentro l’anima dello spettatore.
Mette subito le cose in chiaro, Il collezionista di carte di Paul Schrader, film (presentato in concorso alla 78ª edizione della Mostra del cinema di Venezia, da cui è uscito purtroppo a mani vuote) che appunto segna il ritorno al grande schermo - a distanza di quattro anni da First Reformed - di uno degli autori cardine della Nuova Hollywood, oltre che storico collaboratore di Martin Scorsese (di cui ha sceneggiato alcuni dei film migliori, tra cui Taxi Driver, Toro Scatenato e L’ultima tentazione di Cristo).
Lo fa con un dettaglio visualmente soffocante della superficie di un tavolo da poker - che funge da sfondo per i titoli di testa - e con una musica elettronica opprimente, angosciante (nei vari sospiri che integra e unisce alla componente strumentale), grave e oscura, utile a gettare le basi per l’atmosfera che permarrà indomita dall’inizio alla fine del racconto.
Protagonista del film è William Tillich (ad oggi, il miglior Oscar Isaac), per gli amici William Tell (così come l’eroe svizzero vissuto tra la fine del XIII e il XIV secolo), un ex-soldato scelto, torturatore provetto e carceriere di Abu Ghraib, imprigionato a sua volta in un carcere militare in seguito al cosiddetto scandalo di Abu Ghraib, avvenuto nell’aprile del 2004.
Durante questo suo periodo di detenzione, egli impara e sviluppa una stupefacente abilità nel conteggio delle carte (il titolo italiano è sviante, meglio quello originale The Card Counter), che, una volta uscito, sfrutta per diventare un ottimo giocatore di poker e così guadagnarsi lo stretto necessario, accontentandosi di poco per (soprav)vivere e viaggiare gli Stati Uniti in lungo e in largo, a bordo della sua auto (in una specie di “altra faccia del mito Nomadland”, come afferma Roberto Silvestri su FilmTV).
Infatti, ciò a cui punta il nostro Bill Tillich non è tanto la fama o il prestigio che uno abile come lui potrebbe benissimo permettersi, bensì passare inosservato, tenere un basso profilo. Lo dimostra anche solo il fatto che alloggia sempre in motel di seconda mano e fuori città, mai nelle camere dei casinò in cui passa le giornate.
Questi vede quindi il gioco d’azzardo come uno stile di vita, una valvola di sfogo, una routine necessaria, privativa, quasi monacale, esatta, con regole ben precise che lui comprende alla perfezione, ma anche e soprattutto come una pratica purificatrice e liberatoria.
Questa sua esistenza tormentata, ripetitiva, monotona e ossessiva (che solo un convinto calvinista come Schrader poteva rendere in modo così efficace) sembra prendere una piega diversa o comunque nuova, quando, durante una delle sue visite in uno dei tanti casinò (tutti diversi, ma, in fondo, tutti uguali), fa la conoscenza di La Linda (una Tiffany Haddish d’impatto), una finanziatrice che, viste le abilità di William, gli propone di “fare squadra” e portare la sua carriera da giocatore di poker ad un livello superiore, risvegliando inoltre qualcosa che questi riteneva da tempo sopito.
Unitamente a La Linda, quello stesso giorno il collezionista conosce anche Cirk Beauford (un Tye Sheridan inedito), un giovane ragazzo, figlio di un collega torturatore di Bill - anch’esso congedato con disonore, suicidatosi in seguito ad un periodo di depressione, alcolismo e violenza domestica provocato proprio dall’esperienza da carceriere e aguzzino -; senza alcun obiettivo nella vita, all’infuori del desiderio di vendetta nei confronti del maggiore John Gordo (un Willem Dafoe che ci ricorda come farsi ricordare, pur apparendo sì e no cinque minuti in tutto il film).
Saranno proprio Cirk (“con la C”) e il suo trauma profondo a far riaffiorare nell’ex-militare i fantasmi del proprio passato, portandolo così a riconsiderare tutto il proprio vissuto e la pena che è stato, seppur giustamente, costretto a scontare. Difatti, a differenza sua, il maggiore, specie vista la sua posizione militare altolocata, non è mai stato condannato e ha continuato imperterrito, negli anni, a guadagnare denaro e stima, insegnando tecniche di interrogatorio sempre più ingegnose e brutali.
Non avrei mai pensato di essere una persona tagliata per il carcere. Da ragazzo, avevo paura degli spazi ristretti, ma con il tempo ha scoperto di sapermi adattare bene.
