TITOLO ORIGINALE: Lady and the Tramp
USCITA ITALIA: 24 marzo 2020
USCITA USA: 12 novembre 2019
REGIA: Charlie Bean
SCENEGGIATURA: Andrew Bujalski, Kari Granlund
GENERE: commedia, sentimentale, musicale
PIATTAFORMA: Disney+
Disney + inizia la sua cavalcata e diffusione in tutte le case italiane, proponendo, nel vasto catalogo filmico, anche alcuni Originals, disponibili soltanto tramite il pagamento dell’abbonamento. Tra questi, troviamo il remake live action del classico Disney del 1955, film per famiglie ben confezionato, impreziosito da un’immedesimazione riuscita nei pelosi protagonisti ed una colonna sonora suggestiva ed emozionante. Purtroppo, questo non basta a renderlo un film necessario.
Da oggi (24 marzo, ndr), in tutta Italia, è finalmente disponibile l’accesso a Disney +, la nuova piattaforma streaming del marchio di Topolino. Questo mezzo digitale – che, certamente, con il passare del tempo, diventerà sempre più diffuso nelle case degli italiani – offre ed offrirà alla Disney la possibilità di rilasciare ulteriori prodotti senza intasare fin troppo la line-up cinematografica ed oscurare le grandi ed attese uscite, rendendo la nostra vita ancora più disney-centrica. Nonostante ciò, ritengo veramente peculiare e curioso il rilascio, in esclusiva per la piattaforma – anche se posso capirne il motivo -, di un prodotto come il remake del classico Lilli e il vagabondo. La pellicola, per la regia di Charlie Bean, è soltanto l’ultima di una serie di rifacimenti in live-action (foto-realistico e reale, non animato di conseguenza) dei grandi classici della casa d’animazione americana. Dopo il grandissimo successo di Aladdin di Guy Ritchie, de Il re leone di Jon Favreau e di Dumbo di Tim Burton – tre dei migliori incassi dell’anno scorso -, la Disney ha intuito che questa formula filmica piace, e anche tanto, al grande pubblico, continuando perciò a produrre remake come se non ci fosse un domani. Tuttavia, nonostante gli incassi stratosferici e la qualità visiva e tecnica perfetta ed ineccepibile dietro a questi prodotti, lo stesso non si può dire della loro riuscita complessiva e del senso dietro a questi progetti, al di fuori del ritorno economico. Come già affermato nel caso della recensione del film di Favreau, purtroppo, queste riproposizioni appaiono fin troppo costruite, artificiose e prodotte soltanto per sbancare il botteghino. Dietro ad una costosissima CGI, una tecnica digitale impeccabile ed una banale operazione nostalgia, questi film non sembrano presentare nulla, risultano veramente algidi, industriali e profondamente dimenticabili. Ma per fortuna che esistono le eccezioni! Così come La bella e la bestia di Bill Condon, per certi versi il Cenerentola di Kenneth Branagh e Ritorno al Bosco dei 100 acri di Marc Forster, Lilli e il Vagabondo di Charlie Bean fa centro sia per quanto riguarda la qualità filmica complessiva che il cuore produttivo che lo anima, rispettando in pieno le premesse e gli obiettivi preposti. Tuttavia, il prodotto finale sarà ugualmente utile e necessario?
Per chi l’avesse ormai riposta in soffitta, rispolveriamo un po’ la trama di base del film del 1955, che il film di Bean non fa altro che riproporre in chiave live action. Il film segue le orme di Lilli, American cocker spaniel della neo-sposata coppia Gianni Caro e Tesoro (N.B. i cani li conoscono con questi nomi). Lilli gode di una vita gioisa ed è sempre al centro delle attenzioni dei due padroni. La cagnolina fa amicizia anche con un paio di cani del circondario, uno Scottish terrier di nome Whisky e un Chien de Saint Hubert di nome Fido. Intanto, passa il tempo e i due innamorati sono in dolce attesa di un bambino, prestando di conseguenza molte meno attenzioni al loro cane. In questo periodo, Lilli fa la conoscenza di Biagio, un cane meticcio abbastanza maldestro, ma molto arguto, che vive alla giornata, senza preoccuparsi minimamente del fatto di essere senza famiglia, senza padrone, di essere, fondamentalmente, un vagabondo. I due appartengono a due mondi e a due modi di vivere completamente opposti, ma, lo stesso, tra loro sembra esserci un feeling. Egli avverte Lilli, ricordandole che “quando ci si piazza un pupo, il cane deve andarsene“. Inizialmente, il cocker spaniel sembra non darci peso, ma, una volta nato il bimbo, la famiglia inizia a passare sempre meno tempo con lei, non permettendole neanche di vedere e stare con il neonato. Un giorno, i tre devono andare a fare visita alla sorella di Gianni Caro e lasciano Lilli a Sara, zia di Tesoro. Questa, tuttavia, non sembra amare molto i cani e, in seguito ad un bisbiglio tra il cocker spaniel e i due gatti della stessa, quest’ultima porta la cagnolina in un negozio di animali per farle mettere una museruola. Lilli, tuttavia, fugge e si ritrova a vagare per le vie della città. Fortunatamente, viene in suo aiuto il vagabondo Biagio che si proporrà di aiutarla a tornare a casa. I due si imbarcano così in un viaggio, tra mille disavventure, colpi di fortuna, cenette e momenti romantici, mentre, alle loro calcagna, vi è un instancabile acchiappacani che tenterà, a tutti i costi, di mettere Biagio nel canile.
