TITOLO ORIGINALE: Civil War
USCITA ITALIA: 18 aprile 2024
USCITA USA: 12 aprile 2024
REGIA: Alex Garland
SCENEGGIATURA: Alex Garland
CON: Kirsten Dunst, Cailee Spaeny, Wagner Moura, Stephen McKinley Henderson, Jesse Plemons, Nick Offerman
GENERE: azione, drammatico, thriller, guerra
DURATA: 109 min
Alex Garland amplia di ben poco il respiro dei propri discorsi in Civil War, pur raccontando una cosa grande e smisurata come una possibile guerra civile fra gli Stati (non più) uniti d'America. Come nei suoi precedenti film, il fulcro rimangono infatti una manciata di personaggi che partono alla volta di una Washington che sta per cadere e, nel tragitto, si imbattono nel più disparato ricettario di disumanità. Purtroppo però, Civil War è quanto di più generico, prudente e fiacco si potesse trarre da un soggetto tanto promettente. E a chi guarda spetta la responsabilità (di visione) che Garland non ha voluto assumersi.
United States no more. Non sono più Uniti, i noti, "selvaggi e meravigliosi" Stati d’America. Dopo essersi opposti e aver invocato l’illegalità del terzo mandato del presidente (che nel frattempo ha pure sciolto l’FBI), il Texas e la California si sono stretti in un’improbabile alleanza - le Truppe Congiunte Occidentali - e mosso guerra a Washington DC.
In un simile contesto - ridotto ad una tale economia ed essenzialità informativa da risultare straniante, tortuoso - prende il via Civil War, il nuovo film di Alex Garland, già romanziere e sceneggiatore di grande successo (insieme a Danny Boyle), ma diventato fin da Ex Machina, il suo dietro la macchina da presa, un nome di grido ed un regista dal culto istantaneo. (Involontariamente) istantaneo, com’è, tra le altre e tante cose, proprio questo suo ultimo lavoro, nel quale l’autore, per quanto insospettabile possa sembrare, amplia di ben poco l’obiettivo, lo sguardo, il respiro, le intenzioni rispetto a quanto già non avesse fatto nel precedente (e problematico) Men.
Ogni suo film ha il suo fulcro nelle vicende personali di una ristretta compagine di umanità (e non solo), solo proiettate, riferite ad una dimensione, ad un argomento o ad un mondo maiuscoli, collettivi, più grandi e sconfinati. Lo era nel caso del debutto, che indagava il nostro rapporto (anche scopico), sessuato e sessuale, di piacere fatale, con la tecnologia o, per la precisione, col riflesso della nostra disumanità, a cui però veniva concessa la possibilità di vivere; ma anche del sottovalutato Annichilimento e, appunto, di Men, allegoria della violenza maschile e maschilista racchiusa nell’intreccio dall’impianto horrorifico di un donna e uno, tanti, troppi uomini.
E lo è nel caso di Civil War, dove le sorti di un high concept fanta- e geo-politico sono consegnate nelle mani di quattro personaggi, due giornalisti e due reporter di guerra, che, da una New York a secco d’acqua, partono alla volta della capitale. Le truppe secessioniste si stanno radunando alle porte della città per sferrare l’attacco decisivo alla Casa Bianca e giustiziare il presidente. Il viaggio che intraprenderanno non sarà però fatto di battaglie nel senso più classico del termine, ma disseminato di desolazione e distruzione, lacerato dai postumi e dagli strascichi di combattimenti già consumati. Da un caos di micro conflitti e atrocità.
Un tentativo ardito, quello della spedizione patrocinata dalla celebre fotografa Lee Smith, tormentata e trincerata nel dolore di cui è stata testimone negli anni; alla stregua di quello, filmico, dello stesso Alex Garland, il quale non sceglie (solo) la via più immediata, spettacolare (e pubblicizzata!) dell’action e del war movie. Civil War è viceversa un concentrato denso e sfuggente in pieno stile A24 (che produce il suo film più costoso). Un universo fluido, armonioso, compatto e credibile di generi, estetiche, riferimenti, messo in scena con solito rigore compositivo e vividamente fotografato da Rob Hardy, che si trasforma, plasma e ridefinisce di continuo, con nonchalance, rileggendo e reinquadrando il Cuore di tenebra di coppoliana memoria attraverso la struttura, i motivi e la (ahinoi) più contemporanea ottica del film apocalittico (se pre- o post-, sta allo spettatore, al suo punto di vista e alle sue idee politiche stabilirlo).
