TITOLO ORIGINALE: Druk
USCITA ITALIA: 20 maggio 2021
USCITA USA: 24 settembre 2020
REGIA: Thomas Vinterberg
SCENEGGIATURA: Tobias Lindholm, Thomas Vinterberg
GENERE: commedia, drammatico
PREMI: OSCAR al MIGLIOR FILM INTERNAZIONALE
Un quartetto di insegnanti del liceo, per trovare rimedio ad una vita fatta ormai solo di noia, indifferenza ed insoddisfazione, decidono di testare la teoria dello psichiatra Finn Skårderud, secondo cui ogni essere umano nasce con un deficit di alcol nel sangue pari allo 0,05%. Solamente mediante il pareggiamento di questo debito, le condizioni di vita possono migliorare e tutti noi possiamo puntare al successo.
Il fondatore del fu Dogma 95 Thomas Vinterberg produce una commedia (grottesca) che è anche dramma e, all'occorrenza, tragedia, servendosi di una reinterpretazione interessante della concezione esistenziale di Kierkegaard, di un magnifico Mads Mikkelsen, di una regia espressiva (seppur eccessivamente manierista) e di una colonna sonora ben assortita per dar vita ad una celebrazione della fallibilità dell’essere umano e del mistero della vita. Purtroppo, a livello narrativo, ci si trova di fronte ad una delle sceneggiature tra le meno coese, organiche e ricche della lunga filmografia del regista e la restante parte del cast appare quasi come un mero strumento per valorizzare l'interpretazione del già citato Mikkelsen. Tuttavia, pur in questa sua (perfetta) imperfezione, Un altro giro non (ci) delude completamente.
“Cos'è la giovinezza? Un sogno. Cos'è l'amore? Il contenuto del sogno”. Così scriveva Søren Kierkegaard, filosofo, teologo e scrittore danese, considerato da molti l’iniziatore delle teorie sull’esistenzialismo, la cui vita fu caratterizzata da una “paralisi” perenne, vale a dire da un'indecisione inesauribile che lo portò ad identificarsi come un “contemplativo” che osservava l’esistenza (sua e degli altri) con distacco, più che viverla in prima persona e facendo le proprie scelte. E, con questa stessa frase, si apre Un altro giro, dodicesimo lungometraggio del (di Kierkegaard) connazionale Thomas Vinterberg, meglio noto per essere uno dei due fondatori - insieme al ben più provocatorio ed impudico Lars Von Trier - del Dogma 95: movimento cinematografico nato nel 1995 per contrastare "una certa tendenza" del cinema di allora ed esauritosi dieci anni più tardi.
Vincitore, tra i tanti, del premio Oscar 2021 per il miglior film internazionale, dell’European Film Award al miglior film e del BAFTA per il miglior film straniero, Un altro giro racconta la storia di quattro insegnanti del liceo “in andropausa” che, per trovare un rimedio ad una vita fatta ormai solo di noia, indifferenza ed insoddisfazione (sia sul piano sociale sia su quello professionale), decidono di testare su loro stessi la teoria dello psichiatra Finn Skårderud - ovviamente, traviandola e fraintendendola. Questi sostiene infatti che tutti gli esseri umani nascano con un deficit di alcol nel sangue pari allo 0,05% e che questo debito, in qualche modo, comprometta e condizioni profondamente il rendimento e le prestazioni di ognuno di noi, tanto nelle relazioni interpersonali e sociali quanto in quelle psico-fisiche.
Il pareggiamento di questo deficit, in un certo senso, può quindi migliorare sensibilmente le condizioni di vita di tutti noi e condurci al successo. I quattro - Martin (Mads Mikkelsen), il membro più depresso e sconfortato del quartetto, è il primo ad abbracciare il test - iniziano così a bere solo nell’orario di lavoro e “come faceva Hemingway, mai dopo le otto di sera e nei weekend”. La parabola discendente e tragica di questa condotta alcolica è praticamente scontata (come potrà mai andare a finire un racconto con un incipit simile?!) e il quartetto dovrà ben presto fare i conti con le conseguenze di questa loro “ricerca scientifica”.
