TITOLO ORIGINALE: Stillwater
USCITA ITALIA: 9 settembre 2021
USCITA USA: 30 luglio 2021
REGIA: Tom McCarthy
SCENEGGIATURA: Tom McCarthy, Marcus Hinchey, Thomas Bidegain, Noé Debré
GENERE: drammatico, thriller
Presentato fuori concorso alla 74ª edizione del Festival di Cannes
Il premio Oscar (per Il caso Spotlight) Tom McCarthy firma un drama thriller che prende ispirazione dalla vicenda di Amanda Knox per confezionare un racconto interessato alla decostruzione e messa in crisi dell’americano medio, qui nella sua accezione trumpiana, reazionaria e zoticona; alle conseguenze più che alle cause, alla trattazione (lacunosa) di temi caldi e contingenti più che alla denuncia, e allo incontro/scontro di culture completamente differenti. Se Spotlight faceva del potere, dell’ambiguità e della virtù della parola l’elemento centrale della propria concezione di cinema d'inchiesta e di un intrigo appassionante, La ragazza di Stillwater relega la parola al veicolo di un’informazione che è già evidentemente espressa da una narrazione visuale tersa ed istintiva.
Sembri proprio un americano in questo momento.
Così Virginie si rivolge a Bill Baker in uno dei momenti più semanticamente rilevanti de La ragazza di Stillwater, drama thriller presentato fuori concorso all’ultimo festival di Cannes, co-scritto (insieme a Marcus Hinchey, Thomas Bidegain e Noé Debré) e diretto da Tom McCarthy, colui che, nel 2016, si aggiudicò l’Oscar al miglior film e alla migliore sceneggiatura originale per quello splendido film che è tuttora Il caso Spotlight. Un’opera, quest’ultima, contraddistinta da una forte azione di denuncia, che fa della parola, del dialogo e delle interpretazioni di un cast stellare assolutamente formidabile, la via espressiva per un coinvolgimento assoluto ed un successo catartico.
Ebbene, se Il caso Spotlight puntava letteralmente il “riflettore” sui casi di pedofilia all’interno della Chiesa cattolica e si scagliava pesantemente contro autorità e media per non aver minimamente approfondito le indagini di quello che si è poi rivelato essere uno scandalo atroce, qui, McCarthy sembrerebbe voler fare la stessa cosa, con particolare riferimento al fenomeno del cosiddetto accanimento mediatico.
Seppur presenti, questi due temi non corrispondono però minimamente alle vere intenzioni de La ragazza di Stillwater, interessato piuttosto alla decostruzione e messa in crisi dell’americano medio, qui nella sua accezione trumpiana [esilarante il dialogo: “Hai votato per Trump? Non ho votato”], reazionaria e zoticona.
Ad interpretare questo uomo - che, nonostante il grande cuore che dimostra durante il corso del film, viene chiaramente descritto - alleggerendo i termini - come un buono a nulla -, troviamo un Matt Damon incredibilmente camaleontico che punta dritto ad una nomination all'Oscar, privandosi dello status di divo e grande attore hollywoodiano e vestendo i panni di un personaggio dai modi e dall’ideologia non sempre ammirevoli, ma che, proprio grazie alla sua prova accorata, riesce ad ottenere il supporto del pubblico.
Nel film, questi risponde appunto al nome di Bill Parker, rozzo e litigioso ex-operaio di una piattaforma petrolifera, ora impegnato nella ristrutturazione delle zone dell’Oklahoma colpite dal tornado, e padre vedovo (e tutt’altro che esemplare) di Allison. "La ragazza di Stillwater" è proprio lei, che, durante il suo soggiorno universitario a Marsiglia, viene arrestata e messa in carcere per il presunto omicidio della coinquilina e fidanzata, Lina, del quale lei si proclama del tutto innocente.
Innocenza e verità che Bill dovrà provare, quando, visitando la figlia in carcere per la prima volta, quest'ultima gli passa una nota da consegnare al proprio avvocato difensore. Un biglietto che potrebbe condurre all'arresto del vero killer della fidanzata.
Il riferimento è chiaramente alla vicenda di Amanda Knox, accusata, nel 2007, di aver assassinato la coinquilina e compagna Meredith Kercher durante il suo soggiorno accademico a Perugia. Un evento, caratterizzato da uno degli esempi più eclatanti di accanimento mediatico, da cui McCarthy prende come ispirazione e premessa di un testo dalla duplice natura.
