TITOLO ORIGINALE: Cherry
USCITA ITALIA: 12 marzo 2021
USCITA USA: 26 febbraio 2021
REGIA: Anthony e Joe Russo
SCENEGGIATURA: Angela Russo-Otstot, Jessica Goldberg
GENERE: drammatico, guerra
PIATTAFORMA: Apple TV+
La storia di un giovane americano, cui appellativo è Cherry, che, dopo essersi arruolato e aver combattuto in Iraq, entra nel tunnel della droga e inizia a rapinare banche. Conclusa l’esperienza supereroistica all'interno del mosaico Marvel Studios, i fratelli Russo tentano la strada dell’autorialità e del drama, confezionando un film retorico, buonista, pretestuoso e scontato, i cui unici pregi sono un paio di interpretazioni - soprattutto, da parte di un Tom Holland al di fuori della zona di comfort -, una regia corretta ma semanticamente contraddittoria e una fotografia tutt'altro che insufficiente. Cherry è un gigantesco ed inguardabile passo falso che pone il duo registico di fronte ad un importante bivio: tornare dietro la macchina da presa del mondo dei Vendicatori oppure proseguire in questa crociata impegnata e sofisticata, solo abbassando le proprie pretese.
Cosa c’è di peggio di un film brutto o mal riuscito? Un film brutto che pensa di essere importante, attuale, contingente e, per giunta, ottimamente confezionato. O, nel nostro caso, una pellicola che vorrebbe essere autoriale ed impegnata, ma che - purtroppo per noi spettatori - non dispone dei mezzi per raggiungere un tale status ed un tale rilievo. Prendendosi, per giunta, fin troppo sul serio.
Dopo aver firmato la regia del maggior incasso della storia del cinema (Avengers: Endgame, ndr) ed in seguito, per l’appunto, all’esperienza vendicativa nel grande disegno Marvel Studios, Anthony e Joe Russo [che, per comodità, chiameremo “fratelli Russo”] decidono di cambiare aria, cinematograficamente parlando. Pur mantenendo qualche rimasuglio del proprio rodaggio supereroistico. Tom Holland [l’Uomo Ragno del Marvel Cinematic Universe] è infatti l’attore protagonista e Henry Jackman [firmatario delle soundtrack di Captain America: The Winter Soldier e Civil War, nonché di quasi tutti i progetti prodotti dai Russo] il compositore di Cherry, adattamento cinematografico dell’omonimo romanzo di Nico Walker, in parte autobiografico.
Tracciare le varie fasi esistenziali e vitali di un tipico ragazzo americano (cui appellativo è proprio Cherry), che, deluso da tutto e tutti - anche dalla fidanzata -, decide di arruolarsi e andare in guerra, rientrando in patria qualche anno dopo con gravi disturbi post-traumatici. Disturbi che lo porteranno ad abbracciare la via della tossicodipendenza e diventare, per bisogno di soldi (per comprarsi la droga), un rapinatore di banche.
Un’opera quindi che attraversa vari stadi e, nel farlo, vari filoni e linguaggi. Suddiviso in un prologo, quattro capitoli ed un epilogo, questa si muove invero dal teen drama iniziale al film di guerra, dal junkie al heist movie, non apportando, tuttavia, quasi nulla di significativo o quantomeno inedito a ciascuno di questi generi cinematografici. Ciò nonostante, è bene proseguire e inanellare con ordine tutti i motivi per cui Cherry dei fratelli Russo è - come anticipato sopra - un film che vorrebbe imprimere un’impronta autoriale e personale sul tessuto cinematografico, limitandosi, al contrario, ad un solo ed unico brutto ricordo.
Sia ben chiaro. I fratelli Russo non sono di certo divenuti celebri per la propria magniloquenza nell’uso della macchina da presa o per una qualche forma di visione e di occhio sofisticato e consapevole dell’immagine e della composizione e realizzazione della stessa. Infatti, il dittico di Avengers (Infinity War e il sopracitato Endgame), più che affermarli come veri e propri cineasti, ha dimostrato la loro abilità nella direzione e costruzione di sequenze action certo adrenaliniche, composite e visualmente mastodontiche, ma che, ad ogni modo, non avevano granché bisogno di lavoro sugli attori, sui personaggi, sulle atmosfere o sulla drammaticità, dal momento che erano nient’altro che la combinazione e l’assemblaggio di aspetti ed elementi precedentemente presentati e stabiliti da altre pellicole e altri cineasti.
