TITOLO ORIGINALE: La casa de papel
USCITA ITALIA TERZA PARTE: 19 luglio 2019
USCITA ITALIA QUARTA PARTE: 3 aprile 2020
PIATTAFORMA/CANALE: Netflix
GENERE: drammatico, azione, thriller
N. EPISODI: 8 (TERZA PARTE), 8 (QUARTA PARTE)
DURATA MEDIA: 41-57 min
Netflix produce due nuove parti del serial spagnolo più visto della piattaforma, proseguendo le vicende criminali del Professore e della sua squadra di rapinatori provetti o quasi. Lo show creato da Alex Pina, passato ora sotto la totale gestione del colosso streaming statunitense, con il suo acquisto, cresce e viene elevata da un punto di vista tecnico, ma presenta purtroppo molteplici svarioni a livello narrativo e di costruzione dei personaggi. A peggiorare il tutto, un politically correct troppo ostentato e banale, quasi fuori luogo.
Dopo il successo della Zecca, dopo le maschere di Dalì, dopo Bella Ciao, dopo il matriarcato, dopo la morte di Mosca, Oslo e Berlino, il Professore e i suoi complici sono sparpagliati, per coppie, in località sicure e difficilmente rintracciabili del globo. Grazie a questa divisione e dispersione, infatti i membri della banda possono vivere, rigorosamente in incognito, ma con serenità, la propria vita da milionari. C’è chi pensa al proprio futuro, chi alla propria famiglia, ma c’è anche chi si diverte dalla mattina alla sera, conducendo una vita sfrenata e viziosa. Tutto sembra andare a meraviglia, finché Tokyo, personaggio noto per la sua irrequietudine ed incoscienza, fa crollare questa perfetta situazione, questo ideale castello (casa) di carte (a). La ragazza infatti, stancatasi della vita idillica e rilassante che ha con il suo amore Rio in un’isola caraibica, decide di abbandonare il luogo sicuro per spostarsi, da sola, sulla terraferma, lasciando così il compagno in perfetta solitudine ed isolamento. Purtroppo, come ormai tutti sanno, Tokyo e Rio non riescono a stare divisi, senza creare problemi di sorta. Il ragazzo, avendo comprato due telefoni satellitari da un libico al mercato nero di Casablanca durante il viaggio, le propone invero di rimanere lo stesso in contatto e gli dà uno di questi dispositivi con la promessa di accenderlo ogni 3 giorni alle 18. Dopo 72 ore senza freni e piene di divertimento scatenato, Tokyo, rispettando la parola data, accende il telefono. Così facendo, però i due vengono subito geo-localizzati dall’Interpol, che parte alla cattura, dando il via ad una smobilitazione di polizia e forze speciali che porta all’arresto di Rio. La ragazza, sommersa – e direi anche giustamente – dai sensi di colpa, riesce a contattare il Professore, che si trova in Thailandia con Raquel Murillo (Lisbona). Ricevuta la richiesta di soccorso di Tokyo, l’occhialuto inizia così a progettare quello che poi diventerà il colpo alla banca di Spagna per salvare Rio, anche grazie alle notizie apprese dall’ispettrice che conosce le tattiche della polizia. Tramite analessi (flashback) si scopre che, in realtà, il colpo è stato progettato ben 5 anni prima – quindi precedentemente a quello della Zecca – da Berlino e da Martín (Palermo). Certo, ma con remore, sulla riuscita del piano, il Professore riunisce così tutti i membri della banda, avviando una rocambolesca serie di eventi che metteranno ancor più a dura prova la stabilità, l’equilibrio e i nervi del gruppo.
