TITOLO ORIGINALE: The Guilty
USCITA ITALIA: 1 ottobre 2021
USCITA USA: 1 ottobre 2021
REGIA: Antoine Fuqua
SCENEGGIATURA: Nic Pizzolatto
GENERE: thriller, poliziesco, drammatico
PIATTAFORMA: Netflix
A soli tre anni di distanza dal sensazionale Il colpevole - The Guilty di Gustav Möller, Antoine Fuqua, con Nic "True Detective" Pizzolatto in sceneggiatura, confeziona un remake all'americano che non è solo l'aberrazione di una tendenza sempre più concreta dell'industria cinematografica hollywoodiana, ma anche e soprattutto l’emblema stereotipato di un filone di rifacimenti che stanno portando il cinema mainstream a vivere sempre più di luce riflessa. Un Jake Gyllenhaal talora fin troppo ingombrante è l'unica cosa che risplende in una pellicola più simile ad un compito insipido ed elementare, a prova di americano medio, che, tra i suoi unici meriti, ha forse quello di far conoscere ad un pubblico ancora più vasto la perla di Möller. Per chi invece l’ha già vista, suddetta perla, questo remake altro non è che un déjà vu depotenziato.
Fino a dove un remake si può spingere prima di poter essere definito un plagio? È questa una delle domande che tornano ciclicamente durante la visione di tutte quelle pellicole (spesso di provenienza hollywoodiana) che, nel loro tentativo di replicare il successo - immediato o ritardato - di una determinata opera (di solite euroasiatiche), finiscono per esserne nient’altro che un’inutile, banale e slavata copia, priva del fascino, del mordente e degli specifici pregi che hanno reso tale appunto quel testo che stanno così fervidamente tentando di rifare.
Su questo fenomeno, ci sarebbero da scrivere centinaia di articoli e approfondimenti, specie per quanto riguarda la sua incarnazione nell’ambito del cinema horror (il quale è da più di una ventina d’anni che sembra vivere - salvo eccezioni e perle rare - solo di luce riflessa), tuttavia, nelle righe che seguono, ci focalizzeremo su quello che chi scrive ritiene non solo l’esempio contemporaneamente più appropriato e, in tal senso, clamoroso di questo discorso, ma anche e soprattutto la riprova definitiva ed eclatante di un’impressione, da tempo divenuta una realtà vivida ed inquietantemente concreta.
The Guilty, drama thriller di matrice poliziesca da poco approdato nel catalogo di Netflix, dimostra infatti che, malgrado qualche caso sporadico, tutto ciò che di nuovo esce dalla fucina (o, meglio, dalla catena di montaggio) hollywoodiana altro non sia che il frutto di un riciclo ormai insito e connaturato, in particolar modo nei contesti produttivi più grandi e popolari.
Nel caso il titolo dovesse suonarvi familiare è perché quest’ultimo altro non è che il remake de Il colpevole - The Guilty (2018) di Gustav Möller, thriller danese la cui principale peculiarità consiste nello suo svolgersi interamente all’interno di un centralino della polizia o, parlando più concretamente, in due stanze ed un corridoio. Un racconto telefonico che segue le vicende di un poliziotto, degradato e confinato a questo centralino purgatoriale in seguito ad un errore sul campo, che si troverà per le mani - o, meglio, per le orecchie - un brutto caso di rapimento ed omicidio. Un’opera a dir poco sensazionale che è anche un magnifico esercizio di scrittura che diventa immagine. Un film minimalista e talora pure semplicistico, ma che ciononostante riesce a lambire le più alte vette del proprio filone d'appartenenza.
Il colpevole - The Guilty è insomma un piccolo cult che, a distanza di soli tre anni (sì, avete letto bene), viene appunto "rifatto" da un regista e produttore, Antoine Fuqua (celebri i suoi Training Day, Attacco al potere e The Equalizer), e da uno sceneggiatore, Nic Pizzolatto (già collaboratore di Fuqua ne I magnifici 7 ed autore della serie True Detective), che sembrano aver preso il termine remake un po’ troppo alla lettera. Ebbene sì, come si poteva ben intuire dal trailer, The Guilty è un film talmente simile all’originale danese che forse la definizione di copia carbone potrebbe non essere sufficiente a renderne l’idea. Peccato che a cotanta conformità - che, a partire dal soggetto e dalla caratterizzazione del protagonista Joe Baylor, raggiunge livelli a dir poco estremi, eccessivi, quando non perversi nella riproposizione pedissequa di intere linee di dialogo, come di scenari e situazioni secondari dell'opera di Möller - non coincida un’equivalente corrispondenza in quelli che sono il dosaggio dei ritmi e il fascino intrinseco della pellicola.
