TITOLO ORIGINALE: Diabolik
USCITA ITALIA: 16 dicembre 2021
REGIA: Manetti Bros.
SCENEGGIATURA: Manetti Bros., Michelangelo La Neve
GENERE: azione, thriller, poliziesco, giallo
Diabolik dei Manetti Bros., una delle uscite più attese di questo 2021 cinematografico, è finalmente in sala. Tutto sarebbe a dir poco perfetto, non fosse che stiamo parlando di una pellicola estremamente difettosa ed incerta in molti dei suoi passaggi narrativi, stilistici ed estetici. Un deludente e catatonico Luca Marinelli, un'incantevole e salvifica Miriam Leone ed un fumettoso Valerio Mastandrea sono la sacra trinità di un primo esempio di cinecomics pop italiano che, a prescindere da una magnifica ambientazione anni '60, deve però scontrarsi con la più totale assenza di ritmo, un'indiscutibile verbosità, l’incapacità nel tenere l’azione da parte di due registi che, nel bene e nel male, vengono soppiantati e non riescono a contenere l'iconismo e l'icona che è Diabolik, ed infine con i limiti e le "magagne" intrinseche alla cinematografia italiana.
Inizia con un inseguimento in auto per le vie di una Bologna trasformata eccezionalmente in Clerville, Diabolik dei Manetti Bros., coppia di registi nota soprattutto nell’ambiente underground per produzioni arricchite da un approccio compositivo e creativo sempre inusuale ed originalissimo, vincitori del David di Donatello al miglior film per il meraviglioso Ammore e malavita, nonché numi tutelari, insieme a Carlo Lucarelli, dell’amata serie L’ispettore Coliandro. Dopo il “caleidoscopio pop”, futurista, allucinato e traumatico di Mario Bava - che, per sua fortuna, con il personaggio creato dalle sorelle Angela e Luciana Giussani nel novembre del 1962, c’entra poco e nulla; dove, a primeggiare, è lo stile e il senso estetico inconfondibile del maestro del brivido italiano, più che il Diabolik interpretato da un perfetto John Phillip Law -, l’idea di una trasposizione più fedele è sempre stata nell’aria.
Lo raccontano gli stessi Manetti in un’intervista a Giona A. Nazzaro per FilmTV: “La questione dei diritti è sempre stata molto complicata. Ad un certo punto, lo volevano fare gli americani, poi lo dovevano fare i francesi, poi si sono avvicendate delle produzioni italiane per farne una serie, ma in qualche modo non si è mai concretizzato nulla”. Allora, fieri del successo di pubblico e critica ottenuto con il loro Ammore e Malavita, i due inviano una bozza di soggetto a Mario Gomboli, attuale direttore ed editore dell'Astorina, il quale, di tutta risposta, gli confessa che “erano trent’anni che aspettava una proposta simile. Nei nostri appunti - continuano i Manetti - ci ha detto di aver trovato una fedeltà al fumetto originale che nessuno prima di noi aveva dichiarato di voler rispettare. Tutti volevano trasformare Diabolik in un’altra cosa”.
Era ed è sempre stata dunque la fedeltà allo spirito della testata e alla scrittura del suo protagonista, il tassello mancante; il motivo per cui un’operazione simile non avesse visto la luce prima.
Ma torniamo a quell’inseguimento di cui prima. Torniamo a bordo della famigerata Jaguar E-Type di Diabolik - qui interpretato da un Luca Marinelli che, prendendo forse un po’ troppo alla lettera la definizione del personaggio quale “freddo e calcolatore”, si rivela essere la sorpresa in negativo della pellicola. I poliziotti comandati dall’astuto e perspicace ispettore Ginko - a cui presta (veramente) il volto un Valerio Mastandrea fuoriuscito pari pari da uno degli storici albetti - sembrano aver intrappolato il criminale con un’abile mossa a tenaglia, ma, come suo solito, questi riesce a fuggirgli, facendo spuntare una piccola rampa dal manto stradale e sorvolando così il posto di blocco. Purtroppo, il Diabolik di Luca Marinelli, questa azione mirabolante (anche l’unica cosiddetta del film), la esegue in una delle scene forse meno entusiasmanti degli ultimi cinque anni di cinema italiano e non. Un’acrobazia che non provoca nello spettatore alcuna sensazione, alcun prurito, alcun brivido, alcuna meraviglia nei confronti di un’industria, quella cinematografica italiana, che, con quel salto, avrebbe potuto veramente proiettarsi nel presente, in tutti i sensi.
E così - poco entusiasmanti - sono i primi quaranta, cinquanta minuti del film dei Manetti Bros. Difatti, al di là di una ricostruzione filologica maniacale, ai limiti della schizofrenia, di una Clerville sospesa tra fine anni ‘60 ed inizio anni ‘70; di un mondo estetizzato, stilizzato ed immaginato cinematograficamente secondo quello di appartenenza e riferimento delle sorelle Giussani, in questo frangente la pellicola si scontra con alcune scelte ed altrettanti limiti - non ultimi, una recitazione dozzinale ed evidentemente teatrale da parte degli interpreti secondari, e la riprovevole assenza di un qualsivoglia dinamismo o di un barlume di tensione - che mettono a serio repentaglio l’affabulazione, l’intrattenimento e l’entrata del pubblico in questo neonato universo narrativo.
