TITOLO ORIGINALE: Žena Čajkovskogo
USCITA ITALIA: 5 ottobre 2023
REGIA: Kirill Serebrennikov
SCENEGGIATURA: Kirill Serebrennikov
CON: Alëna Michajlova, Odin Bajron, Filipp Avdeev
GENERE: drammatico, sentimentale, storico
DURATA: 143 min
Presentato in concorso al Festival di Cannes 2022
Kirill Serebrennikov racconta la storia del rapporto coniugale tra la giovane Antonina Milijukova e il noto compositore Pëtr Tchaikovsky, e dell’inspiegata ed inspiegabile ossessione della prima per il secondo, incurante della risaputa e malcelata omosessualità di quest’ultimo; per dar vita ad un testo di critica e denuncia della Russia di oggi. Purtroppo, il film si bea ed imbroda pretenziosamente di questa posizione scomoda in cui pone lo spettatore, mai preoccupandosi di ampliare le sue intenzioni e renderle compiute. Elegante ma inconsistente.
Si cercano le parole giuste, all’inizio de La moglie di Tchaikovsky del russo (esiliato ed infamato) Kirill Serebrennikov; la formula meglio capace di definire una relazione che, di complesso ed indefinibile, ha ben poco. È la storia - come già anticipa il titolo - del rapporto coniugale tra la giovane Antonina Miljukova e il noto compositore Pëtr Tchaikovsky, dell’inspiegata ed inspiegabile (quantomeno nel film) ossessione della prima per il secondo, incurante della risaputa e malcelata omosessualità di quest’ultimo. Un matrimonio che diventa una trappola mortale; evidentemente tossico, del tutto fondato su un principio di transazione, su un accordo fra le parti, sulla convenienza economica e sociale (com’era poi d’uso all’epoca), nonché su una vera e propria mania patologica.
Questo, unitamente alla dichiarazione d’intenti e alla verità dei suoi protagonisti, Kirill Serebrennikov lo mette bene in chiaro nei primi due segmenti della pellicola, sorretto da un’intuizione onirica e surreale utile ad informarci che quello a cui stiamo per assistere altro non è che una farsa, una “tragicommedia” il cui unico esito possibile risiede nella morte di uno dei suoi due attori. Peccato che, nei successivi 130 minuti, La moglie di Tchaikovsky si scosti e sviluppi ben poco da quell’incipit, anzi rimanga immobile sulle posizioni di quello sfogo post-mortem.
Immobile com’è, secondo Serebrennikov, la Russia di oggi, socialmente e culturalmente non tanto dissimile da quella di Tchaikovsky. Una Russia dove l’omosessualità è ritenuta ancora qualcosa di inaccettabile, triviale, controverso. In cui la figura femminile è ancora oppressa da un sistema patriarcale, da un universo molto virile e virilizzato, “che presume che le donne non possano avere diritti, che il loro posto sia in cucina, che si debbano occupare dei figli e niente altro”.
Quello stesso paese verso cui il cineasta traccia qualche esile parallelismo polemico ed accenno critico, tentando di “decostruire”, demitizzare, umanizzare il compositore, il genio, il “Sole”, già considerato alla stregua di un tesoro nazionale alla fine del XIX secolo, riscoprendo paradossalmente la figura di Antonina e rileggendo l’intera vicenda dal suo punto di vista, dalla sua fissazione per il marito, dalla sua coscienza talora irragionevole ed incomprensibile. Serebrennikov dà così forma ad un’opera senz’altro attuale per ciò che dice ed imputa al suo paese, del suo passato, presente e (purtroppo) futuro, ma che, allo stesso tempo, compie una mossa ardita, coraggiosa, totalmente antitetica alle tendenze e ai motivi della contemporaneità, proprio nel personaggio che le dà il titolo.
Una donna volontariamente assoggettata al maschile, ad un uomo che, stando alla verità filmica, non presenta neanche poi tanti motivi per essere desiderato e desiderabili, al contrario risulta spesso ripugnante, oltre che meschino ed inetto. Una donna fallocratica, che va fiera di essere conosciuta prima come “moglie di Tchaikovsky” che con il suo vero nome; disposta a degradarsi finanche ad annullarsi, ammalarsi, sprofondare nella pazzia per rimanere coerente, ligia ed orgogliosa di quella che, in fin dei conti, è soltanto una mera illusione, una costruzione della sua mente o forse la conseguenza di una qualche forma di nevrosi, che il film tuttavia non si assume il compito di suggerire o supporre.
Purtroppo però, Serebrennikov si bea ed imbroda pretenziosamente di questa posizione scomoda in cui pone lo spettatore, ornando e facendo respirare il proprio patinato e polito (malgrado il putridume che popola le strade di Mosca e San Pietroburgo) affresco storico con immancabili long-take e piani sequenza magniloquenti che rasentano lo status di performance febbricitanti, mai preoccupandosi ciononostante di ampliare questo scampolo di discorso e portarlo ad un livello superiore, a maggiore sostanziosità e compiutezza, se non addirittura ad una sintesi magari ostica, anticonformista, parimenti urtante.
Tutt’altro: a lungo andare, dopo una folta schiera di simbolismi abbastanza didascalici (tra cui una collana di corallo), a La moglie di Tchaikovsky resta giusto la consistenza di un fotoromanzo morboso, flemmatico e decadente, che gira su sé stesso, ripetendo ad oltranza i soliti scambi, le solite situazioni e la solita burletta delle convenzioni. Un testo, insomma, senza arte né parte, senza neppure quel senso di claustrofobia - dato sia dalla società e dai suoi schemi morali, sia da una lenta e progressiva discesa negli inferi e nel labirinto della psiche - che vorrebbe instillare in chi guarda e portare fino al punto di trasgredire ed eludere le maglie del proprio racconto e gettarsi quasi nel territorio del musical. Senza poi quel grande carattere che, dalle premesse, pareva dilagare.
Anzi, già prima che scocchi la prima ora, le ricadute e le denunce al presente della Russia arrivano ad affievolirsi, a perdere di mordente e di intensità, diventando alfine quasi un diversivo, un elemento di distrazione, il fastidioso ronzio di una mosca in sequenze che rimangono impermeabili, autoindulgenti ed autosufficienti. Tant'è che, giunti ai titoli di coda, quello di Serebrennikov appare un film che chiunque avrebbe potuto scrivere e girare.
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