TITOLO ORIGINALE: The Miracle Club
USCITA ITALIA: 4 gennaio 2024
REGIA: Thaddeus O'Sullivan
SCENEGGIATURA: Jimmy Smallhorne, Timothy Prager, Josh Maurer
CON: Maggie Smith, Laura Linney, Kathy Bates, Stephen Rea
GENERE: commedia, drammatico
DURATA: 91 min
Presentato al Tribeca Film Festival 2023
La due volte premio Oscar Maggie Smith e il premio Oscar Kathy Bates sono le mitiche protagoniste di The Miracle Club di Thaddeus O'Sullivan, un dramedy piccolo, minuscolo, che segue le vicende di un gruppo di donne durante un viaggio di speranza in direzione Lourdes. Malgrado la curiosità e la simpatia del soggetto, all’atto pratico niente più di una manciata di buone interpretazioni riesce a risplendere sul serio. Anzi, tutto è ammantato da un velo di medietà, anonimia ed economia, da una patina fatiscente e televisiva, che soffoca anche il più interessante dei discorsi.
Un film può dirsi bello o, per essere più esatti, guadagnarsi una dignità cinematografica - qualunque cosa significhi - solo per merito del lavoro dei suoi interpreti? È un quesito, questo, che puntualmente riaffiora su questi lidi e al quale, il più delle volte, non si può che rispondere affermativamente, anche se, così facendo, si è costretti a riconoscere uno spreco di grandi professionisti, di volti noti e riconoscibili del grande e del piccolo schermo. O addirittura, come nel caso di The Miracle Club dell’invece poco conosciuto Thaddeus O'Sullivan (regista di gangster movies abbastanza dimenticabili quali Witness to the Mob e Un perfetto criminale, e biopic proverbiali come Into the Storm), di vere e proprie icone.
Protagoniste di questo piccolo, minuscolodramedy - lambito dal mare e dalla foschia dell’Irlanda, ed immerso nelle acque dai tanto decantati poteri miracolosi delle piscine di Lourdes - sono infatti nientemeno che la due volte premio Oscar Maggie Smith, qui impegnata in una prova tenera e raffinatissima, e la mitica Kathy Bates, anch’ella vincitrice di un premio Oscar, la quale sa rendere con il giusto equilibrio di rudezza e fragilità una parte non certo immediata e facilissima.
Inutile dire che la loro firma, la loro presenza, assieme a quella composta, intensa ed elegante della più giovane Laura Linney, sia provatamente efficace ed prodigiosa ai fini della credibilità e della capacità affabulatoria di questa storia molto agrodolce, a dispetto del titolo. Che ha inizio appunto nella Dublino di fine anni ‘60, e segue le vicende di un gruppo di donne, legate l’un l’altra da un passato mortifero e riunite da un presente parimenti luttuoso, che, nel corso di un viaggio parrocchiale carico di speranza in direzione Lourdes, saranno chiamate a riflettere su sé stesse, sulla propria vita e sui propri errori, a confessarsi liberamente (e non per obbligo religioso!), trovando forse un poco di pace e riconciliazione e scoprendo dunque la sostanza, la vera natura, un modo più autentico, sincero e, va da sé, disilluso d’intendere i miracoli e la fede.
Ciò detto, malgrado la curiosità e la simpatia del soggetto di Jimmy Smallhorne - che molto deve al cinema di Stephen Frears -, all’atto pratico e, soprattutto, visto il modo macchinoso in cui esso viene sviluppato dal copione dello stesso Smallhorne, di Timothy Prager e Joshua D. Maurer, nient’altro riesce a risplendere sul serio in The Miracle Club. Anzi, complice una fotografia che sembra ricercare la luce latitante in toni e colori artificiosissimi, tutto è ammantato da un velo di medietà, anonimia ed economia.
In tal senso, pure il più interessante dei discorsi (come una riflessione su fede e speranza ridotti ad oggetti di un consumismo già sfrenato, paradossale, gadgetistico, ridicolo, quasi osceno, o il tentativo sagace e sardonico di critica dei nostri egoismi, sia nella buona, che nella cattiva sorte, o ancora la messa a nudo dell’ipocrisia e della venialità con cui intratteniamo il nostro rapporto con Dio e la spiritualità) e, di conseguenza, il più fresco degli approcci e progressivo degli inviti (concentrato, al contempo, nell’idea di una fuga che si converte in un ribaltamento del rapporto coniugale e di genere, oltre che nella rappresentazione inadeguata e goffa della quota maschile) viene soffocato dalla più fatiscente patina e stucchevole manifattura da sceneggiato televisivo.
O’Sullivan tenta allora, invano, di assicurarsi un’elevazione, un senso, una purificazione, appoggiandosi ed accontentandosi della gratuita dote, dall’apparenza o, rimanendo in tema, dell’apparizione morbida, allietante e, come già scritto, salvifica di coloro di cui può disporre di fronte alla macchina da presa. Eppure, per quanto un cinema di questo tipo, geriatrico ed ottuagenario, parrebbe addirsi a due ultrasettantenni come la Smith e la Bathes, la verve, la giovinezza e la levità espressiva con cui occupano la scena in The Miracle Club sembrerebbero dimostrare il contrario. E andare oltre i limiti di un’opera e di un’impalcatura più acciaccate, irrigidite ed attempate di loro.
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