The Guilty non è dunque solo l’aberrazione, ma anche e soprattutto l’emblema stereotipato del remake all’americana: dove l’originale danese sceglie di prendersi i suoi tempi, suscitare suggestioni con la parola e l’intonazione degli attori, oppure concentrarsi sulle reazioni, esplorando così i meccanismi psicologici del poliziotto protagonista (interpretato, almeno inizialmente in maniera saggiamente e consapevolmente fredda ed integerrima, da un memorabilissimo Jakob Cedergren), fatta eccezione forse per il segmento in cui, come nell’originale, il centralinista sceglie di rispondere alle chiamate da una stanzetta buia, intima e privata - nel quale il remake sembra quasi potersi avvicinare alla pellicola del 2018 -, il film di Fuqua accelera vertiginosamente lo svolgersi dell’intreccio (specie nelle prime battute), sente la necessità di mostrare a tutti i costi (superflue e controproducenti le evasioni-mostrazioni in dissolvenza incrociata, così come i titoli di coda sulla skyline di Los Angeles), e gioca tutto sull’interpretazione, immedesimazione ed espressività di Jake Gyllenhaal, l’unico elemento veramente convincente del film (e per il quale si parla già di nomination ai prossimi Oscar).
Tuttavia, proprio perché quasi esclusivamente improntata sulla dimostrazione della sua versatilità e caratura attoriale, la prova di quest’ultimo - nella sua eccellenza, straordinarietà e stellare centralità all’interno del quadro filmico - finisce, alla lunga, per soffocare il personaggio di cui questi è chiamato a vestire i panni, così come ogni possibile estrinsecazione di quella umanità, fallibilità ed ambiguità, già alla base dello script e del senso della versione danese.
Sulla base di quanto riportato finora, non sorprendono perciò la vaghezza e vacuità della costruzione cinematografica su cui il film si impernia. Quando non è impegnato a replicare fedelmente la regia di Möller - sia per quanto riguarda il registro e le scelte fotografiche, sia in termini di sonoro e sua soggettivazione -, Antoine Fuqua, insieme al direttore della fotografia Maz Makhani e allo scenografo Peter Wenham, costruisce uno spazio diegetico che, nella grande sezione precedente a quel fantomatico rifugio nello stanzino buio dell’io contro me stesso, sembra quasi voler schiacciare e ridimensionare la vicenda principale - poi parabola parallela di quella individuale di Joe - a favore di quella che è viceversa la disastrosità monumentale di un incendio che sta divorando le colline di Hollywood. Tutt’altra cosa rispetto a quel contesto ed ambiente gelido e rigoroso, pallido e soffocante, ma anche atroce, istintivo e viscerale di cui il film originale tanto beneficiava.
Un errore - sul piano delle percezioni implicite - che il remake paga amaramente, specie per quanto riguarda l’atmosfera con cui dovrebbe rapire lo spettatore e la tensione che dovrebbe travolgerlo. Purtroppo qui, la presenza di una mano a muovere il tutto, di un’intenzione immediatamente palesata, di una grande produzione che vuole raggiungere determinati obiettivi, si sente eccome e questo non fa altro che minare quell’inquietudine innata e travolgente che coglieva il pubblico fin dai primi momenti de Il colpevole - The Guilty.
Non bastano pertanto un discorso forse più disilluso, ma proverbialmente polemico sulla figura del poliziotto (che, con riferimento allo script di Möller, non può più essere un eroe perché fa “male alle persone”), un’intromissione più esplicita ma anch’essa pleonastica (poiché accentuata) della vita privata del nostro Joe o un epilogo che diserta il testo danese, sondando il territorio dell’originalità e lasciandoci scorgere quello che The Guilty avrebbe potuto essere, se solo avesse adoperato un po’ più di inventiva, a fare dell’opera di Fuqua qualcosa che superi i confini del compito insipido ed elementare, a prova di americano medio. Qualcosa che, tra i suoi unici meriti, ha forse quello di far conoscere ad un pubblico ancora più vasto la perla di Möller, dal momento che, per chi invece l’ha già vista, suddetta perla, questo remake è molto più simile ad un déjà vu depotenziato, che non ad una visione nuova o peculiare dello stesso materiale. Qualcosa che avrebbe potuto servire da pretesto per una rivendicazione da parte del suo artefice originario (Möller, per l’appunto), non fosse che anche lui è qui impegnato come produttore esecutivo. O addirittura qualcosa che, tra una sequenza e l’altra, possa pure definirsi cinema, e non solo industria (per altro patetica ed utilitaristica). Guardatevi l’originale, che è meglio!
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