TITOLO ORIGINALE: The Hunger Games: The Ballad of Songbirds and Snakes
USCITA ITALIA: 15 novembre 2023
USCITA USA: 17 novembre 2023
REGIA: Francis Lawrence
SCENEGGIATURA: Michael Lesslie, Michael Arndt
CON: Tom Blyth, Rachel Zegler, Peter Dinklage, Hunter Schafer, Josh Andrés Rivera, Jason Schwartzman, Viola Davis
GENERE: avventura, azione, fantascienza, thriller, musicale
DURATA: 157 min
A 8 anni dall'ultimo capitolo, la saga di Hunger Games rifà la sua comparsa sul grande schermo con un prequel spin-off incentrato su un giovane Coriolanus Snow e sempre tratto da un romanzo di Suzanne Collins. La ballata dell'usignolo e del serpente è un film convincente per due terzi, più per il contesto socio-politico, di intrigo che descrive in maniera elegante, e per la chiave di rilettura degli stessi Giochi, che non per l'effettivo passaggio al lato oscuro del futuro presidente di Panem. Costumi meravigliosi ed un cast molto convincente.
Cosa può avere di nuovo da dire la saga di Hunger Games nel 2023? Più di dieci anni dopo il capitolo originale, otto dopo l’ultimo film, cos’altro o cosa di diverso si può raccontare e mostrare del mondo di Panem, dei suoi abitanti e dei suoi continui tumulti politici e libertari?
La risposta a queste domande, la si può scovare in Hunger Games - La ballata dell’usignolo e del serpente, appunto operazione di rivitalizzazione di una saga che, appunto, pareva esaurita con il dittico de Il canto della rivolta, ed insieme prequel spin-off (da romanzo omonimo, sempre scritto da Suzanne Collins) ambientato 64 anni prima della quadrilogia originale ed incentrato su un giovane Coriolanus Snow e sul suo proverbiale passaggio al lato oscuro.
Un romanzo di formazione al contrario, uno che intende ripercorrere i passi che hanno portato un giovane rampollo di Capitol City a diventare uno spietato ed infido despota che allungherà la sua ombra su tutta Panem, e, manco a dirlo, acerrimo nemico di Katniss e soci. Ma anche una storia ed una pellicola che svelano qualcosa in più sulla stessa Mietitura, sulle origini degli Hunger Games e, soprattutto, sui modi e le ragioni per cui sono poi passati dall’essere impietosa dimostrazione di forza e punizione esemplare per la rivolta dei dodici (o tredici) distretti contro il regime, a cinico spettacolo di morte in diretta, sui piccoli e grandi schermi di tutto il paese.
È forse questa una delle vie possibili, senza dubbio la più facile ed immediata, per portare una ventata d’aria fresca ad un universo narrativo che - bisogna dirlo - non ha mai brillato per grande originalità. Eppure, un altro interrogativo sorge spontaneo: è davvero così? Hunger Games - La ballata dell’usignolo e del serpente riesce in questa missione? È quello di cui aveva davvero bisogno il franchise, se non altro al cinema?
Ebbene, la risposta a questa o, meglio, a queste domande, invece, varia a seconda di dove si è arrivati nella visione di questo prequel spin-off. Infatti, laddove - almeno per chi scrive - sarebbe un deciso sì per quel che riguarda i primi due atti/capitoli del racconto, il no subentra ben presto al sopraggiungere del terzo e si protrae fin proprio ai titoli di coda.
Del resto, ciò che più affascina ed attira dell’ipotetica ballata del male diretta da Francis Lawrence (habitué della saga, di cui ha firmato tutti gli episodi, ad eccezione del primo) e co-adattata da Michael Lesslie e Michael Arndt, sono il contesto sociale e politico in cui hanno sede praticamente due terzi del film, ma anche l’iniziale scrittura dei personaggi, e la maniera in cui gli stessi Hunger Games e il loro senso vengono riarrangiati ai fini del soggetto.
Veniamo catapultati in una Capitol City della cui futura ed incontrastata egemonia si può intravedere giusto qualche germoglio, di cui si può solo percepire (e ricordare, da spettatori) l’aurea, traboccante ed oscena opulenza che la caratterizzerà in seguito. La metropoli che ci viene presentata porta ancora i segni dell’allora recente guerra contro i distretti; è una città dove non vige un pensiero ed un’ideologia dominanti, in cui vi è ancora, seppur contenuta e sedata, la possibilità di esprimere pareri discordanti e rimostranze al governo. Oggetto di queste discussioni sono proprio gli stessi Giochi, il cui futuro pare sul proverbiale filo di un rasoio. C’è chi ne professa ad oltranza l’utilità, chi non si esprime in modo chiaro, e chi invece li ritiene un’esagerazione barbara ed indegna. Assistiamo dunque ad una Capitol e ad una dittatura nel loro farsi ne La ballata dell’usignolo e del serpente, perfettamente in linea e in concerto - va da sé - con il making-of di colui che sarà la figura determinante in e di questo loro sviluppo oscuro, autocratico e liberticida.
