TITOLO ORIGINALE: Non mi uccidere
USCITA ITALIA: 21 aprile 2021
REGIA: Andrea De Sica
SCENEGGIATURA: Gianni Romoli, Andrea De Sica, Grams
GENERE: orrore, sentimentale, fantastico, thriller
Dopo anni di imposizioni, Mirta, una ragazza di buona famiglia, inizia a frequentare Robin, un bello e dannato senza famiglia e tossicodipendente. In una delle loro solite uscite, i due muoiono... e (apparentemente) solo Mirta resuscita. La ragazza rediviva è però tutto fuorché "quella di prima".
Secondo film di Andrea De Sica (co-mente registica dietro la serie Netflix Baby), Non mi uccidere è tutt'altro che il Twilight italiano. Aiutato da Gianni "Dellamore Dellamorte" Romoli e dal collettivo Grams in sede di sceneggiatura, il cineasta dà vita ad un racconto che - pur rappresentando, in molte sue intuizioni, un netto passo in avanti rispetto a quella mitologia e iconografia à la Twilight a cui fa riferimento e da cui recupera stimoli e suggestioni - si mostra spesso difettoso ed immaturo. Per fortuna, a queste frange autodistruttive: che trovano forma e sostanza in una caratterizzazione mancante, costruzioni dialogiche di dubbia efficacia, un andirivieni temporale ripetitivo e la liquidazione di un discorso virtualmente stimolante; trovano rimedio un'estetica sudicia e scomposta ed una messa in scena che lavora bene su piani, atmosfere e corpi. Un lungo prologo che (speriamo) dia il via ad un qualcosa di veramente incisivo e totalmente autosufficiente.
Morire è un regalo? Ci sono cose peggiori della morte? Chiedetelo a Mirta (Alice Pagani), ragazza di famiglia buona (e basta) che, dopo anni di conformità e ottemperanza delle decisioni dei genitori, sceglie di andare contro le regole e le imposizioni ed iniziare a frequentare un ragazzo assolutamente fuori dalla sua portata, Robin (Rocco Fasano), un bello e dannato senza famiglia e - come se non bastasse - tossicodipendente. Tra i due sembra andare tutto per il meglio, fino a che Mirta decide di provare, come gesto d’amore e tentativo in extremis di farlo smettere, la droga (ad iniezione intravitreale) di Robin. Sfortuna vuole che entrambi muoiano… e che (apparentemente solo) Mirta resusciti.
Tuttavia, quella che, a prima vista, potrebbe apparire come una buona notizia, si trasforma invece nella peggiore delle maledizioni, in quanto la rediviva Mirta è tutto fuorché "quella di prima". Questa è diventata infatti una dei tanti sopramorti (vampiri che diventano tali solo in seguito ad una morte violenta) che abitano il nostro mondo e a cui la setta secolare ed internazionale dei Beneandanti (da cui Mirta dovrà guardarsi) dà la caccia. Perché? Perché sì.
Queste le premesse alla base di Non mi uccidere, young adult a tinte horror tutto italiano ad opera di Andrea De Sica (co-mente registica dietro la serie Netflix Baby) e adattamento cinematografico dell’omonimo romanzo di Chiara Palazzolo, disponibile da mercoledì scorso [21 aprile, ndr] sulle principali piattaforme on demand.
Siamo perfettamente a conoscenza delle vostre perplessità nei riguardi di questo film, anzitutto vista la visione (traviata) che di esso ne è stata fatta da parte di teaser, locandine e testate varie. In tal caso, vi assicuriamo (forse deludendovi, dipende dai punti di vista) che no, Non mi uccidere è tutto tranne che la brutta copia - o copia carbone - di Twilight. E per fortuna, aggiungeremmo.
Dietro il velo da vampire story glamour, tormentata, evanescente e fintamente oscura - condita con una romance inquietantemente smielata -, si nascondono infatti un’estetica sudicia, aggressiva e scomposta ed una messa in scena (in)visibile che sa giocare con i piani - specie a fini narrativi -, costruire atmosfere e rappresentare il corpo - di carnefici: giovani e acerbi prima, bestiali e violenti poi [anche sessualmente]; e vittime: con echi gore e splatter pregevoli a livello effettistico -, che fanno della pellicola di De Sica un netto passo avanti rispetto a quella stessa mitologia e iconografia a cui fa riferimento e da cui recupera stimoli e suggestioni, come (le) tonalità fotografiche (nei segmenti situati nel presente diegetico) e scenografie in esterna.
