TITOLO ORIGINALE: The Eyes of Tammy Faye
USCITA ITALIA: 3 febbraio 2022
USCITA USA: 17 settembre 2021
REGIA: Michael Showalter
SCENEGGIATURA: Abe Sylvia
GENERE: biografico, drammatico
Un'eccezionale Jessica Chastain sottoposta al trucco prostetico fino al limite della riconoscibilità è la protagonista assoluta del biopic che il regista Michael Showalter trae dal documentario diretto da Fenton Bailey e Randy Barbato sulla vita, sotto e lontano dai riflettori, di Jim Bakker e sua moglie Tammy Faye, la coppia di televangelisti più celebre d’America. Gli occhi di Tammy Faye è, come prevedibile, un'altra di quelle pellicole la cui essenza produttiva si colloca appunto nella connivenza con il suo interprete principale, al fine di portarla alla vittoria di quanti più premi possibili. Al fianco di un ineccepibile Andrew Garfield, la Chastain punta allora alla sua terza nomination all'Oscar, interpretando tuttavia una vittimista, più che vittima; una persona che subisce, che spesso si prostra e autocommisera, mai ribellandosi o combattendo veramente contro ciò che le viene imposto. Poi, poco fa - nel bene o nel male - che la pellicola di Showalter non sia che la deriva più didascalica e banale del genere biografico; un'opera troppo concentrata sul privato, che si libera presto di tutti i chiaroscuri, delle ambiguità, dei sottotesti, mostrandosi superficiale ed artificiosa al pari del trucco che deforma e soffoca il viso della sua mattatrice.
Tammy Faye era del tutto dipendente dagli occhi, dagli obiettivi, dalle attenzioni delle telecamere e, con loro, di milioni di telespettatori che seguivano lei e il marito Jim Bakker nelle loro vivaci, assordanti e talora ridicolmente bizzarre trasmissioni/telepredicazioni giornaliere sulle reti della PTL Satellite Network. Questo lo sappiamo bene e lei stessa lo ha dimostrato - più o meno implicitamente - in molteplici occasioni, durante il corso della sua controversa ed altalenante carriera da star televisiva. Un amore per il medium e i suoi meccanismi che il regista Michael Showalter rovescia (e riduce, sigh) a suo favore nel film biografico che - a partire da un documentario del 2000 diretto da Fenton Bailey e Randy Barbato - intende raccontare i 34 anni e più di vita, sotto e lontano dai riflettori, della coppia di televangelisti più celebre d’America o, come li definirono alcuni giornalisti, “i Ken e Barbie dell’evangelismo”; dall’ascesa e il successo iniziale, fino ad arrivare all’ingordigia, la brama di successo e denaro, la crisi, gli scandali, la rovina.
Così come forte, insopprimibile ed insistente era l’attrazione di questa “Barbie” della TV evangelica per la telecamera, altrettanto e, in proporzione, forse ancora più intensa è la forza di gravità che lega Gli occhi di Tammy Faye (e la macchina da presa manovrata in modo rigoroso, ma non eccezionale da Mike Gioulakis) alla sua indiscussa protagonista: una Jessica Chastain sottoposta al trucco prostetico fino al limite della riconoscibilità, ma di cui comunque riconosciamo la bravura, lo charme e la grande versatilità [per il film, ha pure imparato a cantare], che, con questa interpretazione, punta ad una terza nomination all’Oscar, dopo quelle per The Help e Zero Dark Thirty.
Il procedimento messo in atto da Showalter è pertanto quello di qualsiasi altro biopic la cui origine ed essenza produttiva si collocano appunto nella connivenza con il suo interprete principale, al fine di portarlo (o portarla) alla vittoria di quanti più premi possibili. Un atteggiamento che, nella maggior parte dei casi, finisce per schiacciare un cast di attori più o meno marginali. Per sua fortuna, Gli occhi di Tammy Faye non inquadra, sostiene ed asseconda la Chastain a tal punto da non permettere ad un Andrew Garfield anch’egli, come la collega, artefatto e gonfiato dal make-up, inizialmente candido, fanciullesco e sognatore, poi sempre più nervoso e moralmente e psicologicamente indecifrabile, di risplendere e farsi ricordare. (Nel cast ci sarebbe pure Vincent D'Onofrio, ma diciamo che tanto il suo ruolo drammaturgico, quanto la sua interpretazione si rivelano abbastanza sacrificabili).
