TITOLO ORIGINALE: Āyehā-ye zamini
USCITA ITALIA: 5 ottobre 2023
REGIA: Ali Asgari, Alireza Khatami
SCENEGGIATURA: Ali Asgari, Alireza Khatami
CON: Majid Salehi, Gohar Kheirandish, Farzin Mohades, Sadaf Asgari, Hossein Soleimani
GENERE: drammatico
DURATA: 77 min
Presentato nella sezione Un Certain Regard del 76º Festival di Cannes
Alla loro prima collaborazione, i registi iraniani Ali Asgari e Alireza Khatami scrivono e dirigono nove episodi di vita reale a Teheran per sottoporre al giudizio di chi guarda, e svestire fino alla loro truce e vera natura un sistema che controlla, sanziona, regola, ogni aspetto dell’esistenza dei cittadini, e i suoi rappresentanti. Per farci percepire un sentire, un’impressione, una forma di consapevolezza, più che un discorso, un concetto od una morale compiuta.
Inizia con l’immagine in campo lunghissimo di una città (e con i suoi rumori tipici), Kafka a Teheran dei registi iraniani Ali Asgari e Alireza Khatami, qui alla loro prima collaborazione. Questa inquadratura serve ovviamente a definire, come già ci viene anticipato dal titolo e come ci verrà poco dopo chiarito da un cartello, quale sia precisamente il luogo in cui si andranno ad ambientare le vicende narrate. Ma serve anche e soprattutto a stabilire il contesto generale che la pellicola andrà poi a sviscerare, entrando nel particolare della vita di questa città, facendoci conoscere da vicino alcuni dei suoi abitanti, isolando (nel rumore assordante e scomposto di cui sopra) voci, esperienze, pensieri, e lasciando penetrare lo spettatore nei suoi angoli forse banali e quotidiani, forse più inconfessabili e reconditi.
Diremmo intimi, ma la parola non sarebbe propriamente corretta, perché, alla stregua di quel che verrà suggerito ad uno dei protagonisti del film, in Iran nulla è veramente intimo, privato, neanche lo spazio di casa propria. Tutto è aperto e disposto alla vista di un occhio severo, reazionario, ineludibile, esasperato ed esasperante, e quindi al giudizio, al biasimo, alla condanna religiosa e morale, di un sistema che controlla, sanziona, regola ogni aspetto dell’esistenza, senza risparmiare niente e nessuno.
Va da sé che, in un ambiente simile, la libertà può essere alla portata o di chi è abbastanza temerario da sfidare e resistere apertamente, radicalmente, violentemente a questo stesso sistema (accettandone poi le conseguenze), oppure di chi è stoico a tal punto da assecondarne le assurdità, decidere di affrontarlo ed opporvisi sul piano del dialogo e del confronto, sperticandosi dunque in sfuggenti ed indefinibili dedali dialettici da cui è quasi impossibile uscire indenni, e cercare, così facendo, di riappropriarsi anche solo di un briciolo di libertà in più, di un permesso, una concessione, un favore, una grazia, un’eccezione.
L’agile, essenziale ed intelligentissimo lungometraggio di Asgari e Khatami si muove in quest’ultimo senso, inanellando nove episodi di vita che, quale più quale meno, potrebbero apparire piccoli, ordinari, comuni, ma che, passati attraverso le maglie di un tessuto socio-politico come quello iraniano, diventano il terreno di piccole, battaglie quotidiane combattute con parimenti piccoli, grandi mezzi come può essere appunto la parola. Un colloquio di lavoro, la compravendita di un abito da cerimonia, il rinnovo della patente, il tingersi i capelli e frequentare un ragazzo: situazioni consuete, normalissime che assumono tuttavia contorni sempre più paradossali, improbabili, assurdi, stranianti, agghiaccianti.
E sono proprio tale assurdità, angoscia ed alienazione di kafkiana memoria (da qui, il titolo italiano poco fedele a quello originale, Terrestrial Verses, che fa invece riferimento e omaggio ad un componimento della poetessa e regista iraniana Forough Farrokhzad, iconoclasta, femminista, contestatissima e maledetta in patria), ciò su cui si interrogano Alireza Khatami e Ali Asgari, che in un episodio ci mette pure la faccia e, senza dubbio, l’esperienza.
Nel fare questo, però, essi non forniscono certo risposte o soluzioni, ma si concentrano più che altro sulle maniere in cui l’oltranzismo religioso, la fede cieca nell’unica possibile interpretazione delle Scritture, la teocrazia si possono tradurre in concreto ed arrivare ad affliggere ogni minimo strato della vita delle persone, affidando all’istantaneità formale, alla brevità vignettistica e all’autarchia narrativa degli episodi (che potremmo definire anche miniature o cartoline), ad una scrittura obbligatoriamente naturale e realistica, e alla trasparente intensità di un manipolo di interpreti meravigliosi, il compito di lasciar percepire ed infondere un sentire, un’impressione, una forma di consapevolezza, più che un discorso, un concetto od una morale compiuta.
Anche la (saggia) scelta di inquadrature fisse che permettano di vedere solo ed esclusivamente la vittima di questo caotico inferno mascherato da ordine e regole e giustificato in qualcosa di altissimo che diventa quanto di più profano, volgare, vile; è di per sé indicativa del carattere processuale e delle intenzioni interpellanti di Kafka a Teheran, che, quell’interrogatorio, quell’interpellazione, ben presto li altera e rovescia, in un contrappasso ideale, proprio servendosi delle potenzialità delle specificità del linguaggio e dell’immagine (specie del rapporto tra campo e fuori campo). La fissità dell’inquadratura infatti non fa altro che aumentare la tensione nei confronti di ciò che ne esula, che ne è al di fuori, il quale diventa il vero soggetto del processo, per citare ancora Kafka, condotto dalla pellicola e dai suoi autori.
Sono pertanto gli officianti, i funzionari, gli apostoli, i tasselli fondamentali e i rappresentanti del potere ed esso stesso con loro, ad essere chiamati alla sbarra, a venire svestiti fino alla loro truce e vera natura e sottoposti al giudizio di chi guarda. A venir letti e compresi direttamente nell’amaro e limpido riflesso della sofferenza, del tormento, dell’orrore di cui si macchiano e di fronte al quale - come sottolinea un finale simbolico forse un po' pleonastico - tutti abbiamo una responsabilità.
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