TITOLO ORIGINALE: La mia ombra è tua
USCITA ITALIA: 29 giugno 2022
REGIA: Eugenio Cappuccio
SCENEGGIATURA: Eugenio Cappuccio, Edoardo Nesi, Laura Paolucci
GENERE: drammatico, commedia
Al di là di un meritevole tentativo di portare alla luce un tema contingente per l’Italia del qui e ora (quello della responsabilità intergenerazionale e del malessere delle nuove generazioni nei confronti delle vecchie), La mia ombra è tua di Eugenio Cappuccio si rivela essere niente più che una favoletta morale (per non dire moralista), nemmeno troppo brillante, sul cogliere l’attimo, su un passaggio di testimone totalmente immune da qualsiasi valore simbolico o metaforico, vestita da road movie alla Parto col folle o, peggio, Il sorpasso, e con rimembranze di un prototipo di commedia che mai avremmo desiderato rivedere sul grande schermo. Un'opera che infrange tutte le proprie aspirazioni comiche, drammatiche ed argomentative contro il muro della burletta puerile, immatura, anacronistica, triviale, sboccata e consapevolmente razzista, e pone in essere involontariamente uno dei più grandi privilegi e mali dell’industria nostrana, ovvero la mancanza assoluta dell’idea di flop e del rischio imprenditoriale.
C’è un momento in La mia ombra è tua di Eugenio Cappuccio in cui sembra quasi che il film si ricomponga, ricompatti e trovi anche solo un barlume di senso. Ovvero quando inizia a parlare di nostalgia, quasi teorizzando sul modo in cui i social, e il web in generale, favoriscano oggi la rivitalizzazione di fenomeni, tendenze, mode passeggere di ieri. Quando tenta di fare una sintesi degli ultimi settant'anni di storia del nostro paese. Quando sembrerebbe voler smontare lo stereotipo del “si stava meglio quando si stava peggio”, del “vecchio è meglio del nuovo” perché più fragile, autentico, sincero, e fare i conti con l’entità di un’illusione economica, politica, sociale e culturale - quella del boom - che ha lasciato l'Italia intera alla mercé di quella stessa, irrinunciabile nostalgia; che ha incagliato il paese in un limbo di vecchi (e falsi) miti, del passatismo e del nonnismo più spudorati, del rimpianto, condannando così ad un futuro senza prospettiva le giovani generazioni, queste ultime totalmente dipendenti e assuefatte dal fantasma di ciò che è stato. E potrebbe, o meglio, si vorrebbe tornasse.
Uno di questi fantasmi è Vittorio Vezzosi, romanziere che ha conosciuto la fama e il successo internazionali con un solo romanzo, dal titolo I lupi dentro, divenuto fin da subito un caso letterario, un vero e proprio fenomeno di culto per via della sua turbolenta e vivida storia d’amore. Una gloria del passato, il Vezzosi, che torna alla ribalta nel momento in cui alcune influencer, dal bordo della loro piscina, iniziano a chiedere a gran voce una continuazione, un prequel, uno spin-off. E qui entra in gioco il dentato, impacciato, sensibile ed inesperto neo-dottore “summa cum laude” Emiliano De Vito, il quale viene incaricato da un suo ex professore universitario di entrare in contatto e amicarsi il romanziere - ormai abbandonatosi ad una vita da totale eremita sui colli toscani, tra i suoi libri, i suoi film, la sua cocaina, il suo alcol e la sua più completa disillusione - per scoprire qualche dettaglio in più in merito all’effettiva possibilità di questo attesissimo sequel de I lupi dentro.
E dire che il soggetto, tratto dall’omonimo romanzo di Edoardo Nesi, scritto dallo stesso regista insieme a Laura Paolucci, non sarebbe nemmeno poi così male. Anzi, come lascia limpidamente presagire il titolo, qualora sviluppato secondo gli interessanti spunti illustrati poco sopra, avrebbe potuto portare sulla bilancia del cinema italiano una tematica - quella della responsabilità intergenerazionale e del malessere delle nuove generazioni nei confronti delle vecchie - spesso inserita en passant o sviscerata in modo ancor più imperito.
