TITOLO ORIGINALE: Beckett
USCITA ITALIA: 13 agosto 2021
USCITA USA: 13 agosto 2021
REGIA: Ferdinando Cito Filomarino
SCENEGGIATURA: Ferdinando Cito Filomarino, Kevin Rice
GENERE: thriller
PIATTAFORMA: Netflix
In seguito ad un incidente di auto in cui perde la fidanzata April, un programmatore americano in vacanza in Grecia diventa testimone oculare di un qualcosa che non avrebbe dovuto vedere e finisce così vittima di una violenta caccia all'uomo.
Ferdinando Cito Filomarino è il regista di una co-produzione Italia-Brasile, acquisita e distribuita poi da Netflix, che deve gran parte della sua riuscita al lavoro di costruzione di spazio ed atmosfera svolto dal direttore della fotografia thailandese Sayombhu Mukdeeprom, già fedele collaboratore di Luca Guadagnino (che questo film lo produce). Beckett è un thriller dell'incomunicabilità, citando il ben più noto drammaturgo Samuel Beckett; un grande, talora eccelso film di atmosfere e di concettualizzazione visiva in cui si rivela decisiva la scelta di non tradurre o rendere comprensibile ogni singolo elemento profilmico e di far recitare ogni attore nella sua lingua madre. Lo stesso non si può purtroppo dire di una sceneggiatura fatta di occasioni perse, sospensione dell'incredulità e proverbialità varie.
Gran parte della sua riuscita, Beckett di Ferdinando Cito Filomarino, co-produzione Italia-Brasile, acquisita e distribuita poi da Netflix, lo deve al lavoro di costruzione di spazio ed atmosfera svolto dal direttore della fotografia thailandese Sayombhu Mukdeeprom. Un nome che il lettore più colto ed appassionato avrà istantaneamente associato a quello del nostrano Guadagnino (che questo Beckett, guarda caso, lo produce) e a grandi capolavori del suo cinema quali Chiamami col tuo nome e Suspiria. Tuttavia, pur non sapendo chi sia Mukdeeprom e a quali film abbia preso parte, già solo dalla resa porosa dell’immagine, dalla prima panoramica laconicamente osservante o anche soltanto dal primo zoom artificiosamente straniante, il riconoscimento della mano e l’associazione a precedenti esperienze di visione sono rapidi ed innegabili.
Un contributo ed una firma, quelli del thailandese, che, al contempo, salvano Beckett e ciò che quest’ultimo è o, meglio, dovrebbe essere, al di là di un grande, talora eccelso film di atmosfere e di concettualizzazione visiva. A dover essere salvata, su tutti, è senz’ombra di dubbio una sceneggiatura (dello stesso Filomarino e di un esordiente Kevin Rice) che, nonostante un’iniziale buona scrittura dei personaggi, nello sviluppare un soggetto che è essenzialmente un incrocio tra il paranoico Frantic di Roman Polanski e il morboso Complesso di colpa di Brian De Palma, finisce per minimizzare e trascurare un discorso di denuncia potenzialmente forte ed incisivo, arrendersi ad una sempre più massiccia sospensione dell’incredulità e scadere nella proverbialità, man mano che ci si avvicina ai titoli di coda.
Dopo Cliff Robertson ed Harrison Ford, l’ennesimo “straniero (un americano) in terra straniera (l’Europa)” è un John David Washington veramente convincente e regolarmente confuso e contuso (forse un po’ troppo e, a volte, così violentemente da farci dubitare addirittura della sua umanità) nel ruolo di un programmatore - di nome Beckett, per l’appunto - in vacanza in Grecia con la fidanzata April (una Alicia Vikander sprecata), il quale, a seguito di un incidente d’auto - in cui, per colpa sua, la ragazza perderà la vita -, si converte nel testimone oculare di un qualcosa che non avrebbe dovuto vedere.
Ha così inizio una vera e propria caccia all’uomo (che sapeva troppo) attraverso i boschi (prima) e le strade (poi) di un paese sul punto di esplodere per via delle forti tensioni socio-politiche dovute alle ingenti sanzioni dell'Unione Europea. Difatti, uno degli aspetti migliori del film (sempre poiché resi al meglio dal lavoro di Mukdeeprom sul racconto visuale, sui luoghi e sulla loro predominanza all’interno del quadro filmico, ben sfruttato da Filomarino) è proprio l’ambientazione: una Grecia che, scenograficamente parlando, sembra quasi che da quegli anni ‘70 - ‘80 di De Palma e Polanski non si sia mai mossa; contemporaneamente complice nella definizione di tono e morfologia del racconto e decisiva nella costruzione della tensione.