Sembra banale a sentirsi, ma Coriolanus Snow e, più precisamente, la condizione sociale e di vita in cui lo ritroviamo, sono il punto gravitazionale dei primi momenti del film. Pur essendo infatti il rampollo in vista di una famiglia, gli Snow, che significa moltissimo per la storia di Capitol, una vera e propria casata; il suo è giusto un titolo. Per il resto, come qualcuno gli farà notare, egli non è poi tanto diverso da uno qualsiasi dei tributi dei dodici distretti. Poveri, indebitati, affamati, decadenti, costretti in seguito a vendere casa e ad andare in affitto: ai pochi rimasti della famiglia Snow rimane giusto la pantomima, la recita di un passato, di un’eredità e di un’immagine che, nei fatti, non rispecchiano e rispettano più.
È una maschera quella che Coriolanus, detto Corio, mette su ogni volta che esce fuori di casa per recarsi in accademia. Quella che mette su con i compagni di corso - decisamente più abbienti e fortunati di lui -, insieme ad una camicia di fortuna. È una maschera a cui è costretto poiché è anche la sua unica possibilità per diplomarsi, forse vincere un ambito premio (in denaro) per il merito dimostrato e così permettersi di andare all’università e - chissà - ritorna ad essere qualcuno di importante, qualcuno che conta in quella cerchia di persone che sembra più tollerarlo che accettarlo.
Fin qui non ci sarebbe nulla per cui stupirsi o meravigliarsi, anzi quel che abbiamo appena scritto è uno dei più tipici cliché di ogni coming-of-age che si rispetti. Non fosse che, per ottenere quei soldi, non gli basterà il rendimento scolastico. Bensì dovrà dimostrare di essere il primo e miglior mentore della 10ª edizione degli Hunger Games, i quali vengono perciò ribaltati, non tanto narrativamente, quanto in termini di prospettiva e senso del discorso. Questi ultimi rispondono, al contempo, agli stessi e ad altri tipi di fame, ai medesimi e ad altri bisogni (anche fisiologici, vista la miseria in cui versa il nostro Snow); rimangono il gioco di astuzia, ma anche, al solito, di efferatezza e crudeltà per garantirsi, sì, un futuro, ma uno tanto glorioso e radioso quanto era il passato.
Nasce così il romanzo di formazione, il coming-of-age al contrario di cui sopra. Vale a dire l’intuizione più interessante di Hunger Games - La ballata dell’usignolo e del serpente, ultimo arrivato di una saga che, come prima, non si sarà distinta mai per peculiarità, ma certo lo ha fatto per le sue intuizioni (in primis, la scelta della stessa Jennifer Lawrence) e la sua intensità.
Ciò detto, se appunto le trovate non mancano a questo prequel spin-off - fra cui citiamo inoltre la commistione col thriller e l’intrigo politico à la Game of Thrones, l’elemento musical(e) affidato al personaggio di Lucy Gray Baird, la tributa gitana del distretto 12 su cui Snow dovrà “vegliare”, così come l’inserimento di questa idea di accademia, con tanto di tirocinio, che non può non far pensare ad Harry Potter -, quel che progressivamente finisce per latitare è la gravitas (per non parlare dei preziosissimi sottotesti sempre cari alla saga).
Allora, proprio grazie a quelle commistioni di tono e genere che danno un tocco inedito alla formula, portandola ben oltre il solo racconto di formazione, ma anche al generale spaesamento dato dalla riscoperta dei Giochi in una veste più scarna, sobria, meno spettacolare, tecnologica e addirittura efficace, ma non per questo innocua o moderata, nonché ad un ensemble di volti attoriali (su cui spiccano una Viola Davis nel suo miglior ruolo da anni e un Jason Schwartzman che non fa rimpiangere il gigionissimo Stanley Tucci) che riconferma il fiuto del franchise in fatto di casting; Francis Lawrence & co. dotano i primi due atti del giusto passo, delle giuste soluzioni, dell’equilibrio necessario a farne una buona ora e trenta di intrattenimento. Ma, come si suol dire, il gioco è bello finché dura poco. E così accade nel caso di Hunger Games - La ballata dell’usignolo e del serpente, in quanto (quasi) tutto ciò che, di buono, c'è in questi 90 minuti decade e scompare nei restanti 70.
Ossia in un terzo atto che l’istanza narrante rende alla stregua di un’appendice, in fin dei conti esageratamente dilatata, che teoricamente dovrebbe però fungere da cuore intimo, più profondo ed importante del film e della decostruzione maligna del personaggio di Snow. Insomma, il momento in cui, per citare la sceneggiatura, Coriolanus muore e (ri)nasce il futuro presidente di Panem, mellifluo, ambiguo, inquietante, calcolatore, senza scrupoli.
Purtroppo, quello a cui arrivano Lawrence, Lesslie e Arndt è un Capitol Side Story (i momenti musicali non mancano): un melò, incentrato sull’amore impossibile tra la già citata Lucy Gray, Corio e le sue ambizioni di grandezza e rivalsa sociale, che un Tom Blyth sottoforma di Ryan Gosling ed una Rachel Zegler ruvida e provocante non sanno interpretare a pieno e rendere nella sua complessità umana e morale. Cosa che va infine a discapito di una resa corretta, logica e credibile della trasformazione del protagonista nel personaggio che tutti conosciamo e, di conseguenza, del senso dell’intero progetto.
Hunger Games - La ballata dell’usignolo e del serpente si rivela perciò un prodotto alla stregua di un Crudelia; un film memorabile più per il valore produttivo (in particolar modo, per i costumi) che per altro, in cui si tenta altresì di rimediare ai limiti e all’imprecisione della sceneggiatura con un sterile e scontato cambio di look, illudendosi che “l’abito non fa il monaco, ma quasi”.
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