Conosciuto solamente per la regia del lungometraggio sui Lego Ninjago, Charlie Bean approda, con questo remake di Lilli e il Vagabondo, nel mondo del live action e della direzione attoriale. Da un punto di vista registico, Bean dimostra e regala una performance e prova sicuramente soddisfacente e perfettamente nei canoni disneyiani. Essendo egli un mestierante, di certo, la sua regia non punta su picchi estetici o tecnici altissimi o ricercati. La sua è una classica direzione e visione asservita totalmente alla sceneggiatura e allo sviluppo del racconto. Il compito principale della sua macchina da presa è, per l’appunto, quello di intrattenere e rendere il tutto il più fluido e il più scorrevole possibile. Non mancano tuttavia delle costruzioni registiche piacevoli all’occhio e al gusto dello spettatore. Sto parlando, per esempio, di sequenze come quella dei due cani sulla collina che ammirano la cittadina dall’alto o il famosissimo frammento della cena di Lilli e Biagio da Tony’s. Al contrario di ciò che avveniva ne Il re leone, tuttavia, il remake di Lilli e il Vagabondo, da un punto di vista registico, tenta di staccarsi, almeno parzialmente, dal classico d’animazione del 1955. Charlie Bean cerca di rendere il suo film indipendente e slegato, visivamente, dalla concezione e mano registica del trio originale Hamilton Luske, Clyde Geronimi e Wilfred Jackson. Infatti, uno degli aspetti che ho più odiato ne Il re leone (2019) è il fatto che Favreau – regista che, ad ogni modo, sa intrattenere e comporre un film quanto mai soddisfacente – si sia accontentato di una riproposizione palese, che supera la citazione ed entra nella copiatura e rifacimento papale papale, di molte delle sequenze del capolavoro di animazione del ’94. Almeno sotto questo punto di vista, il film di Bean, fotograficamente, registicamente ed esteticamente, trova una sua identità ben precisa, anche in quelle sequenze che ormai sono divenute parte del nostro immaginario collettivo.
I confronti con Il re leone tuttavia non finiscono qui. A differenza della pellicola, del kolossal, di Favreau, potendo disporre di molto meno budget e lavorando con creature molto più trattabili e docili, il film di Charlie Bean mette in scena degli animali veri, in carne ed ossa – i cui nomi compaiono anche nei titoli di coda -, e non costruiti in CGI. Questo svantaggio di partenza si converte però nel grande punto di forza della produzione. La tangibilità e la parvenza live action vera e propria degli animali li rendono empatizzabili e permettono allo spettatore un’immedesimazione completa rispetto alle vicende del film e le disavventure che questi cani devono superare. Mentre il film di Favreau soffriva di una sensazione asettica e distaccata, quasi documentaristica, nei confronti dei personaggi in computer grafica e del racconto che li riguardava, l’opposto si può dire, invece, per quanto riguarda la pellicola di Bean, in cui la costruzione digitale è stata impiegata soltanto per il labiale degli animali. Un altro elemento che sicuramente gioca in favore di Lilli e il Vagabondo è il fatto che qui si canti molto meno di quanto avvenga ne Il re leone, richiedendo, di conseguenza, allo spettatore, un minor utilizzo ed entrata in una sospensione dell’incredulità – promossa ulteriormente dal fatto che questi animali siano fotorealistici e fisicamente credibili e realistici. Un altro termine di paragone possibile è, invece, Il richiamo della foresta, remake moderno con Harrison Ford, per la regia di Chris Sanders, uscito a febbraio (2020, ndr). In quel film – che vede al centro delle proprie vicende il cane Buck – l’animale protagonista, completamente costruito in CGI, viene arricchito da un’espressività facciale direi antropomorfa ed umana, provocando, nello spettatore, uno straniamento ed incredulità costante, con successiva noia e distacco nei confronti del racconto. Qui l’espressività, i sentimenti, le reazioni e la comunicabilità dell’animale non sono dati tanto da un antropomorfismo del suo essere fisico, bensì proprio dalle voci dei doppiatori. Per quanto riguarda la versione inglese originale – che è quella che ho visionato -, posso dire che, da un punto di vista di doppiaggio, si raggiungono livelli veramente molto alti.