Il duo quindi non ha fatto altro che prendere in mano questa eredità e sviluppare una duologia d’azione che, in qualche modo, le rendesse giustizia e offrisse agli aficionados ciò che stavano attendendo e pregustando da mesi, se non anni. Dirigere quattro film d’intrattenimento come Dio comanda non fa certamente dei Russo dei registi affermati o prototipici né tantomeno degli autori. Li rende piuttosto dei mestieranti accorti e tecnicamente predisposti a dar vita a sequenze action, in effetti, da manuale. Ma, come si suol dire, chi troppo vuole nulla stringe. Il che equivale a stringere Cherry, più o meno.
Definire prevedibile ed anonima l’ultima regia dei fratelli Russo sarebbe eufemistico e, per giunta, un complimento ipocrita e falso che non siamo in vena di concederle. E così dicendo, non vorremmo trarvi in inganno e rischiare che possiate fraintenderci: a livello tecnico-grammaticale infatti, la scrittura visiva e l’attuazione di Cherry in sé per sé non sono il disastro irreparabile ed inguardabile che potreste dedurre alla lettura di quanto sopra (basti vedere il finto carrello dell’epilogo). Malgrado ciò, sarebbe anche scorretto non ammettere, o indicare perlomeno, come buona parte di quanto catturato e reso pellicola dai Russo non sia propriamente “farina del proprio sacco”.
Cherry, la sua regia e i suoi visuals sono, di fatto, il prodotto di suggestioni e stimoli di modelli precostituiti, che vengono riproposti e rifondati dalla macchina da presa del duo, tuttavia senza alcun processo di introiezione o rielaborazione.
Di conseguenza, durante la visione - qualora decideste di intraprendere “quest’avventura” - avrete la sensazione perenne di trovarvi di fronte ad una combinazione di spunti ed immagini viste e riviste in mille salse e altrettanti stili registico-autoriali differenti. Spunti ed immagini, questi ultimi, di cui Cherry - purtroppo per lui (e per noi/voi spettatori) - non rappresenta tanto la crasi, il punto di incontro e fusione cosciente e (nemmeno) la summa di tali correnti e visioni, quanto piuttosto una trascrizione formalmente passabile ma tutt’altro che inedita, ingegnosa o valevole di considerazione. Un film di mille film, che però, di questi mille, riesce a restituire soltanto la malacopia.
Detto ciò, vorremmo però focalizzare la vostra attenzione su una serie di scelte stilistiche e di messa in scena che i Russo abbracciano saltuariamente e a loro comodo, tanto per darsi un piglio e giustificare l’autorialità e sofisticatezza che dovrebbero caratterizzare la propria opera.
Come non dimenticarsi quindi dell’inquadratura a là Gaspar Noé (dall’interno del canale rettale del protagonista), del restringimento di formato e dell’uso del grandangolo in molte delle sequenze del secondo capitolo (quello ambientato nel centro di addestramento militare) - ad enfatizzazione ed espressione dello stato d’animo angosciato ed irrequieto di Cherry e commilitoni, quotidianamente costretti a sopportare umiliazioni, violenze e abusi -, dello split screen impiegato per cinque secondi e mai più sfruttato; oppure, ancora, degli effetti fotografici discutibili e scadenti, figli dei peggiori filtri di Instagram [con riferimento, per esempio, alla sequenza retorica e acerba in cui, per esprimere il p(i)attume che è la vita di Cherry e il fatto che egli “veda tutto grigio”, si ingrigisce l’immagine, lasciando colorata e vivida - a mo' di aura sfumata - soltanto la sua unica via di salvezza e redenzione: Emily (Ciara Bravo), la fidanzata e futura moglie].
A tal riguardo, sarebbe bene precisare come, al di fuori dell’area protetta Marvel Disney, i Russo si dimostrino particolarmente incapaci nel gestire e far emergere, in maniera degna o perlomeno corretta, i singoli comparti tecnico-estetici della propria opera. Difatti, se la fotografia - nonostante la discutibilità e la sgradevolezza di alcune sue iniziative [vedasi la scelta ampollosa ed enfatica di corredare i momenti di rinascita e riscatto del protagonista con una luce calda e tramontante] - riesce a salvarsi per il rotto della cuffia, colonna sonora, montaggio, trucco e costumi soffrono e crollano sotto il peso di una visione manchevole e di uno sviluppo inetto e scriteriato delle eventuali potenzialità. In questo tripudio di imprevista superficialità e prevedibilità, i Russo paiono dimenticarsi proprio delle sequenze d’azione, ossia del loro unico e vero cavallo di battaglia, di cui offrono soltanto un timido assaggio.
