TITOLO ORIGINALE: The Power of the Dog
USCITA ITALIA: 17 novembre 2021
USCITA USA: 17 novembre 2021
REGIA: Jane Campion
SCENEGGIATURA: Jane Campion
GENERE: drammatico, western
In concorso alla 78ª edizione della Mostra del Cinema di Venezia
Jane Campion torna, dopo 12 anni, alla regia di un lungometraggio e decide di mettersi in gioco, dirigendo e scrivendo un film eccezionalmente al maschile che tratta della crisi del machismo e dell’arrivo della modernità (nel bene e nel male) in un contesto retrogrado, (cor)rotto ed omofobo. Una “prima volta” emozionante.
“Libera l’anima mia dalla spada/e il mio amore dal potere del cane”. E’ con un passo famosissimo del Salmo 21 - che, in sé, racchiude tutta l’inquietudine, la rabbia e l’orrore della storia di cui ci apprestiamo a scrivere - che cala il sipario su The Power of the Dog, adattamento del romanzo cult del 1967 di Thomas Savage, con cui la neozelandese premio Oscar (per Lezioni di piano) Jane Campion fa il suo ritorno al Lido e al concorso della Mostra del Cinema di Venezia, dopo ben 22 anni (l’ultima volta fu con Holy Smoke – Fuoco sacro nel 1999); ma anche al lungometraggio (il film esce a distanza di più 12 anni dal suo ultimo Bright Star).
Una scelta, quella di trasporre su grande schermo l’opera di Savage che deriva dal suo essere “sublime”, dal fatto di essere un testo che, secondo la regista, “merita di vivere sul grande schermo”. Commenta la stessa Campion in conferenza stampa: “Non riuscivo a smettere di pensare alla storia: mi aveva davvero stregato. I temi della mascolinità, della nostalgia e del tradimento sono un mix inebriante”.
E mai parola (inebriante) fu più adatta per descrivere una pellicola, The Power of the Dog, che si impone come via di mezzo tra la grandeur e l’importanza conferita al paesaggio e alla scenografia dal western classico (quello di John Ford e Howard Hawks, per intenderci) e quella accezione politica che il genere ha assunto dal ‘68 in poi, quando i protagonisti dei western cominciarono ad avere una maggior tridimensionalità ideologica e ad impersonare “il sogno di una rivoluzione impossibile al presente”, per citare Brunetta.
Un binomio, quello western-politica, che continua a vivere tuttora nella maggior parte dei suoi esponenti più illustri. Basti pensare anche solo al recente Notizie dal mondo di Paul Greengrass (a nostro avviso, uno dei migliori film di questa annata cinematografica), neo western che, proprio come The Power of the Dog, presenta un soggetto, l’afflato e il lirismo tipici dei capolavori del passato, dando però vita, al contempo, ad una riflessione sull’America di oggi, reduce dagli slogan e dalle fake news della presidenza Trump e proiettata verso una nuova era di ricostruzione.
Il film si ambienta nel Montana del 1923, più precisamente nel ranch dei Burbank, gestito dai fratelli Phil, interpretato da un Benedict Cumberbatch inedito, a volte quasi irriconoscibile, che regge sulle sue spalle l’affabulazione, la credibilità e spesso anche la riuscita di intere sequenze (ciò nonostante, per noi, non da Coppa Volpi); e George, a cui presta il volto un Jesse Plemons che sembra purtroppo limitarsi al compitino. Se quest’ultimo è un uomo composto ed equilibrato, poco interessato alla vita da ranchero, il primo è nato per essere tutto ciò che fondamentalmente è: un bovaro ed uomo (“come tanti altri”?) sicuro di sé, carismatico, rispettato e temuto da chiunque incroci il suo cammino, ma anche prepotente, feroce ed omofobo.
La vita dei due e l’apparente pace del ranch Burbank viene però rotta quando il minore (George) si invaghisce e chiede la mano della vedova di un suicida, tale Rose (una Kirsten Dunst imprevedibile ma neanch’essa convincente fino in fondo), la quale si trasferisce alla fattoria con il figlio Peter (la rivelazione Kodi Smit-McPhee): una sorta di Norman Bates ante-litteram (quello di Savage), un ragazzo problematico e disturbato, dalla parvenza quasi evanescente, preso in giro da tutti (anche da Phil e i suoi caballeros) per i suoi modi effeminati, il cui sogno più grande è diventare medico. Minacciato dalla presenza della donna ed infastidito dalla presenza del giovane, il luciferino Phil inizia ad architettare un piano per distruggere gli invasori del suo spazio vitale...
Sono quindi due le tematiche principali, già presenti nel romanzo di Savage (da molti ritenuto rivoluzionario e precursore, specie se consideriamo l’epoca in cui venne pubblicato), su cui la Campion costruisce la sceneggiatura e la semantica della propria opera.
Tra le due, quella sicuramente più preponderante è senza dubbio quella riguardante la mascolinità - con tutti gli annessi e connessi e nelle sue varie e molteplici declinazioni – e le derive degradate e morbose a cui contesti appunto maschilisti, reazionari, superstiziosi, omofobi, (cor)rotto fino al midollo, qui rappresentati anche in modo bambinesco, e, purtroppo, non solo americani (!) possono andare incontro, quando e se messi in crisi da qualcosa o qualcuno.