Non approfondisco oltre la questione legata alla trama di queste due stagioni, perché andrei a rovinare una delle parti migliori della serie, ovvero la spiegazione ed esposizione del piano da parte del Professore. Andiamo a parlare piuttosto del netto distacco, da un punto di vista prettamente tecnico e visivo, di questa nuova serie di episodi rispetto a quella della rapina alla Zecca. L’acquisto della serie da parte di Netflix ha portato infatti ad un’evidente separazione dello show nei confronti delle proprie radici ed origini tipicamente televisive e da rete nazionale. Ricordiamo difatti che il serial creato da Alex Pina è andato in onda, per la prima volta, su una delle reti televisive spagnole più importanti, ovvero Antena 3 (una specie di nostro Canale 5 o Italia 1). Con questa acquisizione, quindi La casa di carta si avvicina al livello qualitativo di original Netflix ben più grandi e complessi (produttivamente parlando), arrivando a sfiorare tale prestigio solo in alcuni momenti. Il comparto tecnico, beneficiato da un palese aumento di budget e possibilità rappresentative, raggiunge, con le parti 3 e 4, la sua massima espressione intrattenente, con l’impiego di una spettacolarità e grandiosità riconducibili a quella degli action blockbuster d’oltreoceano, le tipiche americanate. Tra l’altro, proprio questa capacità di mezzi e risorse è la causa centrale e primaria della svolta e piega action definitiva dello show – come mostrato soprattutto dalla parte 4. Si abbandona così il thriller – per certi versi anche interiore, psicologico ed umano – che caratterizzava le prime due stagioni, portando, di conseguenza, ad una quasi totale costruzione della tensione attorno alle soluzioni, sempre più impossibili e pirotecniche, con cui i nostri protagonisti riescono a superare le difficoltà che gli si parano davanti. Da un punto di vista registico, queste nuove puntate si distaccano molto delle prime due parti della serie (pur riprendendone, in maniera ripetitiva, alcune meccaniche come quella del ping-pong temporale), raggiungendo livelli cinematografici con inquadrature tutto sommato correte e rigorose ed un montaggio frenetico che incrementa e potenzia il ritmo della narrazione. Ad inficiare ed oscurare questa crescita e questa maggior consapevolezza tecnica, ci pensa, purtroppo, la sceneggiatura firmata, per quanto riguarda la parte 3, anche dallo stesso Pina.
Come intuibile, leggendo la mia recensione della prime due parti, uno dei più grandi difetti e mancanze della serie è sempre stata l’assenza di un impianto narrativo soddisfacente o comunque di buona fattura. Dal lato del puro intrattenimento, La casa di carta funziona e anche molto bene. Infatti, i due pregi principali dello show sono sempre stati il ritmo – mai lento o dato per scontato – e la corretta individuazione, da parte del creatore, del proprio tipo e fascia di pubblico, il che ha permesso alla serie di concentrarsi su determinati aspetti, riscuotendo così un enorme successo. Un altro aspetto da riconoscere ed analizzare riguardo a La casa di carta è in più lo status che essa si è guadagnata nell’immaginario comune, diventando una vera icona della serialità televisiva moderna e dando vita ad un fenomeno mondiale senza precedenti. Sbaglio di poco se dico che, oggi come oggi, praticamente tutti sanno di cosa parla la serie. La maschera di Dalì inoltre è diventata un simbolo internazionale, così come la canzone Bella Ciao – che continuo a ritenere travisata nel significato originario, ma convertitasi in un vero e proprio emblema rappresentativo del serial. Nonostante questi riconoscimenti, il prodotto creato da Alex Pina ha sempre risentito di una poca originalità nell’incipit – molteplici sono i film che trattano di rapine efferate e complesse, basti vedere la saga degli Ocean’s – di personaggi, narrativamente tutt’altro che brillanti, anzi piuttosto banali ed ingenui, di varie incongruenze e forzature e di numerose banalità. Ma andiamo con ordine. La parte 3 de La casa di carta, seppur estremamente esaltante e tesa nello sviluppo, con alcuni momenti memorabili e costantemente sul filo del rasoio, nasce da un incipit che definire brutto sarebbe un eufemismo. Se si pensa poi che questo inizio, così traumatico e disastroso, è frutto della costruzione indecente e dilettantistica di due personaggi, ovvero quelli di Tokyo e Rio, si va di male in peggio. Ripetendomi nel giudizio sulle prime due parti, continuo a ripetere fermamente che il duo sopracitato è tra le caratterizzazioni peggiori degli ultimi anni in materia di serie TV. Lei, femme-fatale inconcludente, irrazionale e costante elemento di disturbo ed instabilità per la banda e personaggio tutt’altro che riuscito ed efficace nella trasmissione del sottotesto femminista di cui è portabandiera (la sua unica arma è la sessualità e corporeità; di conseguenza, caratteristiche tipiche di un personaggio femminile veramente emancipato, come astuzia, intelligenza e razionalità, sono a dir poco inesistenti). Lui invece è e rimane un “cagnolino” dalla profondità minima, recidiva e dipendente e dall’evoluzione inesistente.