La via del dramma sentimentale ed intimo, che si converte poi in thriller intimistico di “ritorno sul luogo del fatto”, di realtà e verità contestate, di fuga solitaria e dolorante e di costante incertezza intrapresa dai primi 45 minuti di film è infatti ben rappresentata da una Grecia pietrosa, nebbiosa ed aspra alla Angelopoulos, in cui la natura sembra aver vinto la guerra dell’antropizzazione, inghiottendo nella sua morsa sia monumenti archeologici, sia costruzioni relativamente moderne.
Pericolose ed infide, torride e concitate (in tutti i sensi) sono invece le città - rispettivamente Trikala ed Atene - che fanno da sfondo, spesso attivo, alla porzione più prettamente action thriller del racconto filmico, quella sulla falsa riga del cinema di Costa-Gavras, incentrata su intrighi e complotti politici, tradimenti e disillusioni, cortei inizialmente pacifici, ma che si trasformano poi in scenari assurdi ed iconograficamente apocalittici (momenti, questi ultimi, in cui la pellicola di Filomarino raggiunge i suoi vertici tensivi e compositivi).
Ciò nonostante, la vera chiave di volta del film, quella che riesce a fare di Beckett un prodotto ben al di sopra degli standard, è la scelta di non tradurre o rendere comprensibile (per esempio, attraverso sottotitoli) ogni singolo elemento profilmico e di far recitare ogni attore nella sua lingua madre. In questa ottica, il nome del protagonista della pellicola potrebbe essere visto allora come un riferimento (neanche poi così velato) al ben più noto drammaturgo inglese Samuel Beckett, considerato tra i padri del teatro dell’assurdo, la cui opera vede tra i suoi stilemi caratteristici appunto il cosiddetto dramma dell’incomunicabilità.
Una incomunicabilità, quella tra Beckett (il personaggio) e ciò che lo circonda, che accresce il disallineamento rispetto alla realtà - rappresentato anche graficamente da Filomarino e Mukdeeprom, attraverso inquadrature volutamente e proporzionalmente sgraziate, spesso di taglio voyeuristico, e panoramiche autosufficienti in cui la mdp abbandona per un attimo Washington, per poi ritrovarlo e (rin)seguirlo qualche secondo più tardi -, accentuando una tensione già presente e sostenuta saldamente.
Pertanto, ogni volta che Beckett si troverà di fronte ad un cartello che potrebbe rappresentare una fonte di salvezza, un avvertimento o un’indicazione preziosa, o sarà costretto a chiedere aiuto e quindi scambiare qualche parola con le persone del luogo, oppure ancora dovrà tentare di districarsi in un spazio sempre tortuoso ed ostile, che risponde e si muove in base a motivi a lui (e a noi) sconosciuti (“Cosa dicono?”), per lo spettatore - sempre che questi non mastichi bene il greco o non ne conosca affatto l'alfabeto - l'immedesimazione sarà quanto di più semplice e, insieme, quanto di più serrato e devoto.
È qui, nel “thriller dell’incomunicabilità”, citando l’altro Beckett, che risiede dunque il cuore del film di Ferdinando Cito Filomarino; è questa l’accezione che, unitamente alla personalissima fotografia del già largamente incensato Mukdeeprom - e all'infuori del montaggio, asciutto ma progressivamente fin troppo sovrabbondante, di Walter Fasano (altro sodale di Guadagnino), di una colonna sonora abbastanza pavida targata Ryūichi Sakamoto (già collaboratore di De Palma) e di un’interpretazione fatalista del racconto -, fa di quest'ultimo tutt'altro che “il solito film Netflix usa e getta”. Al contrario, Beckett è un prodotto che ha tanto da dire, specie in termini prettamente cinematografici. Magari questo “tanto” non lo dice sempre al meglio delle proprie possibilità, ma il risultato finale basta per concedergli una visione.
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