TITOLO ORIGINALE: Il talento del calabrone
USCITA ITALIA: 18 novembre 2020
REGIA: Giacomo Cimini
SCENEGGIATURA: Giacomo Cimini, Lorenzo Collalti
GENERE: thriller, poliziesco, drammatico
PIATTAFORMA: Amazon Prime Video
Un uomo chiama una stazione radiofonica di Milano, rivelando di essere a bordo di un’auto e di avere accanto a sé un ordigno che esploderebbe non appena e se il collegamento tra lui e la trasmittente venisse interrotto. Al suo secondo lungometraggio, Giacomo Cimini firma, su soggetto di Lorenzo Collalti, un thriller che strizza l’occhio ad un tipo di produzione e di taglio editoriale, quello hollywoodiano, che è e sarà sempre divergente rispetto all’industria nostrana. Il risultato è un prodotto insoddisfacente e mediocre sotto diversi punti di vista che, tra una messa in scena fin troppo pacata e classica, personaggi insipidi ed interpretazioni piatte e fuori luogo, si configura come una fallace e banalissima copia carbone di un cinema essenzialmente irriproducibile.
“Tu vuo' fa' l'americano/'Mericano, mericano/Ma si' nato in Italy”. Così cantava Renato Carosone nel 1956; così fa uno dei più grandi brani della musica neomelodica italiana, divenuto, col tempo, un inno senza confini o nazionalità. Trasfigurata, omaggiata, citata, ricordata, reinterpretata, la canzone è, a tutti gli effetti, una satira di quel processo di americanizzazione che coinvolse ed investì l’Italia nel secondo dopoguerra. Whisky e soda, rock n’ roll, baseball e sigarette Camel sono solo alcuni degli idoli attraverso e grazie a cui questo stile di vita borghese e appariscente viene esportato e costruito agli occhi degli italiani e non solo. Ma questa è un’altra storia.
Tuttavia, tenete bene a mente il significato e il senso del brano di Carosone, poiché ci risulterà utile nell’analisi e disamina della storia che invece andremo a trattare: quella de Il talento del calabrone. E, guarda caso, questa stessa (altra) storia prende il via proprio in una radio. Più precisamente, in una radio di Milano.
Stefano, in arte DJ Steph (Lorenzo Richelmy), è uno dei conduttori radiofonici più amati d’Italia. La sua trasmissione Bit Time, una delle più popolari e ascoltate, ha indotto un concorso con, in palio, due biglietti per la famosissima Milano Fashion Week. Per vincere, gli ascoltatori non devono fare altro che chiamare il programma e indovinare la località in cui Stefano ha passato le sue prime vacanze. Il DJ è ormai pronto a spegnere i riflettori (o meglio, il microfono) e concludere la diretta con l’ultimo giro di telefonate, quando ne riceve una che cambierà completamente la propria vita, quella di colui che sta chiamando, quella dei suoi colleghi e quella di tutti gli ascoltatori in linea (il cui numero, in seguito a questo collegamento, continuerà a salire).
Al telefono si fa vivo un individuo acculturato e pieno di risorse di nome Carlo (Sergio Castellitto), il quale rivela di essere a bordo di un’auto in giro per Milano e minaccia di suicidarsi con una bomba pronta ad esplodere non appena e se il collegamento tra lui e la radio venisse interrotto. Quella che si prospettava essere una diretta esemplare, ma anche consueta, si converte così in un gioco telefonico che imporrà una messa in discussione di Stefano - assistito dal tenente colonnello dei Carabinieri Rosa Amedei (Anna Foglietta) - dal punto di vista professionale e umano, al fine di evitare una strage assicurata.
Giacomo Cimini, su soggetto di Lorenzo Collalti, è il regista e marionettista di un thriller a metà tra Io uccido di Giorgio Faletti e Il colpevole - per citare una pellicola recente e riuscita - del danese Gustav Möller che promette, come nella migliore tradizione suspense, grandi emozioni e colpi di scena travolgenti e imprevedibili. Pellicole come Merletto di mezzanotte, Quando chiama uno sconosciuto e In linea con l’assassino - tutte e tre imperniate attorno ad una chiamata telefonica - sono chiari esempi e fonti d’ispirazione di un’opera, quella di Cimini, che tenta di emulare atmosfera, sensazioni, tono e ritmo di un tipo di cinema, quello d’oltreoceano, che, nonostante gli sforzi e alcuni sporadici esempi (vedi il recente L'incredibile storia dell'Isola delle Rose), è e sarà sempre divergente rispetto a quello prodotto su suolo italiano. Ed è proprio questo “voler fare l’americano” a costituire la lapide de Il talento del calabrone.
Seppur editorialmente convincente, questo taglio filmico e commerciale si scontra e stona infatti con un paio di elementi e aspetti produttivi prettamente ed evidentemente italiani. Primo fra tutti, lo stile, l’approccio e l’immedesimazione recitativa di gran parte degli interpreti, i quali, fatta eccezione per un ottimo Sergio Castellitto, risultano spesso poco credibili, piatti, dilettanteschi, quasi fuori luogo nei panni che sono chiamati a vestire. Fra tutti, a soffrire e subire maggiormente questa contraddizione di intenti e attuazione sono sicuramente Anna Foglietta e il suo personaggio, che, afflitto da una scelta costumistica ridicola e approssimativa, è, a tutti gli effetti, il meno riuscito e il meno carismatico del lotto. Ciò nonostante, questa generale mediocrità e superficialità non è da imputare totalmente al lavoro attoriale compiuto, ma presenta radici ben più profonde e gravi.
