TITOLO ORIGINALE: Vasco Rossi: Il Supervissuto
USCITA ITALIA: 27 settembre 2023
PIATTAFORMA/CANALE: Netflix
REGIA: Pepsi Romanoff
GENERE: documentario, biografico, musicale
N. EPISODI: 5
DURATA MEDIA: 40-55 min
Pepsy Romanoff, uno dei principali e più recenti autori dell'immagine divistica e dell'icona di Vasco Rossi, dirige una docu-serie in cinque parti per Netflix in cui ripercorre la vita e l'avventura musicale di un "supervissuto". Un lavoro di infotainment nostalgico e celebrativo non sempre chiarissimo e con qualche indubbia incrinatura concettuale, ma che lascia con una domanda importantissima e la sensazione che il mistero dietro la figura del rocker di Zocca non si possa, né sarà mai totalmente svelato.
Che Vasco Rossi: Il Supervissuto - la docu-serie in cinque puntate che racconta la vita e l’avventura musicale (come lui stesso adora definirla) di una delle icone della musica italiana, di un grandissimo sperimentatore e pioniere nel suo campo, di una "vera rockstar" - si riveli essere e sia, in fin dei conti, un prodotto dagli evidenti fini agiografici non è certo un problema. Basterebbe soltanto sapere chi c’è dietro; che, ad esempio, in cabina di regia c’è quel Pepsy Romanoff, il quale è da anni uno dei maggiori responsabili, o addirittura il principale autore - insieme all’art director e grafico bolognese Arturo Bertusi (qui presente fra le fila degli intervistati) - dell’immagine divistica e cross-mediatica del rocker, dalla pubblicità ai videoclip, ma anche banalmente nella produzione video da maxi-schermo per i concerti, fino ad arrivare a mezzi più tradizionali, come appunto televisione e cinema.
Vasco Rossi: Il Supervissuto è infatti soltanto l’ultimo contenuto della Vasco factory ad approdare nei lidi del tutto accessori ed esterni a quelli comunemente associati alla musica. Un prodotto che funge idealmente da colonna portante e definitiva per la recente e forse ultima incarnazione del Blasco, espansa e completata dai precedenti e vari film concerto rilasciati sottoforma di evento nei cinema, come Live Kom 015, Vasco Modena Park, o quello dell’ultimo tour ripreso al Circo Massimo di Roma.
Anche se, quel che proprio questo documentario ci restituisce e, in un certo senso, (ri)conferma è proprio un’immagine larger-than-life del rocker originario di Zocca. L’idea di un’icona che è autrice di sé stessa. Che si autoscrive e sovrascrive costantemente la propria storia. Che decide da sé la maniera, il modo, l’intensità, il colore e l’atteggiamento con cui porsi sotto i riflettori. Una bestia rara; una figura, di conseguenza, mutevole, spontaneamente camaleontica, sfuggente ed incontenibile di natura, mai perfettamente ed interamente decifrabile, libera (libera), impossibile da sintetizzare e rinchiudere in uno schema definito e preciso - qualità, queste, che, come si ricorda qui, fluiscono e si irradiano inevitabilmente anche nelle sue composizioni musicali.
Ad ingabbiarlo, non ci riescono neanche il contenitore e la formula serial-documentaria di Netflix, con cui Romanoff & co. (e, per procura, lo stesso Vasco) flirtano, ma che reinterpretano a loro piacere e secondo attente esigenze. Sì, c’è la messa in mostra metatestuale del mezzo, del dispositivo, degli strumenti, ci sono gli out-takes in cui qualcuno (in particolare il nostro, ma anche la moglie Laura Schmidt) interpella direttamente chi sta dietro la camera, in modo più o meno coloriti. Al contempo però, tutti i cliffhanger di fine episodio arrivano in maniera imprevedibile, vengono scardinati e depauperati del loro effetto e della loro funzionalità primaria, e, soprattutto si percepisce proprio un calore diverso nella messa in scena, nella direzione, nell’approccio all’intervista e nel rapporto con l’intervistato. E il Blasco, va da sé, ci mette del suo.
Come scrivevamo, il problema de Il Supervissuto non è tanto il suo essere agiografico. Anzi, una quota di omaggio, celebrazione ed incensamento del titolare e soggetto della narrazione è d'uopo, è sempre e comunque prevista e intrinseca alla maggior parte dei documentari biografici, specie a quelli musicali. E pure se così non fosse, sarebbero sufficienti la premessa, di fatto una dichiarazione (“sono uscito da ogni paradiso ed ogni inferno in tempo per salire su un palco”) che accompagna i minuti iniziali del primissimo episodio, per fugare ogni dubbio in merito agli intenti del progetto, oltre che al senso del suo titolo e del suo pleonastico ed iperbolico sottotitolo (Voglio una vita come la mia).