Questi preferiscono infatti puntare più in alto; su momenti dialogati completamente affidati agli attori e alla loro espressività ed ispirazione. Sequenze, queste ultime, che abbracciano espedienti triti e ritriti, estetici ed estetizzanti tanto per il gusto di farlo e di dimostrare di saperlo fare - più che per una ragione o fine ben precisi. E che, per giunta, non riescono a soddisfare alcun tipo di traguardo o coronamento, in quanto i due elementi principali su cui basano la propria riuscita (dialoghi e attori, ndr) si presentano come inefficaci e privi di qualsivoglia estro (i primi) o si sgretolano di fronte e per via di un’impalcatura filmica scialba e degradante (i secondi). I baffi alla Freddie Mercury sono la chiave per comprendere al meglio di cosa stiamo parlando.
Cherry dispone o, meglio, avrebbe potuto disporre di un grande pregio: mostrarci - meglio de Le strade del male di Antonio Campos, ovviamente - un Tom Holland al di fuori della propria zona di comfort; svestito dei panni dell’amichevole Uomo Ragno di quartiere. E di questo, in maniera del tutto fortuita ed insperata, i Russo sembrano essere al corrente. Difatti, il duo - con l’aiuto della sceneggiatura di Angela Russo-Otstot e Jessica Goldberg - tenta, in tutti i modi, di imbruttire l’attore (rinomatamente atletico e belloccio) a livello fisico e morale, sottoponendolo e mettendolo di fronte a situazioni tra le più disumane ed umilianti. Ciò nonostante, le coppie di registi e sceneggiatori assurgono parzialmente a tal scopo, mal operando, i primi, sul corpo dell’interprete [anche nel periodo da tossico, Holland mantiene il proprio “fisico da supereroe”] e calcando la mano, i secondi, sull’elemento simpatetico e vittimista.
Detto ciò, cogliamo la palla al balzo e arriviamo a trattare il vero e proprio anello debole di Cherry, altrimenti detto racconto con tanto di personaggi ed intenti moralizzatori e di denuncia. Come indicato sopra ed ampliando, lo scopo principale del film (e, conseguentemente, della sua narrazione) sarebbe offrire un mosaico contraddittorio, difettoso, corrotto, nauseabondo ma profondamente umano, intavolando - con esso e allo stesso tempo - una riflessione ed una disamina della società e dell’establishment statunitense nelle sue varie sfaccettature e realtà: l’esercito e il fenomeno dei reduci con tutti i disturbi di sorta, la povertà e la droga dilaganti, l’incertezza del sogno americano e di un futuro per le nuove generazioni, l’inadeguatezza e l’impossibilità di trovare un proprio spazio all’interno di un disegno sociale precostituito e disilluso.
Tuttavia, affermare che almeno la metà di quanto sopra elencato emerga pienamente o del tutto in seguito e durante la visione di Cherry, sarebbe una pura e semplice bugia. Magari una bugia bianca, utile ad addolcirvi la pillola, ma pur sempre un inganno. In Cherry infatti, la guerra, i disturbi, la tossicodipendenza, l’amore, la criminalità non costituiscono altro che accenni superficiali e stereotipici, che scongiurano la sceneggiatura e il film stesso rispetto all’inerpicarsi per terreni e territori tematicamente ostici e realmente sgradevoli ed insostenibili. Dimensioni argomentative, queste ultime, che, ad ogni modo, né Angela Russo-Otstot e Jessica Goldberg né tantomeno i Russo registi sarebbero riusciti a sviluppare con debita sensibilità, guizzo e pienezza. Anche in questo caso, Cherry e i suoi creativi esagerano e si caricano di fin troppe pretese e di eccessiva presunzione.
Shitty bank (banca di merda) e Bank fucks America (La banca fotte l’America) sono solo due dei nomi intenzionalmente denigratori di alcune delle banche rapinate da Cherry, mentre “Non arruolatevi nell’esercito” o “Non mi sembra di aver fatto niente per meritare una medaglia” sono alcune delle battute tipo di una pellicola che vorrebbe impartire una qualche sorta di messaggio o condurre una denuncia e critica di un dato contesto politico, sociale ed economico - ridicolizzandolo o proferendo indottrinare con parole ammonitrici e presumibilmente rivelatrici -, ma che, viceversa, non riesce ad allontanarsi dalla o superare la semplice ed infantile presa in giro. E frasi d’effetto che lasciano il tempo che trovano, rivelandosi, per giunta, tutt’altro che impattanti ai fini del film.