Appuratene le origini poetiche e stilistiche, è quantomeno evidente che solo un regista ed un autore come Thomas Vinterberg avrebbe potuto trarre, da un soggetto suscettibile di retorica e moralismi spiccioli, un film del genere: non certo perfetto (neanche pienamente soddisfacente o il suo migliore), ma impeccabile nel suo essere manchevole; e trattare un argomento, quello dell’alcolismo, spinoso e sempre contingente con una lucidità e naturalezza invidiabili. Valori, questi ultimi, che si mostrano, in tutta la loro forza ed ispirazione, soprattutto nel lavoro di introspezione psicologica condotto su/con il personaggio di Martin, che, in fin dei conti, è anche il vero e proprio personaggio principale - nonché il più complesso e complessato - di Un altro giro.
Una Danimarca libera ed ebbra, in cui è normale che “tutti si ubriac(hino)ano”, in cui i giovani arrivano a bere 50 bicchieri di birra, whiskey, vino, ecc… alla settimana, organizzando corse alcoliche attorno al lago e divenendo elemento di scompiglio, ma anche di vitalità, in un paese altrimenti freddo, austero, fatto e dominato da adulti demoralizzati, grigi e sciupati come i componenti del nostro quartetto; è lo sfondo su cui Vinterberg mette in scena un racconto (da lui scritto, insieme al sodale Tobias Lindholm) al cui interno i giovani o, più in generale, la giovinezza - in senso vitale, spirituale ed ideale - riveste un ruolo da protagonista assoluta.
Mediante una macchina a mano religiosamente presente (anche se non sempre funzionale e funzionante), a ricordo ed evidenziazione continui della presenza di qualcuno e qualcosa dietro l’obiettivo, l’ex Dogma confeziona una commedia (grottesca) che è anche un dramma e, talvolta, una tragedia e che, come non bastasse, in alcuni suoi momenti incontra pure i toni e gli echi del filone (americanissimo) del junkie movie; che, di Kierkegaard, non si limita ad estrapolare una citazione con funzione di epigrafe. Al contrario, questi trae e fa propri interi aspetti del pensiero del filosofo conterraneo, applicandoli al proprio film e al proprio intreccio, con tutte le modifiche del caso.
Pertanto Vinterberg diventa anch’egli un “contemplativo” che, con la propria macchina da presa, si interessa e analizza il singolo, l’individuo fatto di carne e ossa, di esigenze, dubbi e nevrosi, concentrandosi unicamente sulle scelte e sulle opportunità della persona concreta e materiale. Come Kierkegaard, d'altronde. Unitamente a ciò, dal filosofo, il regista ricava anche il concetto di possibilità (centrale nella teoria kierkegaardiana), secondo cui ogni decisione e opportunità impongono sempre che se ne scartino altre. Kierkegaard soprannomina questa condizione possibilista - che è poi il valore connaturato e caratteristico dell’esistenza umana - aut-aut (o-o) e da essa trae i tre stadi esistenziali (inconciliabili tra loro) che l’uomo può abbracciare durante il corso della vita. Certamente a suo rischio e pericolo, in quanto la scelta di uno piuttosto che l’altro è irreversibile.
Questi tre livelli: rispettivamente estetico, etico, religioso; in Un altro giro, vengono cambiati d’ordine, funzionalmente (ed ebbramente) traviati e mostrati in relazione all’evoluzione dell’esperimento dei quattro. (Ci perdonerete quindi se anche noi, nell’applicare il concetto esistenziale kierkegaardiano all’analisi del film, non seguiremo calligraficamente e precisamente ogni sua minima accezione e non abbracceremo ogni suo specifico aspetto.)
Ecco allora che, a causa di una vita che risponde ai canoni dell’etica [dunque, di un’esistenza votata al compimento di una missione e alla costanza, ma in cui, ben presto, sopraggiunge la routine, la singolarità viene sempre meno e ci si abbandona perciò al conformismo e all’anonimato], il nostro quartetto di accademici decide di tornare allo stadio precedente, (ri)abbracciare la parte più ingenua, infantile e giovanile di sé stessi. Tornare dunque ad una vita estetica (una vita alla ricerca solo e soltanto del piacere inebriante dell’avventura e dell’attimo intenso e fugace).