Questo aspetto disastroso della caratterizzazione, purtroppo, viene assunto anche dal resto del parterre dei personaggi, con pochissime eccezioni. Oltre al Professore – l’unico con una progressione plausibile e naturale ed un’interpretazione, quella di Alvaro Morte, che si discosta dai canoni televisivi -, il resto dei membri della banda, incluse le new-entry come Palermo e Bogotà, risentono infatti di un’evoluzione fittizia, apparente ed irreale, presentando costantemente un’ingenuità ed insensatezza nei comportamenti e reazioni, impensabile per dei rapinatori che sono sopravvissuti alla rapina della Zecca. Quest’assenza di sviluppo dei personaggi e della propria consapevolezza appare ancora più inverosimile con il proseguire degli episodi, arrivando lentamente ad una casualità ed impulsività nelle azioni e nelle decisioni e ad una fragilità umana fin troppo enfatizzata ed ostentata, quasi assurda per dei presunti professionisti del furto che, dopo il colpo della Zecca, avrebbero dovuto maturare ed essere meno ingenui rispetto a come si presentavano all’inizio delle scorse due parti. Tutto ciò però non è avvenuto; i personaggi si mostrano al pubblico così come apparivano nelle prime due parti e questo non fa che diminuire notevolmente e progressivamente l’empatia del pubblico nei loro confronti. A questo si somma la quasi totale inutilità di alcuni degli stessi, come per esempio Lisbona, nell’economia del racconto. Lo stesso tipo di discorso può essere applicato alle figure dall’altra parte della barricata, ossia le forze dell’ordine. Tamayo, Antonanzas – anche Sierra per certi versi -, sono ridotti al ruolo di macchiette perdenti, banali, scontate, quasi autoparodiche, facendo risaltare ancora meno il fare per essere dei rapinatori e riducendo contemporaneamente la pericolosità di quello che essi stanno operando contro i criminali. Pur con le sue forzature e scivoloni, la terza parte, uscita l’anno scorso (2019 ndr), si posizionava tuttavia un paio di gradini sotto la prima avventura della banda, chiudendosi con un finale esplosivo che faceva ben sperare per gli otto episodi conclusivi. Purtroppo, le aspettative sono state, in parte, tradite. Infatti, i veri problemi e difetti, riguardo alla narrazione e alla progressione della trama, iniziano a farsi sentire realmente nella seconda metà della stagione – a mio parere, il punto più basso dell’intera serie, a causa forse dell’assenza di Pina alla scrittura -, salvata, in calcio d’angolo, da una conclusione a cliffhanger stupefacente ed inaspettata. In generale, queste due parti soffrono di una piaga comune e persistente: la dilatazione. Volendo arrivare a tutti i costi a 16 puntate in totale, gli autori intasano ogni singolo episodio con momenti e situazioni che fanno da filler (riempitivo), come alcuni flashback inutili e che non portano nulla di nuovo ed eclatante nell’ottica della serie, momenti da letterale soap-opera fin troppo rimarcati e pedanti e sequenze moraliste che lasciano il tempo che trovano.