La buona prova di un attore come Garfield, che continua a dimostrare di poter ambire a qualcosa di più, non basta ad impedire a Gli occhi di Tammy Faye di esistere solo ed esclusivamente in funzione - manco a dirlo - di Faye/Chastain, in modo non dissimile da quanto già visto nel dimenticabile Judy di Rupert Goold, che valse la statuetta a Renée Zellweger per la sua Judy Garland. A differenza però del film di Goold: fatto, correttamente ma svogliatamente, solo per portare Zellweger alla vittoria; il tentativo di Showalter, a nostro modesto parere, non potrà ambire a qualcosa di più di un paio di candidature, tra cui (ovviamente) quella alla migliore attrice protagonista.
Questo perché, diversamente da Judy (e dal suo finale), la storia tratta da Abe Sylvia racconta una vittimista, più che una vittima. Una vittimista (rap)presentata, sì, come anticipatrice dei suoi tempi, come una figura controcorrente e di rottura rispetto alla (di lei) coeva discriminazione, da parte di una società perbenista, ipocrita e fallocratica, nei confronti di tutto ciò che allora era ritenuto blasfemo (l’omosessualità) o inferiore (la donna), dunque perfettamente inserita nelle attuali correnti progressiste ed inclusive. Ma pur sempre una vittimista, una persona che subisce, che spesso si prostra e autocommisera, mai ribellandosi o combattendo veramente contro le leggi sociali ed etico-morali del tempo o contro la maschera stilizzata, grottesca e traviata che, di lei, è stata fatta e fatta intendere al pubblico, tanto da parte del marito, tanto per demerito suo.
Se allora, in un’ottica produttiva, di premi e attualizzazione dei propri discorsi, possiamo definire Gli occhi di Tammy Faye un fallimento chiaro e semplice, invece, in termini di esperienza ed esercizio cinematografici, il biopic di Showalter si propone - azzardando - come un ragionamento estetico e concettuale simile ad House of Gucci, tuttavia privo di tutto quel discorso - apprezzabile o meno, ma comunque presente e manifesto - sul kitsch e trash che diventano l’unica via per narrare una vicenda più surreale e grottesca della finzione stessa. In questi termini, Gli occhi di Tammy Faye altro non è che il tarocco di un tarocco (d’autore), la deriva più didascalica e banale del genere biografico, ma anche un tentativo di imitazione spurio e mediocre del The Master di Paul Thomas Anderson.
Un film che, nella sua incapacità di liberarsi e librarsi al di là degli occhi e del punto di vista di colei che lo intitola, finisce per banalizzare molti dei possibili discorsi e parallelismi degni di un maggior approfondimento, soprassedendo e semplificando con troppa disinvoltura i principali punti di svolta del racconto e delle vite dei suoi protagonisti.
Questo non significa però che, ne Gli occhi di Tammy Faye, non vi siano affatto momenti di pura e semplice affabulazione (anzi la prima parte del film, quella relativa all’incontro e all’ascesa della coppia è dannatamente divertente, sia per il modo ironico e beffardo con cui il film ride di loro e con loro, sia per il ritmo indiavolato con cui si susseguono gli eventi) oppure un qualche barlume di ispirazione (vedi, ad esempio, il recupero dello zapping televisivo nel racconto di come lo scandalo che li coinvolge viene visto ed interpretato dai media e dall’opinione pubblica, alternato alla loro intervista ridicola e goffa nella trasmissione Nightline). Tuttavia, il peccato più grande del film di Showalter è sacrificare tutto ciò che questo avrebbe potuto offrire di originale o anche solo stimolante al proprio pubblico (di per sé non propriamente definito), a favore di discorsi evidenti, smaccati, inconfutabili, innocui, troppo concentrati sul particolare e sul privato.
La religione come sete di denaro, potere mediatico e valore materiale, sinonimo di abbondanza barocca, arca per la sola classe media e i ricchi tenutari, oppure la continua autopromozione di sé stessi come coppia (tema ben disposto ad un’apertura al presente, purtroppo inesistente), la contraffazione del proprio aspetto e della propria immagine che diventa poi essenza stilizzata e grottesca, le visibili tendenze omosessuali di Jim, il riconoscimento (anche letterale) della finzione delle proprie esistenze e, di conseguenza, lo scontro con la realtà politica e sociale del paese; a discapito invece dello studio dei motivi sociologici per cui le trasmissioni dei due riuscivano ad incantare milioni di persone, dei modi in cui i due televangelisti hanno reinventato la televisione, di un discorso sul privato come bene di valore utile e sempre disponibile agli occhi di avide telecamere: detto più semplicemente, di quello che ci si aspetterebbe da un’opera dallo spirito così platealmente documentaristico come questa. Purtroppo, Gli occhi di Tammy Faye si libera presto di tutti i chiaroscuri, delle ambiguità, dei sottotesti, mostrandosi superficiale ed artificioso al pari del trucco che deforma e soffoca il viso di Jessica Chastain.
Non dicevano che il diavolo è nei dettagli? Nel dubbio, che Dio sia lodato! Amen.
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