Con queste esatte parole, la voce-off - altro elemento narrativo ricorrente della poetica schraderiana - di William Tillich irrompe nel quadro subito successivo a quel dettaglio del tavolo da poker succitato, introdotto attraverso un uso affascinante della dissolvenza incrociata - che rimarrà tale per tutta la durata della pellicola.
Con questa sorta di monologo interiore inquieto ed inquietante, Il collezionista di carte prosegue ostinato quel suo lavoro di messa in chiaro, senza filtri, vie di fuga o ancore di salvezza, della sua natura profondamente opprimente, angosciante, perturbante e spiazzante (specialmente nei confronti di quella che potrebbe essere la sensibilità, le aspettative e i metodi di fruizione del pubblico medio odierno).
Una natura, una costruzione filmica ed una semantica che sono perfettamente allineati con il cosiddetto paesaggio interiore del nostro “contatore di carte”, sulla cui analisi e decostruzione psicologica si fonde gran parte del fascino del testo. Analisi, quest'ultima, che avviene principalmente attraverso una trattazione scrupolosa e particolareggiata, per molti potenzialmente ostica, per altri indubbiamente goduriosa, del gioco e del mondo del poker, delle sue regole e, in particolar modo, dei suoi abitanti, con tutti i loro tic, rituali e stranezze; un popolo di dissimulatori di cui Tell è, al contempo, il più atipico, il più abile ma anche il più singolare.
Bisogna ammetterlo, in quanto totale profano del mondo delle carte in genere e, soprattutto, del poker, chi scrive non è riuscito ovviamente a carpire ogni singolo collegamento e analogia tra l’esistenzialità del protagonista, il ruolo dei comprimari e i meccanismi del gioco contenuti all’interno del film. Pertanto, consigliamo la lettura dell’ottima analisi di Enrico Baccilieri per MonkeyBit.it, tra le cui righe egli ripone appunto grande attenzione alla correlazione semantica tra vita e gioco.
Dal canto nostro, possiamo affermare appunto come il poker e l’attenzione spasmodica, meccanica, indolente ma ciononostante coinvolgente, che racconto e messa in scena dedicano a quest’ultimo ben si confacciano ad uno sviluppo allentato ma sempre puntuale, ad un’esperienza di visione possibilmente faticosa e ad un ritmo sfumato che, allo stesso modo del gioco stesso, possono essere intesi come un’espiazione (percepita anche dagli stessi personaggi del film) pungente, amara, ma così cinematograficamente eccezionale ed irripetibile da indurre al masochismo anche il più diffidente degli spettatori.
Tutto quello che ha da dire (o da non-dire), Schrader lo cristallizza, relega ed esprime nell’immagine. In un’inquadratura che (riprendendo il dettaglio iniziale) schiaccia e soffoca i protagonisti e le scenografie di Ashley Fenton (complice anche una fotografia che, seppur a colori, guarda prepotentemente all’iconografia e alla poetica dell’immagine di Bresson). Nello spiraglio che è una finestrella aperta su un mondo, dove la luce del sole (malata nei rari casi in cui è presente) viene sostituita dalle luci al neon degli interni dei casinò che visita il nostro William. Nel rigore e controllo talora simmetrico, ma indubbiamente giocato su un apparente minimalismo ed un’evidente sottrazione, di una composizione finalizzata ad esprimere le due tematiche principali della sceneggiatura di uno Schrader prevedibilmente ispirato dal cinema dei suoi maestri Ozu, Dreyer e il già citato Bresson (non a caso Tell tiene un diario e il suo stile di vita potrebbe essere scambiato per quello di un asceta).
Uno di questi è appunto la riflessione sul concetto di redenzione e di espiazione (degli altri o di sé stessi), sul peso del passato, sul perdono (anch’esso degli altri o di sé stessi), sull’eventuale esistenza “di un limite oltre il quale ci si è redenti da ciò che si è commesso”, come si chiede il collezionista in una delle riflessioni interiori che spesso fanno del film nient’altro che una serie di Colloqui con sé stesso, tanto per citare uno dei titoli (il più noto è Meditazioni) con cui è conosciuta l’opera di Marco Aurelio che questi legge in cella.
A sua volta, questo primo nucleo tematico è direttamente correlato all’idea di eterno ritorno. Compiuto il proprio ciclo infatti, il racconto dell’esistenza di William ritorna su sé stesso, in una serie indefinita di identiche e cicliche ripetizioni; in una circolarità che permea tutto il film, dalla sceneggiatura alla messa in scena, tra cui citiamo anche vari elementi profilmici tipicamente circolari e propri del mondo del gioco d’azzardo, ma anche dalla ripetizione di intere frasi, come quella “Mai avrei pensato di essere una persona tagliata per il carcere”, posta sia in apertura sia in via di chiusura.