Semmai, a smorzare, se non proprio a togliere voce, respiro e potenzialità alla docu-serie di Romanoff sono il modo confusionario, distratto, svagato con cui (specie nei segmenti dedicati agli esordi) si ricostruisce temporalmente e tematicamente il percorso di Vasco in un’Italia di cui, per qualche decennio, è stato insieme portavoce e controcanto, profeta e sobillatore, e nel mondo della musica; la convenienza e la goffaggine con cui - diversamente dall’onestà umana ed intellettuale che egli esprime nei vari flussi di coscienza e ricordi - si sceglie precisamente e volontariamente di soprassedere, sospendere e sviare gli itinerari più spinosi, problematici e (con tutta probabilità) anacronistici, di non scendere troppo nei dettagli di alcuni momenti della sua biografia. E ancora, la sensazione palpabile e troppo palese di un prodotto iper-controllato, che non ammette alcun tipo di deviazione od improvviso cambio di piano, registro, rotta.
Allora, l’elemento che dà carattere, personalità ed indubbio appeal commerciale a Il Supervissuto si scopre essere anche il suo più grande intralcio verso qualcosa di più interessante e pregevole rispetto a quel che è (e che, a ragione o torto, si accontenta dapprincipio di essere): la presenza ubiqua, persistente ed unilaterale di Vasco, anche quando non è materialmente in scena. Il fatto che si tratti di un racconto in prima persona singolare, ad una voce, pure quando a parlare sono più e più coscienze, punti di vista, persone. Ma anche il fatto, non meno importante, che tutto ciò che viene ammesso di negativo e contraddittorio nel quadro della narrazione appare sempre in funzione di un risvolto patetico, pietistico e, ancora una volta, eccezionale e fenomenale.
A soffrire di questa natura ingombrante è paradossalmente la musica; sono le canzoni, che, oltre ad essere tagliate e sacrificate in sede di montaggio e sound editing (specie per quel che riguarda i mitici assoli di chitarra di Maurizio Solieri e Stef Burns), rivestono un peso risibile negli equilibri e nell’economia della narrazione.
Difatti, malgrado si possa riconoscere che quarto e quinto episodio inanellano qualche bel momento in cui armonie, melodie, ritmi diventano finalmente protagonisti assoluti, è anche vero che, nella gran parte dei casi, quel che riguarda le composizioni si limita a mera aneddotica, a “rivelare” chi, cosa o, più specificatamente, quale frangente o situazione della sua vita abbia ispirato il Blasco a scrivere quelle parole e a farne poi una canzone. A tal proposito, tra i pochi sul tema (perché non intervistare altri membri, presenti e passati, delle band che lo hanno accompagnato in studio di registrazione e sul palco? e perché non chiamare pure qualche collega?), gli interventi più interessanti risultano quelli di Gaetano Curreri, leader e principale compositore degli Stadio, tra i primi e più stretti collaboratori del rocker.
Non bastasse, praticamente lo stesso discorso - aneddotica compresa - si può fare anche per ciò che concerne la descrizione e il tentativo di ricomposizione di un mosaico già in partenza consapevolmente inottenibile. In tal senso, le migliori definizioni di quel che, con un po’ di modestia, è e sarà Vasco sono quelle che Il Supervissuto e i suoi volti, il suo protagonista e i suoi co-protagonisti (e complici) non forniscono, non trovano. Perché c’è molto di più dietro la figura, la persona, l’icona di questo grande artista. Molto di più rispetto alla pletora di episodi, materiali, testimonianze - che dì per sé aggiungono veramente poco e che risultano interessanti il giusto - su cui fonda il lavoro e la formula nostalgica di infotainment di Romanoff, la quale infine vira, seppur per un breve segmento, sulla reality TV.
C’è di più, ce n’è molto di più, ma quanto? È questa la cosa più importante, la domanda che rimane finita la visione dei cinque capitoli della docu-serie, e anche il motivo per cui la si può definire, tutto sommato, compiuta. La risposta, come ovvio e giusto che sia, solo una persona la sa, e si riserva sinceramente il diritto di esserne padrone e di raccontarcelo “la prossima volta, magari la prossima settimana”. D'altronde, come si suol dire, un mago non rivela mai i suoi trucchi.
Allo stesso tempo, sceglie però di proporcene un assaggio. Di concederci un dettaglio, subito sommerso ed omologato a tantissimi altri fatti e discorsi, capace ciononostante di svelare qualcosa di nuovo, davvero inedito e significativo sull’uomo e sul suo rapporto con la propria immagine, la propria icona, il proprio - da lui stesso modestamente irriconosciuto - talento e genio artistico. Il cangiante riflesso di sé diventa allora profonda e forse eterna riflessione su di sé. L’uomo costruisce la propria mitologia. Riconosce la leggenda nel suo farsi. Si vede leggenda.
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