Ma, nelle afflitte lande americane, c’è spazio pure per lo zombie-movie, filone che Garland ha praticato e, in un certo senso, riformato da sceneggiatore con 28 giorni dopo. E, come già accadeva lì, il solo e unico virus (possibile) è quello della violenza, della ferocia e brutalità di un’umanità puntualmente cieca, sorda, meccanica di fronte alla schiacciante e storica evidenza della propria natura. Allo stesso tempo, la tensione che accompagna il cammino del quartetto verso la pancia del conflitto o, per dirla altrimenti, l’origine del contagio, sa molto di thriller psicologico. In 109 minuti scorrevolissimi, non manca nemmeno il melodramma - utile ma flebile gancio emotivo - nell’attenzione riposta sul legame putativo fra la nostra Lee e Jessie, giovane e talentuosa fotoreporter in cui la prima rivede prevedibilmente sé stessa e cerca, a modo suo ma invano, di salvaguardare.
Di nuovo, non bisogna lasciarsi ingannare dalle proporzioni dell’idea prettamente cinematografica di Garland, che, il conflitto, sceglie di relegarlo ai margini dell’inquadratura, delle proprie immagini, di porlo come un’eco lontana o anticiparlo in un crescendo di soprusi e atti indicibili, al fine di mostrarci il volto più contraddittorio di un’America “a dieci minuti da ora”, sull’orlo del collasso, dai valori incerti, insanabilmente disunita e secolarmente irrisolta… Insomma, di un sogno ancora da farsi (“Building America”, si può leggere sulla facciata di un edificio abbandonato) che ci vuole ben poco perché possa trasformarsi in un incubo ad occhi aperti. Così come lo percepiscono il suo sguardo avulso, da britannico trapiantato, e quello riflesso nelle macchine fotografiche e negli occhi dei suoi personaggi.
È allora anche un testo di sguardo e percezioni, Civil War, su un’immunità impossibile, pure quando il vedere è schermato, filtrato o mediato. Ma anche uno sulla pericolosità a cui ci si può abbandonare nel tentativo di catturare qualcosa di definitivo, di assoluto, di potente. Un'immagine, un simbolo, la Storia. Ne conseguono tutte le crisi esistenziali del caso, magari una disillusione riguardo alla reale efficacia, all’utilità dello spietato e inclemente atto di documentare, del bisogno di registrare. Riflessioni e spunti, questi ultimi, che, malgrado una scrittura dei personaggi che, specie nell’ultima fase, presta il fianco a sviluppi abbastanza discutibili, si consumano a dovere soltanto nella ristrettezza del melodramma. Più di preciso, nel rapporto e nel confronto proverbiali tra le due generazioni di reporter.
Del resto, non fosse per l’imprevista e fortunosa attinenza con l’attuale e caldissimo clima politico statunitense (a pochi mesi delle nuove elezioni presidenziali), le idee e il concetto più generale e ampio su cui si informa il copione di Garland sarebbero quelli di un film già visto tante altre volte. E di un’opera il cui peccato maggiore non sono tanto la frivola retorica, il semplicismo e la facilità di una condanna della guerra, qualsiasi essa sia, e dei suoi effetti spersonalizzanti, efferati, ingiusti; quanto piuttosto un approccio, anche teorico, parimenti futile.
Ci riferiamo, nella fattispecie, all'impiego diffuso di un pensiero che la Lee di una Kirsten Dunst funzionale, per quanto un po’ monocorde, rivolge alla sua protetta, interpretata da Cailee Spaeny nella sua prova più convincente. Parafrasando, “noi (fotoreporter) non chiediamo - dice lei - riportiamo (e registriamo) quel che vediamo per far sì che altri possano porsi delle domande”: una regola, un precetto professionale che diventa, a sua volta, perno e principio di un’intera e scarna filosofia, ma anche e soprattutto un comodo alibi a favore di una visione e uno sguardo che si astengono dal commentare seriamente, dal prendere una posizione precisa in questo conflitto; che fotografano, appunto, propongono la realtà diegetica così come si dà agli occhi. E di un punto di vista - va da sé - guidato forse più dall’irresponsabilità, da ansia e indecisione latenti [delle quali si può trovar prova anche solo nelle dichiarazioni dello stesso Garland), che non da un’urgenza, da una precisa convinzione, o comunque da qualcosa di davvero sentito.
È al pubblico, infine, che spetta l'implicazione, l’incombenza di riflettere, di fare le domande giuste e dargli risposta, anche se è praticamente impossibile non cadere nella banalità. Sarà pure spericolato nella forma, ma, nella sostanza, Civil War è quanto di più generico, prudente e fiacco si potesse trarre da un soggetto tanto promettente. E, un film così, che cosa potrà mai suggerire o dar da riflettere? Come può turbare, quando la realtà, purtroppo, ha già da tempo superato la più raffinata delle finzioni?
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