Tuttavia, a differenza della teoria kierkegaardiana, questo vestire nuovamente panni di cui si è soddisfatti e orgogliosi e rispondere, mediante l’alcol, ad un bisogno di socializzazione, integrazione e successo - che sembra proprio, intimo ed intrinseco quando, in realtà, è imposto da un qualcosa di ben più grande (la società stessa) - ha come risultato l’eccesso, la dissolutezza, la sregolatezza. In poche parole, l’alcolismo. Deviando pertanto dal tracciato dell’aut-aut [in tal senso, il film sembra quasi appoggiare piuttosto una concezione hegeliana dell’esistenza] e raggiunto il punto di rottura (a seguito anche di un avvenimento tragico), Martin e soci raggiungono una sorta di stadio religioso, un rapporto rispettoso e perciò riconoscente e beato nei confronti della vita.
Un esito che - (ri)citando Hegel e disprezzando Kierkegaard - è il risultato di una crasi e di un equilibrio cosciente e figlio dell’esperienza tra i due stadi precedenti, così come tra i personaggi e l’alcol. Lo dimostra la magnifica sequenza finale (forse una delle più potenti ed incisive degli ultimi cinque anni), in cui Vinterberg riprende, attraverso l’occhio di una handycam che finalmente acquisisce un senso ed un valore espressivi, un Mads Mikkelsen apparentemente scoordinato, impegnato in prima persona [ha un background da ballerino] in una danza sfrenata, energica, liberatoria che vede l’alcol come agente coreografico (la lattina di birra) e circostanziale (i festeggiamenti per il diploma), non più come protagonista.
Tutti i riflettori sono puntati infatti sul solo Martin, sul solo personaggio, mentre si scatena in una coreografia più espressiva e loquace - riguardo all’interiorità del personaggio - di mille parole. Peccato che cotanto Cinema e, con esso, gli intenti della sequenza intera vengano parzialmente vanificati da un fermo immagine discutibile, oltre che semanticamente sbagliato.
Se è vero che la reinterpretazione del concetto esistenziale kierkegaardiano, questa sequenza finale (e poche altre), così come la magnifica interpretazione di Mads Mikkelsen sono tra gli elementi più riusciti di Un altro giro, è anche vero che, all’atto pratico, questi tre aspetti sono altresì gli unici che garantiscono al film di Vinterberg il raggiungimento di un verdetto che possa ambire a più di una mera sufficienza.
Infatti, tolti dall’equazione questi pochi dettagli - a cui si aggiungono, in secondo luogo, la regia dello stesso Vinterberg, la fotografia di Sturla Brandth Grøvlen ed una colonna sonora ben assortita (coronata dalla significativa What A Life del trio R&B Scarlet Pleasure ad aprire e chiudere) -, lo spettatore dovrebbe e Un altro giro deve confrontarsi con un ritmo buono, tuttavia manchevole di mordente ed ispirazione nella sezione centrale del racconto. Complice una sceneggiatura tra le meno coese, organiche e ricche della lunga filmografia del regista che spesso si perde in chiacchiere, in vagheggiamenti e in una riproposizione sfilacciata di situazioni ed eventi, trattando e sviluppando tematiche ed idee in uno screen-time decisamente superiore al dovuto.
Se a ciò aggiungiamo poi tutti quei difetti citati lungo il corpo della recensione, uniti, a loro volta, ad un soggetto, il cui sviluppo non lascia spazio a fraintendimenti o sorprese, e ad un cast (di supporto al nostro Mikkelsen) abbastanza scialbo ed impersonale (sarà colpa di un doppiaggio italiano monotono fino all’inverosimile?), è evidente il perché di quel voto così stranamente “basso” per un’opera da Oscar.
Tuttavia, pur potendo rientrare comodamente nella definizione “tanto fumo e poco arrosto”, non riusciamo a sentirci delusi o traditi da Un altro giro.
Sarà forse per la sua perfetta imperfezione, che a molti potrebbe suonare come incompletezza ed inconclusione, ma che a noi appare estremamente coerente con la natura e l’anima stessa della pellicola.
Sarà perché, in fin dei conti, ci troviamo di fronte ad un racconto che - nel trattare l’alcolismo come purgatorio e accesso ad un’esistenza superiore, cosciente delle proprie possibilità e di accettazione - non è né un inno all’alcol e all'ebbrezza, né un manifesto degli alcolisti anonimi, bensì una celebrazione della fallibilità dell’essere umano, che, di fronte all’evidenza dei fatti e nonostante i drammi, le angosce e i lutti [durante le riprese al regista è venuta a mancare la figlia], riesce comunque a trovare la forza per rialzarsi, divertirsi e danzare (insieme) e infine abbracciare il mistero della vita...
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