TITOLO ORIGINALE: Sound of Metal
USCITA ITALIA: 4 dicembre 2020
USCITA USA: 20 novembre 2020
REGIA: Darius Marder
SCENEGGIATURA: Darius Marder, Abraham Marder
GENERE: drammatico
PIATTAFORMA: Amazon Prime Video
PREMI: 2 OSCAR per il MIGLIOR MONTAGGIO e il MIGLIOR SONORO
Ruben, batterista metal ed ex-tossico, perde progressivamente le proprie capacità uditive e, in attesa di un intervento (forse?) risolutivo, si rivolge ad una comunità di audiolesi che gli insegnerà a vedere il mondo da tutt’altra prospettiva. E’ disponibile, in esclusiva su Amazon Prime Video, Sound of Metal, il primo lungometraggio dello sceneggiatore Darius Marder, con un Riz Ahmed assoluto protagonista. Immagini incisive che vivono dell’espressività degli attori ed un sound design inedito, frustrante ed eccezionalmente immersivo sono la chiave d’accesso ad un dramma che vive di emotività e di incisività dei personaggi, più che dell’intreccio in sé. Un’opera difettosa in alcuni cenni di sceneggiatura, ma tecnicamente innovativa; una pellicola dalle intenzioni precise e calibrata all’atto pratico, che promette un flusso costante di emozioni - sempre sintonizzate con quelle del suo protagonista - o, in caso contrario, un paio di riflessioni stimolanti.
Il silenzio può indicare e avere differenti significati per ognuno di noi. Può assumere valenza di affermazione, severità, assenza, annientamento, riservatezza, discrezione, ma anche oblio, dimenticanza e inerzia. Certo è che nella società in cui viviamo - una società dedita alla produzione, alla competizione, alla frenesia, all’esistere e alla sua dimostrazione - il silenzio sta diventando sempre più un sinonimo di debilitazione, indebolimento e fiacchezza, quasi un difetto. Il rumore, il sentire e il sentirsi è ormai insito nel nostro modo di vivere tanto da convertire ogni momento di pace, di quiete e di silenzio, per l’appunto, in tedio, scocciatura e fastidio.
Alcuni potrebbero controbattere a questa affermazione, asserendo che, in realtà “quei momenti (di quiete) rappresentano il regno di Dio. E quel posto non ti abbandonerà mai”. Sono queste le parole di Joe (Paul Raci), un ex-alcolista che ha perso l’udito in e la famiglia a causa del Vietnam, gestore di una comunità rurale che accoglie e aiuta persone audiolese. Persone che, come lui, hanno imparato a convivere con la propria sordità, ritenendola non più un handicap o un qualcosa a cui rimediare, bensì parte della propria vita, un dono. Ed è proprio a questa comunità e a queste persone che si rivolge Ruben (Riz Ahmed), batterista metal ed ex-eroinomane protagonista di Sound of Metal, primo lungometraggio dello sceneggiatore Darius Marder, in esclusiva su Amazon Prime Video.
E, se dovessimo scegliere una parola per definire l'incipit del dramma di Ruben, silenzio sarebbe forse quella meno indicata: il suono distorto e dissonante di una chitarra elettrica apre il sipario sul concerto aspro e infuriato di un duo metal, i Blackgammon. Voce e chitarra sono di Lou (Olivia Cooke), mentre le bacchette della batteria sono in mano al suo fidanzato: il nostro Ruben. Questa è solo una delle tante e solite esibizioni di un tour che spezza la monotonia del loro girovagare nomadico su un RV - che è anche la loro casa - e rappresenta, per i due, l'unica forma di introito e di salvezza da un passato oscuro e distruttivo. Un passato, ancora ben visibile sulla loro pelle, che inizia a richiamarli, una volta che Ruben inizia a dare i primi segni di una progressiva perdita dell’udito.