Da un lato, abbiamo infatti un thriller che prosegue la tradizione di americani, riconoscibili in quanto tali (qui per come McCarthy sceglie di vestirlo e raffigurarlo); disorientati, diffidenti e in crisi in un paese di cui non conoscono la lingua, gli usi e i costumi. Una tradizione che - a partire dal Frantic di Roman Polanski e da Obsession di Brian De Palma, fino ad arrivare al Taken di Pierre Morel - recentemente è stata rivisitata da Ferdinando Cito Filomarino con Beckett, il quale, a differenza de La ragazza di Stillwater, è però maggiormente incentrato sul fattore incomunicabilità e su tutto ciò che ne consegue.
Dall’altro invece, ci troviamo di fronte ad un dramma più interessato alle conseguenze che alle cause (geniale, in tal senso, la scelta di iniziare il racconto in medias res, non mostrando ciò che ha portato alla situazione in atto), alla trattazione di temi caldi e contingenti (spesso non proprio approfondita o esaltante, c’è da dirlo) più che alla denuncia, e allo incontro/scontro di culture completamente differenti, così come di due famiglie accomunate da passati non proprio rosei. Un dramma che, a partire da una disgrazia collettiva (l’uragano iniziale), si chiude a cerchio attorno ad un quartetto di personaggi e ad una tragedia individuale, intima e, solo poi, familiare.
Un testo che appunto vuole ragionare sul cambiamento, sui mezzi e sui limiti che il singolo è disposto a superare per ottenere la verità (la quale, spesso, altro non è che una via di mezzo), e che lavora moltissimo (forse troppo) sulla sottrazione, sui sottintesi, sugli sguardi, sulla costruzione dei rapporti tra i vari personaggi, e ovviamente sulle interpretazioni di un ensemble ben assortito.
E, vista l’importanza, specie in termini di durata, del segmento centrale: quello più prettamente drammatico (e, a nostro avviso, più interessante), focalizzato sull’accettazione e sul superamento (due termini ricorrenti nella sceneggiatura di McCarthy & co.), dove appunto la ricerca della verità si arresta per un considerevole lasso di tempo; riteniamo, con assoluta certezza, che McCarthy abbia inteso La ragazza di Stillwater come un prodotto ibrido, in cui però l’ago della bilancia è visibilmente a favore di questa seconda anima del racconto, che non invece di quella più prettamente mystery thriller.
Ciò nonostante, attraverso una messa in scena rigorosa, temperata e disadorna - che, oltre alle interpretazioni, riesce a cogliere bene la “temperatura” delle varie situazioni -, il cineasta imbastisce una serie di sequenze dalla tensione pervasiva ed esasperante, merito anche di una rappresentazione, non sempre impeccabile ma funzionale, di una Marsiglia amica e nemica, complice e traditrice, sincera ed ermetica.
Pertanto, se Il caso Spotlight faceva del potere, dell’ambiguità e della virtù della parola l’elemento centrale della propria concezione di cinema d'inchiesta e di un intrigo appassionante, La ragazza di Stillwater relega la parola al veicolo di un’informazione che è già evidentemente espressa da una narrazione visuale tersa ed istintiva.
In conclusione, quello di McCarthy è un film che dice tante cose (le più importanti) attraverso le immagini (abbinate ovviamente ad una lettura attenta da parte dello spettatore), con le quali compensa invece un racconto del tutto convenzionale e abbastanza prevedibile in molti suoi risvolti, attento inoltre a soffermarsi con sufficienza e ad incorporare in sé i necessari passaggi drammaturgici.
Con una tale lucidità compositiva e possibilità e passione attoriale (al volto e al corpo imbolsito ed orso di Matt Damon si deve gran parte del coinvolgimento), secondo noi, tornare al dialogo e sfociare nel didascalismo (“A me sembra tutto diverso, io quasi non lo riconosco più”) proprio sul finale, è un grave errore.
Un errore però minimo in un testo che altro non vuole esprimere, se non i primi sintomi di uno stress post-trumpiano (un periodo ed una presidenza, le cui ferite non si cicatrizzeranno tanto in fretta); il lamento latente di un’America che forse “non cambierà mai”, ma che può ancora sperare.
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