Poi però il film di Eugenio Cappuccio inizia a far sue citazioni e momenti de La dolce vita, a riferirsi neanche troppo velatamente a pilastri della commedia all’italiana come Il sorpasso di Dino Risi (non a caso uno dei due personaggi si chiama proprio Vittorio), o, in modo retorico e lezioso, a grandi pellicole della contemporaneità come Interstellar, compiendo il proverbiale passo più lungo della gamba ed inserendosi forzatamente in un territorio che non gli compete e per cui non dispone alcun mezzo.
Sì, perché al di là di questo meritevole tentativo di portare alla luce un tema contingente per l’Italia del qui e ora, La mia ombra è tua si rivela essere niente più che una favoletta morale (per non dire moralista), nemmeno troppo brillante, sul cogliere l’attimo, su un passaggio di testimone totalmente immune da qualsiasi valore simbolico o metaforico, vestita da road movie alla Parto col folle e con rimembranze di un prototipo di commedia che mai avremmo desiderato rivedere sul grande schermo. È infatti proprio contro il muro della burletta puerile, immatura, anacronistica, triviale, sboccata e consapevolmente razzista che si infrangono tutte le aspirazioni comiche, drammatiche ed argomentative del copione di Cappuccio, Nesi e Paolucci.
Un badante-servo-fratello nero che dovrebbe far ridere per via del suo italiano stentato o forse proprio per la bizzarria del suo rapporto con Giallini, battute su dimensioni e circonferenze, la solita, vecchia barzelletta del carabiniere ottuso e cialtrone, l’immancabile sequenza del night-club con le solite inquadrature meramente voyeuristiche su seni e fondi schiena di giovani ragazze, un protagonista nerd e sfigato la cui forza comica consiste, oltre che nell’accento toscano indossato a forza da un Giuseppe Maggio insopportabile, nel fatto che questi sia costretto in continuazione a togliersi e mettersi un apparecchio in bocca (un elemento verso cui l’istanza narrante dimostra un’attenzione quasi morbosa) e indossi un paio di occhiali che dovrebbero renderlo automaticamente meno attraente; oltre che l’intramontabile scena dell’uomo anziano, in questo caso di un Marco Giallini completamente sacrificato sull’altare dello stereotipo, che non riesce ad avere un’erezione di fronte alla donna con cui dovrà fare l’amore (una Isabella Ferrari milf pruriginosa per grandi e piccini) e che si mette pertanto alla ricerca di una pillola di viagra: sono questi gli elementi e i momenti antiquati, al limite dell’inopportuno, dal cattivo gusto, della parodia, di un testo che non solo riporta indietro vertiginosamente le lancette del cinema italiano, svilendo tutte quelle piccole vittorie ottenute negli ultimi anni e la sua attuale missione di ri-fidelizzazione del pubblico più diffidente, ma pone in essere uno dei più grandi privilegi e mali dell’industria nostrana, ovvero la mancanza assoluta dell’idea di flop, del rischio imprenditoriale.
Perché un cinema in cui la maggior parte dei film hanno già coperto gran parte, se non la totalità, dei costi di produzione ancor prima di uscire nelle sale (attraverso tax credit, fondi regionali e statali, concessioni televisive); nel quale non si premia l’idea originale, geniale, particolare o inedita, quanto piuttosto quella che meglio soddisfa le clausole di un bando; in cui un regista o un produttore possono continuare a lavorare e produrre anche se tutti i loro film dovessero essere un disastro commerciale, è un cinema che, salvo alcune mosche bianche o cambiamenti improbabili, non potrà non andare incontro a pellicole come questa. A prodotti che, giusto qualche decennio fa, sarebbero stati utilizzati come riempitivi dei palinsesti o distribuiti direttamente in home video. Ad opere prive del benché minimo target di riferimento, di un’identità decisa e riconoscibile, di un’idea di cinema al di fuori dell’uso esacerbante delle economiche riprese via drone, e di una coerenza editoriale oggi quanto più necessaria. A racconti assorti in una visione anestetizzata, ingessata, vecchia, insignificante, indolente del mondo che li circonda, della gioia del narrare o di quell’arte della risata di cui, in tempi non sospetti, siamo stati i sovrani indiscussi. Avanti il prossimo…
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