Derive, come l’auto sessualità ed eventualmente l’omosessualità (con relativo momento alla Brokeback Mountain), che il film concretizza in una delle sue sequenze più sconcertanti e dunque memorabili, la quale vede uno dei personaggi principali intento a compiere una specie di rituale, ad avere un rapporto di natura autoerotica con un fazzoletto.
Pertanto, dopo aver esplorato in lungo, in largo e, soprattutto, in profondità e aver fatto della femminilità uno dei tratti distintivi della propria filmografia, Jane Campion decide, in un certo senso, di (ri)mettersi alla prova, dirigendo e scrivendo un testo in cui le figure femminili sono solo quattro, perlopiù marginali e non certo memorabili (la governante di Geneviève Lemon e la “serva” interpretata da Thomasin McKenzie). Una “prima volta emozionante”, come detto dalla stessa Campion, ed una nuova strada del suo cinema che, già da sole, valgono il prezzo del biglietto.
Dal canto loro, i personaggi, a prescindere dal proprio sesso, così come la loro ottima scrittura e l’esplorazione - talora di pura natura voyeuristica, curiosa ma mai invadente, asservita ma non sottomessa ad una lettura superficiale – che la cineasta conduce sulla psiche, sulle nevrosi, sui traumi e sulle crepe di questi ultimi, rispondono ad una medesima condizione, che è poi quel secondo nucleo tematico attorno a cui si costruisce la semantica della pellicola.
Quelli (rap)presentati e lambiti, in maniera consapevole, misurata e magniloquente, dalla macchina da presa della Campion sono infatti un mondo ed una realtà fuori dal tempo e dallo spazio e che, in quanto tali, sembrano essere quasi autosufficienti e completamente isolati rispetto ad un altrove che, superata un’imponente, imperscrutabile e magica catena montuosa, pare annullarsi.
Di conseguenza, quando anche in questa fetta di mondo, in cui le tradizioni, le radici, i miti (quello di Romolo e Remo, citato dal fratello maggiore) e le leggende (quella di un messianico Bronco Henry) sono tutto; iniziano a tirare i venti della civiltà, del progresso e della modernità (nel bene e nel male) e quando questo comincia ad essere invaso da persone che quel progresso, quei nuovi costumi e quel futuro lo incarnano, l’impressione che la Campion fornisce allo spettatore risuona ancor meglio e ancor di più di quanto avrebbe fatto se questo universo diegetico non fosse stato così meticolosamente indagato e proposto.
E colpisce quindi con maggior ferocia, ma anche con maggior interesse, la risposta (ovviamente primitiva, violenta e sadica) di questo stesso universo, il cui portabandiera, con tutti i suoi traumi e le sue nevrosi, è ovviamente Phil che, così come tutte le altre personalità del racconto di The Power of the Dog a rotazione (la Dunst su tutti), in alcuni frangenti sembra essere quasi un essere fantasmatico, un poltergeist che entra ed esce di scena come meglio crede.
In tal senso, vitale e fondamentale si rivela essere il lavoro e il rapporto che la Campion stabilisce tra campo e fuoricampo e il ruolo che quest’ultima affida alla musica (intra- ed extra-diegetica), la quale accentua quel senso di invadenza e di oppressione già ottimamente corroborato dalla messa in scena.
Abbandonandoci invece ad un tipo di analisi più superficiale, colpisce il modo (seppur non sempre perfetto, non proprio compatto, né tantomeno universalmente accessibile od estremamente godibile) con cui la cineasta scrive, ma soprattutto mette in scena un racconto che, sino agli ultimi cinque minuti, si fa fatica ad inquadrare e di cui non si comprendono pienamente le intenzioni.
Al di là dei vari simbolismi e dei vari discorsi extra-filmici (su cui però avremmo qualcosa da ridire), così come dei piccoli risvolti di trama e degli echi della grande epica western coadiuvati, a loro volta, da quell’approccio realistico, sporco, tanto vivido quanto nauseante, caro a pellicole come il meraviglioso Hostiles di Scott Cooper, è infatti nel finale che The Power of the Dog e Jane Campion affermano con fermezza e decisione la propria forza di visione e l’abilità di un’autrice di cui è impossibile non apprezzare il coraggio, il rigore estetico e la lucidità (nonostante qualche deragliamento in qua e in là) di una narrazione che è sì dialogo, indizio, significato e climax, ma è anche e soprattutto rappresentazione, sintassi visiva, racconto per immagini ed espressività del quadro cinematografico.
Sul finale, non è quindi solo attraverso le parole e gli indizi disseminati tacitamente nelle varie sequenze, bensì attraverso le immagini (ed un’atmosfera disturbante, inquieta ed estraniante, risultato di una composizione lenta ma crescente) e la nostra sensibilità nella loro interpretazione che si scioglie l’intreccio e capiamo che la risposta a tutto era sempre stata lì, davanti ai nostri occhi, fin proprio dall’inizio.
Che poi, a ripensarci, si potrebbe pure banalizzare e ridurre il film ad un ulteriore e ridondante conflitto tra il passato e il futuro, tra la retrogradia e il progresso, oppure ad un passaggio dall’infanzia all’età adulta. Ma, sinceramente, l’occhio, l’ingegno e il modo di fare e pensare il cinema di Jane Campion ci spingono a credere altro.
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