I medici sono chiari: per prevenire un danno irreparabile e rovinoso, il ragazzo dovrà limitare qualsiasi esposizione ad ogni tipo di rumore forte, così da potersi sottoporre ad un’intervento (molto costoso) che, mediante l’installazione di un impianto cocleare, gli permetterà di riacquisire parte delle proprie capacità uditive. Per il batterista, questo significa non solo un completo ritiro dalla propria attività musicale, ma anche un disgregamento del rapporto con la compagna e, soprattutto, la perdita del salvagente che lo teneva a galla da una ricaduta nella tossicodipendenza. Se essere parte di una band e "pestare" rabbiosamente - quasi a mò di sfogo - le pelli della batteria erano stati i perfetti rimedi contro un passato cupo e nocivo, per risolvere questa situazione delicata Ruben dovrà estraniarsi dal resto del mondo, rinunciare alle sue due uniche ragioni di vita e, in qualche modo, tornare a contatto con i propri demoni interiori.
Nell’intonazione del disagio e del trauma vissuti dal musicista, ricoprono un ruolo di primaria importanza la regia di Marder e il lavoro di sound design portato avanti da Nicolas Becker. La prima, intima e parziale, impernia la propria visione su piani e sequenze ravvicinate che raggiungono la loro piena compiutezza grazie alla potenza espressiva e corporea degli interpreti e all’eloquenza delle immagini - senza bisogno di orpelli o virtuosismi tecnici aggiuntivi. Il secondo, inedito ed incisivo, manipola, ovatta e distorce suoni, rumori e voci appartenenti al mondo circostante ed esterno a Ruben; al focus narrativo, al fine di offrire allo spettatore una chiave d’accesso all’interiorità, alla mente e all’udito del batterista - il che sortisce l’effetto opprimente e frustrante desiderato.
Così facendo, ossia sfruttando a proprio piacimento immagini e suoni: le due anime fondative del cinema sonoro, Sound of Metal assicura una totale immedesimazione ed immersione da parte del pubblico nei confronti della vicenda narrata e del dramma del suo protagonista, sul quale, salvo qualche inquadratura o frammento specifici - in cui le due componenti sopracitate si staccano dall’ocularizzazione preponderante (Ruben), divenendo ben più oggettive -, si basa e si compone l’intera impalcatura filmica. Unitamente a ciò, regia e, soprattutto, sound editing risultano efficaci e funzionali nel ruolo di dinamizzatori ed innovatori di una messa in scena e di un comparto tecnico - a cui rispondono, in secondo luogo, un montaggio invisibile ed una fotografia tutt’altro che entusiasmante - che, altrimenti, saprebbero di già visto.
Tale pregevole funzione è successivamente corroborata da un ricettacolo di interpretazioni ed interpreti sorprendenti che, in alcuni casi, riescono addirittura ad illudere lo spettatore della natura di ciò che sta guardando. In ogni caso, è indubbio che il film sia né più né meno che un, se non il trampolino di lancio per l’anglo-britannico Riz Ahmed [per questa sua prima prova da protagonista, l’attore ha imparato a suonare il batteria e il linguaggio dei segni, ndr] e la sua carriera - la nomination all’Oscar è quasi scontata.
Sintomatici, in questo senso, un personaggio, quello di Ruben, che sembra esser stato fatto a calco e su misura di Ahmed, una messa in scena che, come indicato sopra, investe quest’ultimo di ogni attenzione e svisceramento espressivo e il contrasto tra una fisicità asciutta e (in genere) sessualmente magnetica ed una sfumatura fragile e vulnerabile - che, perciò, finisce per distruggere ogni avanzo di sex appeal -, su cui la pellicola fonda gran parte del proprio potenziale affabulatorio.
Tolto l’anglo-britannico, tra gli interpreti coinvolti è d’obbligo citare anche il caratterista Paul Raci che, con il suo approccio verista e paternale, riesce nell’arduo compito di oscurare il collega protagonista, imponendosi con intensità e sincerità sulla scena. A mani basse, una delle più sorprendenti rivelazioni attoriali dell'anno.
Nonostante l’oggettiva e palpabile bravura degli attori, queste prove non godrebbero certo della stessa fortuna e validità, se sostenute da una sceneggiatura approssimativa, piatta e trascurata. Come intuibile e per fortuna della produzione e degli spettatori, non è questo il caso di Sound of Metal e dei suoi personaggi. Difatti, trattandosi di un racconto in cui i dialoghi sono perlopiù assenti o relegati in secondo piano, lo script del film - firmato a quattro mani dal regista insieme al fratello Abraham [curatore, per giunta, della significativa, seppur fugace, colonna sonora, ndr] - non può sperare in grandi monologhi o citazioni argute per far colpo e lasciare un ricordo di sé nella mente di chi guarda. Per questo motivo, il duo Marder punta tutto sulle emozioni e, con ciò, sull’interiorità dei propri personaggi.