Questa caratteristica riempitiva porta al secondo grande difetto di queste parti 3 e 4, ovvero ad una progressione fin troppo artificiosa e costruita e ad una disposizione degli eventi e delle avversità estremamente verticale e frammentaria. I problemi e le crisi, per il Professore e la sua banda, non si presentano mai, e dico mai, contemporaneamente e simultaneamente. Non vi è un singolo momento in cui due o più criticità urgenti e destabilizzanti convivono insieme nello stesso episodio, arrivando magari ad intrecciarsi. Sembra quasi che la divisione degli eventi segua questo semplice e manieristico schema: presentazione della complicazione, panico e smarrimento, possibile rottura degli equilibri, salvataggio all’ultimo momento (fin troppo legato alla fortuna dei protagonisti che alle loro abilità vere e proprie) e ripresa del controllo. Questa meccanica è riscontrabile soprattutto nello sviluppo delle vicende della quarta parte, in cui si concentrano tre episodi iniziali (in cui la serie smorza il ritmo e si prende una pausa, forse troppo estesa) sulla vicenda del Professore che deve risolvere ciò che è successo alla sua amata e riprendere il controllo – il tutto allungato e smorzato da una subordinazione parziale, in forma soap-operistica, di ciò che succede all’interno della banca ed una riproposizione costante di flashback inutili e fuori luogo ai fini della trama, oltre che estremamente cringe – per arrivare, una volta trovata la soluzione, alla minaccia seguente, Gandia. Il problema Gandia e la sua manifestazione, legati di per sé ad un’innumerevole quantità di forzature, buchi logici e nella caratterizzazione del personaggio, occupa altri tre episodi, riservando il compito, alle ultime due sensazionali puntate, di tirare le somme della stagione. Per fortuna, questi due episodi finali funzionano, ricordando le atmosfere e la tensione che caratterizzavano le prime due parti della serie e ristabilendo un po’ tutta la vicenda.
Un ultimo aspetto a riguardo dell’estensione dei tempi narrativi è rappresentato dall’eccessivo ed esibito politically correct, che, come solito per le produzioni Netflix, viene inserito a forza all’interno della serie per puri motivi commerciali e di consenso, risultando, al contrario, spesso fuori luogo e praticamente imposto. Cito, in particolare, il tema e il discorso femminista che gli autori portano avanti e del quale alcuni personaggi si fanno portabandiera. Suddetto discorso – che non scatena alcuna riflessione nello spettatore, anzi si presenta estremamente unilaterale ed assolutista – prosegue, nella sua trattazione, per stereotipi, situazioni al limite del banale e fastidioso e luoghi comuni, stonando e risultando talvolta incoerente con successive decisioni narrative (come l’esasperazione fisica e sessuale, più che intellettuale, del personaggio di Tokyo). Con queste due nuove serie di episodi, purtroppo, La casa di carta palesa un’evidente e progressiva discesa narrativa. Un notevole calo di ritmo tra terza e quarta parte (caduta di stile impensabile nelle puntate originarie), personaggi che sembrano comandati da un logica ignota e caratterizzati in modo tutt’altro che ispirato e coerente, una progressione schematica, quasi a step, new-entry che non hanno lo stesso mordente dei personaggi storici ed un numero considerevole di scivoloni e sviste non solo narrative, ma anche a livello di registro (le sequenze da soap-opera) e tematico (la questione del politicamente corretto) rendono queste parti 3 e 4 una continuazione innanzitutto superflua, che convince a metà, elevata sicuramente da un finale che rimarrà nella memoria dei suoi fan e spettatori, a differenza di quasi tutto il resto della stagione. Nonostante ciò, l’elemento che fa risalire leggermente la serie, da un punto di vista qualitativo, è la sua capacità di intrattenere lo spettatore, tenendolo sempre e comunque sul filo del rasoio. In poche parole, quindi, una nuova tranche seriale, quella di Netflix, che, pur perdendosi in qualche aspetto ed elemento cruciale e determinante, intrattiene come vorrebbe e dovrebbe. Ciò non toglie che da lì a crollare, come un vero e proprio castello (casa) di carte (a) ce ne passa veramente poco.