Poi, dal momento in cui avviene il fatale incontro tra Diabolik ed Eva Kant (quest’ultima, un personaggio proto-femminista che alle Giussani era riuscito benissimo, qui riportata fedelmente da una Miriam Leone eccezionale che ravviva l’anima, l’atmosfera e il fascino del racconto, corrispondendo ad una buona porzione della sua riuscita), la pellicola fortunatamente diventa sempre più divertente e, ad un certo punto, chi scrive ne voleva ancora, gli sembrava ancora presto per dire addio a Clerville, Ghenf... Insomma, ad un’ambientazione che fa il suo dovere - nonostante le incursioni in dialettismi, campanilismi sciagurati o in eccessive caricature - e ai suoi appariscenti ed artificiosi abitanti.
Se dovessimo però tracciare un giudizio complessivo di questi 133 minuti, che definisca quindi una specie di minimo comune denominatore tra una prima metà scarsissima ed una seconda più convincente, scriveremmo che, a prescindere da una valorizzazione eccelsa delle maestranze artigianali, da sempre vanto del nostro cinema - tra cui sono d’obbligo citare almeno gli strepitosi costumi d’epoca di Ginevra De Carolis [discorso a parte riguarda quello di Diabolik, di cui non abbiamo apprezzato particolarmente la discordanza e sconnessione di trame e percezione tra la testa e il corpo] e il trucco raffinato di Claudia Bastia, a cui si sommano, in secundis, la fotografia di Francesca Amitrano: tanto sbiadita ed evanescente nell’estetica, quanto noiosa e proverbiale nello studio del piano, dell’inquadratura e dei suoi fini espressivi, ed una colonna sonora tra il funzionale e il (tema) memorabile di Pivio & Aldo De Scalzi -, Diabolik dei Manetti Bros. è proprio quello che Mario Gomboli e l’Astorina avrebbero voluto da una trasposizione del personaggio. Ma anche, inevitabilmente, il concretizzarsi di gran parte dei compromessi, dei limiti e delle deviazioni che, una concezione così pedissequa di adattamento, avrebbe comportato e comporta.
Allora, del film si possono criticare la scarsità di ritmo, l’indiscutibile verbosità, il didascalismo di alcuni momenti e di un montaggio che si riferisce fin troppo scolasticamente al medium fumettistico, la mancanza di una esuberanza a dir poco necessaria per incollare lo spettatore alla poltroncina e riportarlo in sala per i (già confermati) capitoli successivi, uno spirito, sì, ossequioso e debitore nei confronti del personaggio, ma non di Diabolik come concetto, paratesto, fenomeno culturale; dunque l’assenza più totale di quel senso di proibito, scabroso, ruvido e granuloso che si ha ancora oggi nello sfogliarne e leggerne le storie (soprattutto quelle più datate). Ma anche il desiderio di fare un anti-cinecomics senza prima averla, una cultura del cine fumetto, oppure ancora l’incapacità nel tenere l’azione od un “semplice” colpo di scena da parte di due registi che, a differenza di Bava, nel bene e nel male, vengono soppiantati da Diabolik. Quello divenuto icona, non l’acerbo e catatonico Marinelli, sia chiaro. Ed ecco perché stiamo parlando forse dell’inserto peggiore all’interno della filmografia dei Manetti Bros., rintracciabili soltanto in qualche scambio comico, buffo e farsesco tra i personaggi e in un’atmosfera da giallo-noir centrata il giusto.
Anche in questo caso però, come spesso accade, la questione fondamentale si situa tra la lealtà filologica ed emotiva nei confronti della materia originale (“nelle nostre teste c’era da sempre”) ed un’irrevocabile vocazione cinematografica. In tal senso, seppur in alcuni frangenti chi scrive lodi il modo in cui la pellicola riesce a restituire la sensazione che questi provava nello sfogliare le pagine degli albi, magari di nascosto “dai grandi”, Diabolik non è proprio la svolta che tutti noi avremmo sperato, quanto più un accenno da cui ripartire e prendere esempio per migliorare e crescere.
Pertanto, qualora vi poteste accontentare di un’opera modesta, sbrodolata, talora pure pretenziosa ed inspiegabilmente enfatica, ma comunque godibile e tutt’altro che priva di intuizioni e momenti quasi epifanici, Diabolik è il film che fa per voi. Per tutti gli altri, ci rivediamo alla prossima, imprecisata Arca del cinema italiano, che, così come Ginko, probabilmente non fermerà mai il suo più grande nemico.
Tanto è vero che il recasting di Marinelli, già a partire dal prossimo capitolo [che, come anticipato sopra, è tuttora in lavorazione, girato back-to-back con il terzo], a favore di Giacomo Gianniotti (Grey’s Anatomy) e, di conseguenza, la fine di ogni speranza rispetto ad una trilogia compatta, coesa e con potenzialità di fidelizzazione, rappresentano un ribaltamento a dir poco scandaloso che, per sua e nostra sfortuna, nemmeno Diabolik sarebbe riuscito a prevedere, sintomo di un cinema - quello italiano - ancora fermo nel passato, tuttora incapace di fare industria, di fare saga, e così riaffezionare quella fetta di pubblico che, proprio in questi giorni, sta invadendo le sale per il nuovo inserto Marvel. Ma, in tal caso, bisognerebbe aprire pure un capitolo infinito su quell'arte sconosciuta che è il marketing...
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