Tali radici si concretizzano nella sceneggiatura firmata dallo stesso Cimini insieme al summenzionato Collalti che, malgrado un incipit effettivamente intrigante, non riesce a sorreggere ed essere all’altezza di quanto promesso, sprofondando sotto una moltitudine di difetti ed ingenuità in parte comprensibili ma non per questo insignificanti. Il tarlo principale su cui si erige il pericolante grattacielo de Il talento del calabrone, determinandone riuscita, interpretazioni e memorabilità, è senza ombra di dubbio la caratterizzazione dei personaggi che, per rispondere ai fini del thrilling e mantenere alta la tensione, dovrebbe mostrarsi imprevedibile, dinamica e sorprendente. In tal senso, le pedine dello script del duo Cimini-Collalti sono piuttosto il contrario: figure insipide, blande, monotone, soggette ad uno sviluppo e a scelte dettate dallo stereotipo e da un percorso evidente e palpabile fin dall’inizio.
Pertanto, Stefano è il DJ vanitoso, popolare, egoista, un po’ latin lover e così rimarrà per tutta la pellicola. Lo stesso accade al tenente Amedei, una poliziotta figlia spirituale di Raquel Murillo de La casa di carta, devota alla famiglia e dal pugno di ferro - malgrado consigli a Stefano di essere accondiscendente con il suicida - e a Carlo, nient’altro che il classico villain acculturato e scaltro, dai gesti solenni e dalla ottime capacità oratorie e informatiche che, in nome di un torto personale subito anni prima, si erge a paladino di un ideale, di un valore, di una persona.
Ed è proprio nel modo in cui Cimini e Collalti gestiscono il personaggio di Castellitto che risiede una delle ingenuità più deleterie della pellicola. Infatti, a differenza di molti dei titoli sopracitati, Il talento del calabrone decide di svelare fin dai primi minuti l’identità e il volto del villain e, con ciò, suggerire il dolore che lo affligge e che probabilmente lo ha portato ad escogitare questo piano suicida. Se questa scelta ha il pregio di offrire allo spettatore l’interpretazione fragile e sentita di Sergio Castellitto, essa produce purtroppo un duplice effetto che priva l’opera di gran parte delle sue potenzialità.
Infatti, presentare Carlo in modo limpido e chiaro, da un lato porta il pubblico ad empatizzare primariamente con il suo dramma interiore e con la sua crociata (a tal riguardo, il grigiore caratterial-interpretativo di Stefano e del tenente non aiuta di sicuro), dall’altro rende il racconto del film, piuttosto che un intrigante disvelamento e scoperta d’identità, un’intuibile corsa contro il tempo.
Questa sequela di difetti, sommata a dialoghi dalla sintassi e costruzione tipicamente letteraria, a forzature e buchi di trama immancabili e ad un paio di colpi di scena tutt’altro che sorprendenti, ha come risultato un palese depotenziamento di ritmo e tensione e, al contempo, il completo infrangimento di quella bussola emulativo-produttiva puntata verso ovest, verso gli States, verso Los Angeles. Superata la prima mezz’ora, allo spettatore non resterà che sprofondare in un oblio di apatia mista a noncuranza e disinteressamento che lo condurrà ad un finale melenso che, nonostante un twist che potremmo definire sbalorditivo, lascia interdetti ed insoddisfatti.
Spostandoci sul versante tecnico, la situazione non è poi così dissimile. Alla regia del suo secondo lungometraggio, Cimini dà prova di un uso scolastico ma incostante della macchina da presa. Difatti, seppur focalizzata principalmente su una trasposizione funzionale e ottimale di quanto presente nello script, la direzione dà corpo ad un’impalcatura filmica basilare, trattenuta e cauta che, talvolta e in modo fugace, si slancia in panoramiche immotivate e fin troppo sporadiche per essere parte integrante di una cifra stilistica. Come se non bastasse, la visione di Cimini, così come il lavoro di montaggio di Massimo Quaglia, si rivela erroneo ed inconcludente nella ritmare e scandire a dovere la vicenda e i suoi sviluppi, fallendo inoltre nel contrappesare opportunamente una marcata limitatezza e un'uniformità di ambientazioni fin troppo manifesta.
Torniamo quindi al brano di Carosone e a ciò che, dietro un accattivante boogie-woogie, vuole esprimere, ossia il desiderio d’imitazione di un lifestyle che non appartiene e non apparterrà mai agli italiani. Rifatta questa doverosa puntualizzazione e dopo aver analizzato per filo e per segno ogni aspetto dell’opera di Cimini, è quanto mai evidente come il cantato di Carosone si possa declinare perfettamente alla nostra tesi riguardante Il talento del calabrone e i suoi peccati capitali. In questa parabola e similitudine, può avere funzione di modello l’esperienza di Lo chiamavano Jeeg Robot: il regista Gabriele Mainetti e gli sceneggiatori Nicola Guaglianone e Menotti fanno proprio un filone tipicamente hollywoodiano e non si limitano ad una riproduzione made in Italy, bensì lo reinterpretano in chiave autoriale, ma anche italiana e perciò innovativa.
Purtroppo, al contrario del cinecomic in salsa romana, Cimini e Collalti - così come Donato Carrisi prima di loro - si accontentano di fare (male) il verso ad un cinema fin troppo lontano dagli standard produttivi intrinseci e attuali dell’industria del Bel paese. Niente più, niente meno. Come si suol dire, il calabrone perde il talento, ma non il vizio.
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