Ed è proprio da questa esigenza che prende forma la caratterizzazione alla base e a beneficio di quelle interpretazioni sorprendenti ed intense, la quale si converte ben presto nell’elemento vincente della produzione; nella nota esemplare di un mosaico filmico dalle intenzioni precise e calibrato all’atto pratico. Tutte le pedine della narrazione di Sound of Metal, dalle più alle meno importanti, dalle primarie alle secondarie, dalle più alle meno impattanti; godono di un trattamento sublime, formalmente corretto ed emotivamente realistico, e di un’evoluzione che non lascia mai trasparire la penna di chi sceneggia e non sa mai di eclatante, gonfiato o sensazionalistico.
Ovvio, il background del nostro Ruben avrebbe potuto essere esplorato e dettagliato maggiormente - invece ci si è limitati ad un paio di indizi e riferimenti -, la porzione centrale del racconto si perde forse eccessivamente, mentre il finale è così tanto caricato da risultare prevedibile, banale e troppo confortevole. Tuttavia, ogni azione, ogni decisione, ogni ingenuità, ogni pregio e ogni difetto esibito, esternato o compiuto da Ruben in questo suo percorso appare motivata, e conforme con quanto avvenuto prima e quanto avverrà poi. Dal canto nostro, la sceneggiatura di Sound of Metal - corretta, genuina e sensata - è il perfetto esempio di come si dovrebbe impostare e scrivere un copione drammatico.
Alla lettura della sinossi, Sound of Metal potrebbe essere inteso come un film musicale alla Whiplash, eccezion fatta per il genere musicale - un metal duro, tagliente e forsennato. Tuttavia, ad un’analisi più approfondita, è chiaro come la musica sia alquanto marginale ai fini della trama e come la pellicola sia piuttosto un testo sulla dipendenza che, ciò nonostante, non presenta alcun segno di sostanze stupefacenti o utensili loro collegati.
L’assuefazione qui narrata invero non prevede alcuna iniezione o inalazione, ma può derivare ed essere provocata semplicemente dall’ascolto di una caffettiera, di un frullatore, della pioggia che si infrange al suolo e sulla vegetazione (emblematici, in tal senso, i dettagli a complemento della sonorità di tali elementi), di un rullante o della voce di una persona. L’udito diventa così una vera e propria droga a cui Ruben sacrificherà sforzi, risparmi (arriverà a pregare per un prestito, proprio come gli eroinomani per permettersi un’altra dose), averi e legami - passati e acquisiti.
Infatti, in questa ricerca e recupero di una normalità tanto agognata (ma così indispensabile?), il cammino del musicista si incrocerà e intreccerà con quello di una piccola comunità - quella gestita dal summenzionato Joe - che, per mezzo di un linguaggio dei segni che diventerà quasi un requisito di appartenenza e di inclusione per Ruben, mostrerà a quest’ultimo un’alternativa, un punto di vista divergente al suo e alle sue necessità ed un ambiente familiare e solidale in cui sentirsi utile, compreso e accettato.
Una famiglia - quella della comunità, quella che non ha mai avuto, quella che gli tende una mano per rimettersi in gioco - che egli rigetta in maniera del tutto egoista, preferendo inseguire un sogno; un ritorno alla norma, ai tour, ai lunghi viaggi nel RV in compagnia della sua fidanzata, alla sua batteria e al suo suonare bestiale ed istintivo. Come imparerà a proprie spese, tutto ciò non si rivelerà altro che un’illusione, frutto di un convincimento prontamente distrutto da un apparecchio che distorce ogni percezione uditiva, incluse le note più commosse e ispirate di un pianoforte e di una voce amata. Di fronte a questa deprimente ed avvilente realtà dei fatti, l’unica soluzione possibile è abbracciare il silenzio più totale che, chissà?, potrebbe far(vi)gli vedere e assaporare il mondo da tutt’altra prospettiva.
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