Questi numerosi pregi, non ultimi un cast ben assortito ed espressivo - tra cui figurano un’eccellente Alice Pagani, un Fabrizio Ferracane accattivante quanto basta ed un Giacomo Ferrara che lascia il segno, per il poco che appare - ed un paio di sequenze ben concepite e costruite a livello di montaggio e messa in scena (su tutte, quella del tentato stupro nel parcheggio, che parte come flashback soggettivo, per poi svelarsi in tutto il suo inganno); non riescono però a riabilitare un racconto di per sé difettoso. E fondativo di una sceneggiatura, partorita dello stesso De Sica insieme a Gianni “Dellamorte Dellamorte” Romoli e al collettivo Grams, che non sempre riesce a tenere il passo della controparte visiva - che, a differenza loro, azzecca quasi tutto - e a manifestarsi in tutta la sua potenziale incisività, inciampando talvolta nell’esasperazione, altre volte nella propria audacia, spesso in ingenuità prevenibili.
Tra queste ultime, la più grave è senz’altro la mancata caratterizzazione del parterre di personaggi nella sua (quasi) interezza. Infatti, non fosse per il tentativo lodevole - e necessario - di recidere ogni forma di legame con quel filone amoroso morboso e malsano, figlio di Twilight ed eredi, e così stravolgere lo stereotipo dell’eroina asservita al cuore; che farebbe di tutto per abbracciare il suo amore e “vivere per sempre felici e contenti”, tutte le figure che si avvicendano su schermo - dalla stessa Mirta al villain di Ferracane - risultano essenzialmente bidimensionali, monotone ed insipide.
Aridità e mediocrità, la loro, che, oltre a decretare il generale fallimento della componente young della pellicola e dei suoi frammenti rappresentativi - che, se confrontati con quelli propriamente adult, sembrano quasi appartenere a tutt’altro film -, interferiscono saltuariamente con le potenzialità affabulatorie del racconto. Fortuna vuole che, a queste frange autodistruttive, ponga rimedio la già citata ed elogiata costruzione tecnico-estetica, unitamente ad alcune intuizioni orrorifiche di tutto rispetto, perché altrimenti questa sproporzione - pregiudizievole anche di ritmo ed interesse iniziali - avrebbe rischiato di far tracollare l’intero ecosistema nella noia e apatia più assolute.
Sono però una manciata di costruzioni e scelte dialogiche di dubbia funzionalità (“uno zombie, ma meno rincoglionito” o “buu”) - specie in termini di tono, stile ed atmosfera -, un plot twist di epilogo abbastanza telefonato, un andirivieni temporale ripetitivo, narrativamente esasperato ed esasperante, attuativamente ridondante, e la liquidazione di un discorso virtualmente stimolante (quello della droga e della tossicodipendenza come colpevoli o complici della creazione dei mostri), in favore di un ben più conforme storia di emancipazione giovanile e femminile; a pregiudicare, una volta per tutte, la buona e sommaria riuscita della sceneggiatura di Non mi uccidere. Che, insieme ad una direzione musicale eccessivamente didascalica, è rea di una dequalificazione del progetto - da “buon film” che avrebbe potuto essere, se avessimo tenuto conto solo di tecnica ed estetica - allo statuto di mero “esperimento interessante”. Interessante puramente in quanto italiano, su questo non ci sono dubbi.
Un esperimento che, a differenza del magnifico Lo chiamavano Jeeg Robot (che De Sica cita, volontariamente o meno, nella sequenza finale), e prendendo in prestito le parole del noto critico Francesco Alò, “è saga”. E che, proprio per questo motivo, avrebbe la possibilità di darsi appieno e in tutta la sua individualità in un prossimo futuro. Nulla però scaccerà l’impressione - provata a più riprese da chi scrive, durante la visione - di trovarsi di fronte ad un prologo della durata di un’ora e mezza. Un prologo che, sì, ha il pregio di dar vita ad un universo narrativo futuribile e dagli sbocchi verosimilmente infiniti e che non si accontenta di fare il compitino o scimmiottare gli americani (ciononostante, l’italianità si respira ben poco e, quando avviene, sono dolori: “Luca Bertozzi. Beneandante”). Ma che è pur sempre un prologo e, come tale, va valutato.
To be continued...
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