In tal senso, la rigidità e stoicità dell’inquadratura schraderiana altro non è che il simbolo di questa persistente circolarità routinaria della vita del collezionista e dell’intreccio che di essa ne offre l’istanza narrante. Una routine appunto necessaria per mantenere tutto in equilibrio, per fare della propria esistenza una partita di poker, con regole fisse ed esiti programmabili, in cui, come spesso fa lo stesso William, ci si può fermare prima di farsi male (emblematico, in tal senso, il consiglio dato a Cirk “punta poco, perdi poco”), dove si può scegliere, qualunque sia il risultato, di andarsene illesi (“vinci, te ne vai, perdi, te ne vai”).
Non a caso, è proprio nei momenti onirici in cui il protagonista rivive gli orrori del passato e viene a contatto con la vita vera, con il vero campionato (la “World Series della tortura”, come questi afferma con ironia nel film), con uno sport tanto imprevedibile quanto il risultato di una slot machine; che tale rigidità compositiva si sgretola e Schrader, insieme ad Alexander Dynan alla fotografia, rompe le regole iconografiche preimpostate, dando vita a due pianisequenza che, attraverso grandangoli e lenti anamorfiche ed una martellante musica metal, sbattono in faccia allo spettatore la realtà di un’America marcia, ipocrita, moralmente corrotta e vacua.
Denuncia, quest’ultima, indubbiamente rappresentata dal nerboruto avversario che urla “Usa” a ripetizione, senza neanche comprendere cosa significhi essere un americano. Lui, che “è nato in Ucraina” e “non ha fatto un giorno in mezzo alle armi”.
Pertanto, quello che sembrerebbe essere uno stile di vita ripetitivo e “sempre uguale, che non porta a nulla”, come sostiene lo stesso Cirk, in realtà porta da qualche parte: appunto, ad un eterno ritorno in quella stessa prigione in cui, anche a detta sua, “il monaco William Tell” sembra esser stato così bene, dove ha imparato l’arte e la tecnica del contacarte. E lo fa, ritorno, in seguito all’omicidio di John Gordo; successivamente ad un climax che il cineasta sceglie saggiamente di non mostrare, di relegare al fuoricampo, citando così nuovamente il suo amato Bresson.
Il vero, grande omaggio al maestro del minimalismo francese, il regista lo fa però nel finale del film, reinscenando quello del suo Pickpocket e citando, al contempo, la Creazione di Adamo di Michelangelo, sia in termini iconografici che prettamente semantici. Difatti, così come l’opera contenuta nella volta della Cappella Sistina, l’ultimissima inquadratura de Il collezionista di carte raffigura un contatto o, meglio, un “quasi contatto” che, se nell’affresco dipinge lo scarto incolmabile fra Dio e l’uomo nel momento in cui il primo dà la vita al secondo, nel film di Schrader allude all’impossibilità di un’evasione da quell’eterno ritorno che il regista ci ha così ben trasmesso nell’ora e cinquanta di racconto.
In definitiva, nonostante non possa certo definirsi esente da difetti e, come scrivemmo anche nel parziale e forse ingiusto commento post-visione dal Lido di Venezia, possa eventualmente risultare “un qualcosa di già visto, un modo fin troppo classico di fare cinema o l’opera di un gigante della New Hollywood che sembra uscire dritto da quegli anni e che dunque non apporta nulla di veramente innovativo alla sua filmografia”, Il collezionista di carte è comunque un cinema che ci ricorda ancora una volta perché Paul Schrader è forse il più grande ed indomito rappresentante di uno dei periodi più fertili, entusiasmanti ed irripetibili della storia del cinema hollywoodiano.
Uno dei primi a smontare il mito americano, facendone emergere i traumi nascosti, i fantasmi reali e le maleodoranti falsità con ardore e brutalità, ma mantenendo sempre un grande controllo sul racconto, sul coinvolgimento dello spettatore e sulla scrittura dei propri protagonisti, cacciatori della notte ed incrollabili scrutatori (stupendo il lavoro interpretativo, di microespressioni, e registico, di fascino glaciale, fatto su Oscar Isaac).
Seppur più ostico (ma, a nostro parere, meno riuscito) di First Reformed, Il collezionista di carte è un film che, come un abile giocatore di poker, sa guardare e scavare dentro l’anima dello spettatore. Al tempo stesso, una tortura e un’estasi.
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