Tessa Thompson si rivela essere una bravissima interprete vocale, credibile nei panni di Lilli e profondamente espressiva, dando corpo e vita ad un’interpretazione vivace, gioiosa e coerente con i caratteri del personaggio. Lo stesso si può affermare riguardo alla prova vocale di Justin Theroux. Dal timbro profondo e vissuto, la sua voce conferisce alla figura di Biagio un’importanza scenica tutt’altro che trascurabile, potenziando esponenzialmente quel senso di sopravvivenza e scaltrezza che contraddistinguono il personaggio. Ulteriori lodi vanno anche a tutti gli altri attori ed interpreti che prestano la propria voce agli animali del film. In particolare, sto parlando di Sam Elliott nel ruolo di Fido, di Ashley Jensen in quello di Jackie, di Benedict Wong come Bull e di Janelle Monáe nel corpo di Gilda. Terminati i complimenti e gli aspetti positivi nei confronti del film, arriviamo dunque a trattare la tanto discussa questione dell’utilità e necessità dell’esistenza di un remake live action di Lilli e il Vagabondo. Da un punto di vista narrativo e del racconto, sono stati apportati cambiamenti, tali da definire questo rifacimento un qualcosa di sentito ed imperdibile? Sì e no. La sceneggiatura, scritta a quattro mani da Andrew Bujalski e Kari Granlund, presenta e adatta la vicenda della pellicola, basandosi moltissimo sul classico del 1955. A livello di scrittura, viene apportato qualche cambiamento nei confronti di alcuni risvolti o soluzioni narrative; alcuni fatti si svolgono diversamente e certi aspetti, preponderanti nell’originale, vengono dilatati e sottolineati o ristretti e fatti uscire molto meno. Ma, in fondo, nulla di eclatante. Quello che rimane invariato sono però l’anima e la morale finale della pellicola che, servendosi di cani e animali civilizzati, porta avanti una grande metafora e riflessione sulle diversità sociali, i pregiudizi e la questione del libero arbitrio. Guardando il film si ha come la sensazione che si stia assistendo ad un qualcosa di incastonato e fisso nel tempo; un film che ha mantenuto l’anima e i sentimenti di più di 60 anni fa. Tuttavia, la Disney, come sempre, tenta di modernizzare il tutto, contaminando il prodotto originale con movimenti di pensiero e rivoluzioni sociali odierne. Sto parlando di blackwashing soprattutto, ma anche di emancipazione femminile, incentrati quasi completamente nella figura di Tesoro, che qui viene interpretata dall’attrice afro-americana Kiersey Clemons. Comprendo il femminismo – anche perché non è così centrale ai fini della vicenda e ostentato come in altri film -, ma continuo a ritenere che certi cambiamenti etnici, a quanto pare, così tanto preziosi per la Disney contemporanea, lascino un po’ il tempo che trovano e, sinceramente, non ne capisco così tanto l’utilità, oltre ad una banale affermazione sociale e politica e per motivi puramente monetari e commerciali.
In conclusione, il remake di Lilli e il Vagabondo si presenta al pubblico della piattaforma di Disney + come una pellicola godibile, dalle buone intenzioni e buoni sentimenti; un film per famiglie che intrattiene per il suo racconto lineare e tradizionale, diverte per la comicità sia fisica che verbale degli animali, e fa viaggiare la mente verso un mondo di fantasia, completamente slegato dalla nostra quotidianità, un mondo immaginifico, in cui la malvagità dura e pura non esiste. Forse, qualcuno potrebbe vedere questo film come un qualcosa di fin troppo sdolcinato e “mieloso”, ma è proprio questo l’intento della produzione sotto ogni aspetto. Partendo dalla fotografia di Enrique Chediak – che, per certi versi, ricorda quella de Il ritorno di Mary Poppins; sfumata, fatta di un persistente color pastello e da toni sempre caldi ed accoglienti anche nei momenti più bui -, passando per la colonna sonora di Joseph Trapanese – rispettosa del classico del 1955 e memore di un’altra era di fare animazione, di vivere e di pensare il cinema – e arrivando alle ambientazioni che fanno da sfondo alla vicenda – aspetto più forte e deciso della pellicola -, il remake di Lilli e il Vagabondo è considerabile veramente come un film fuori dal tempo. Se non fosse per qualche aggiunta tematica contemporanea, tipicamente disneyiana e per i mezzi tecnici utilizzati, si potrebbe benissimo pensare che questo film sia stato prodotto nel secolo scorso. Dallo stile dei titoli di testa a quello dei titoli di coda, Lilli e il Vagabondo di Charlie Bean è un omaggio ed una riproposizione della classicità narrativa ed estetica Disney dei tempi che furono. Forse fin troppo, per essere un remake. Nonostante un tentativo di distaccarsi da ciò che era l’originale, da un punto di vista fotografico e registico, il film di Bean narrativamente offre ben poche novità, classificandosi e qualificandosi, perciò, come un remake in live action buono (tra i migliori sicuramente), family-friendly e godibile, ma non come un film assolutamente necessario o quanto meno richiesto.