Tolti i difetti sopracitati e sulla base di tali insignificanti sberleffi, potreste dunque intendere Cherry come un film fortemente anti-patriottico, che si scaglia con ferocia contro il proprio paese di produzione, smascherandone crepe, dissapori, problematiche, ipocrisie e disagi. Purtroppo, la realtà dei fatti è tutt’altro paio di maniche. Visti gli sviluppi di un soggetto ordinario ma ricco di opportunità, la scelta dell’happy ending - seppur scontata ed irreale - appare come la più ovvia: da porzione cancerogena e contingente della società, il veterano riesce a redimersi e riscattarsi.
Ecco quindi che sia racconto sia messa in scena promuovono la via del patriottismo più buonista e retorico, orientando la bussola di Cherry e della sua anima argomentativa non tanto sul cinismo, sulla soluzione (o non) ad un problema reale e concreto, sul modo con cui il ragazzo riesce a risolvere la propria dipendenza ed evadere da una quotidianità tossica e miserabile, quanto piuttosto sull’enfatizzazione e sulla celebrazione patetica e ruffiana di un americano (e pertanto di un paese) che ce l’ha fatta e, con esso, di una nazione che, nonostante le difficoltà, riesce sempre a rialzarsi.
Tale buonismo è sintomatico e conforme ad una caratterizzazione dei personaggi che raramente splende per audacia e autenticità. Basti pensare che la miccia che accende l’intreccio ed è principale causa dell’arruolamento di Cherry (e di tutti i suoi problemi conseguenti) è semplicemente un dispiacere d’amore. Dispiacere d’amore che vorremmo porre a manifesto e modello esemplari dell’atteggiamento che la sceneggiatura di Russo-Otstot-Goldberg stabilisce con il resto dei personaggi, con i loro rapporti interpersonali e con l’incedere degli eventi.
Per farvi un’idea chiara e veloce di ciò che è l’intreccio di Cherry, vi basta guardare il trailer del film e, dopo averlo visto, chiudere gli occhi ed immaginare come possano concatenarsi i frammenti dello stesso in un racconto di senso compiuto. Potrà ben darsi che ciò che partorirete corrisponderà in parte, se non integralmente alla realtà narrativa. In tal senso, prevedibilità, artificiosità, retorica e buonismo sono le quattro parole d'ordine che regolano e contraddistinguono racconto e psicologie della pellicola, offerti al pubblico mediante due espedienti veramente pionieristici: un voice over/confessione (di Cherry) invadente - per non dire onnipresente - ed una ben più saltuaria, ma lo stesso superflua rottura della quarta parete (sempre dello stesso).
Grazie a questa coppia di escamotage, le sceneggiatrici vorrebbero far penetrare lo spettatore nell’interiorità, nel profondo e nelle convinzioni del nostro protagonista. Purtroppo per loro, tale intento psico-introspettivo non viene contemporaneamente bilanciato da una scrittura di egual lodevoli intenzioni (e risultati).
E così, tra banalità disarmanti, divagazioni varie ed irrilevanti, momenti didascalici e semanticamente ambigui ed un’esasperazione immedesimativa controproducente; si arena ogni speranza di veridicità, autorialità e sommaria riuscita da parte di una sceneggiatura talmente parziale, accentuata, negativista e difettosa da trasformare ciascun personaggio in un burattino insostenibile, pretestuoso, innaturale e disonesto sul piano emotivo. Di un montaggio di stralci di vita decisamente troppo lungo, oltre che tedioso, sconclusionato ed inefficiente. Di una pellicola che non sa se essere cinema, narrativa o entrambi. Di un paio di interpretazioni convincenti, di una regia corretta ma contraddittoria rispetto ad un'intenzionalità autoriale e di una fotografia non completamente da buttare che devono però arrendersi di fronte ad una mediocrità imperante e complessiva.
Serviva un prodotto come Cherry per ridefinire e attenuare realisticamente la nomea dei Russo e far risaltare le loro effettive (quindi minime) capacità e risorse nel pensare e fare cinema. Da questo punto in poi, il duo si trova di fronte ad un bivio: tornare dietro la macchina da presa del mondo dei Vendicatori oppure proseguire in questa loro crociata autoriale e scevra dal controllo Marvel Disney, magari abbassando le proprie pretese. Sarebbe decisamente meglio e migliore di un film retorico, buonista, pretestuoso, scontato ed insulso. Essenzialmente inguardabile.
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