TITOLO ORIGINALE: Una sterminata domenica
USCITA ITALIA: 14 settembre 2023
REGIA: Alain Parroni
SCENEGGIATURA: Alain Parroni, Giulio Pennacchi, Beatrice Puccilli
CON: Enrico Bassetti, Zackari Delmas, Federica Valentini, Lars Rudolph
GENERE: drammatico
DURATA: 110 min
Premio speciale della giuria Orizzonti e Premio FIPRESCI all'80ª edizione del Festival del cinema di Venezia
Con Una sterminata domenica, Alain Parroni fa il suo debutto alla regia di un lungometraggio, raccontando la generazione (Z) di cui fa parte. "Una questione di linguaggio", un film che frammenta, scansiona, compone, dilata ed insieme restringe la propria o, meglio, le proprie storie(s) secondo le modalità di storytelling e i ritmi di visualizzazione del linguaggio social-mediatico. Uno che aggiunge un tassello di tensione temporale alla rappresentazione che il recente cinema italiano fa e ha fatto della giovinezza.
Partendo da Gomorra fino ad arrivare a Margini di Niccolò Falsetti o al più recente Enea di Pietro Castellitto, il cinema italiano ha sempre raccontato l’essere giovani, le nuove generazioni, nel rapporto con un immaginario ben preciso - sia esso quello del gangster per Marco e Ciro del capolavoro di Matteo Garrone, per Vittorio e Cesare in Non essere cattivo, e per Manolo e Mirko nell’epigono, sempre garroniano, La terra dell’abbastanza dei fratelli D’Innocenzo, o quello della rockstar nel ruggito provinciale del già citato film di Falsetti -, così come nel rapporto con i padri, con quelli che Castellitto Jr. definisce i “primi giovani stronzi della storia”, con chi fondamentalmente gli ha costruito, concesso e provocato quella vita, il più delle volte deprimente, soffocante, disorientante, mortifera.
Enfant prodige o, come qualcuno ha già iniziato a definirlo, enfant terrible di un cinema che - proprio dal mondo, dalla visione, dall’approccio e dal nesso logico, storico, poetico, tematico che lega indissolubilmente Garrone e i D’Innocenzo - sta facendosi largo, sta fuoriuscendo e facendosi immagine, Alain Parroni aggiunge un piccolo, grande tassello, una declinazione molto interessante, una dimensione ed un’angolazione nuove, fresche, originali, alla rappresentazione delle giovani generazioni [che rischia tuttavia di diventare un template stanco a cui sottoporsi per fare il “grande salto”], in Una sterminata domenica, suo debutto alla regia di un lungometraggio.
Difatti, secondo Parroni - che firma la sceneggiatura del film insieme a Giulio Pennacchi e Beatrice Puccilli - il vivere quotidiano dei sedicenni, diciottenni d’oggi cede, dipende, si regola e risponde all’inquietudine del tempo, dell’ineluttabilità che porta con sé, e degli effetti che ha su tutto ciò che li circonda, che possono vedere, sfiorare, amare, affrontare, e viceversa. Questo porta quelli che potremmo definire quasi “ragazzi di tempo” a percepire, sentire lo scorrere della proverbiale sabbia, ma in una clessidra che ne contiene troppo poca, in maniera estenuata ed estenuante, discontinua e frammentaria, smodata, turbata, nervosa e nevrotica, ma anche, spesso, ambigua e contraddittoria.
Orfani se non nei fatti, nella verità della rappresentazione, caotici e smarriti fin da quel che indossano: Alex, Kevin e Brenda, i tre protagonisti di Una sterminata domenica, tre ragazzi che vivono nella campagna del litorale romano, amici inseparabili, complici, forse amanti; trascorrono le loro giornate in questo modo, tra le perlustrazioni, le esplorazioni quasi piratesche nella giungla urbana della capitale, e i momenti di noia, di nausea di sartriana memoria, di coesistenza silenziosa ed asociale, di momentaneo rifugio e permanenza fugace in un’ingenuità illusoria (che si tinge anche d’imperitura stregoneria), in una fanciullezza e in infantilismi a cui la vita e il tempo, appunto, li sottraggono ogni giorno di più (“ho solo sedici anni” urlerà qualcuno in una delle ultime sequenze). Immersi o ai piedi di monumenti che non fanno altro che attestare la caducità e la temporaneità del loro presente (Eterna infatti è forse solo la Città), o di rovine, come il set disallestito ed abbandonato di Ben-Hur che è un po’ il loro campo-base, il loro piccolo angolo di nulla. Impegnati in una corsa che, già dai primi minuti, Parroni ci rivela essere nientemeno che un loop convulso e vorticoso, un giro in giostra che dà solo l’idea, l’apparenza, l’euforia di un’elevazione, di un’evoluzione. In una cruda e profonda lotta per la sopravvivenza per rimanere “giovani e belli” e non diventare “vecchi rincoglioniti” al pari di molte delle persone che guardano con noncuranza, distacco e protervia nelle loro incursioni, per fare qualcosa di importante, per lasciare il segno del proprio passaggio, per appropriarsi, anche solo momentaneamente, del presente che, per fortuna o per fato, si sono ritrovati a vivere. O con i mezzi di sempre, in maniera naturale, come sono (una nuova) vita e morte. O con i mezzi di oggi, i supporti, la tecnologia.
È infatti da questa urgenza di registrare e(rgo) rendere eterni, letteralmente di immortalare, i momenti della propria vita, ché ha origine la disinvoltura nell’atto fotografico e l’utilizzo naturale di tutto ciò che è dispositivo, propria tanto dei nostri tre protagonisti, quanto ovviamente della generazione di cui si fanno latori - di cui fa parte anche lo stesso Parroni. La quale e i quali, tuttavia, sono avvezzi, come sopra, anche ad uno spreco di minuti e ore, ad una dispersione idealmente incompatibile con quelle che sono le loro norme di vita, la loro “filosofia”.
Ciò detto, quel che rende davvero affascinante questa articolata analisi quasi sociologica (senza per questo voler essere né socio-realista, né tantomeno meramente informativa) è il modo in cui Parroni & co. scelgono di raccontarla.
Ad impressionare, sono dunque l’idea registica, la precisione nel dirigere gli attori (che sono Enrico Bassetti, Zackari Delmas, Federica Valentini, tutti e tre credibilissimi) e costruirne le interpretazioni, il potere suggestivo che infonde nelle immagini, la coerenza interna, nonché il controllo, la perizia e l’agilità nell’uso e nell’alternanza di strumenti, soluzioni, tecniche, linguaggi con cui il giovane cineasta dipinge questo trittico di ritratti, ridefinendo ancora una volta i territori del romanzo di formazione. Convincono inoltre il gusto e lo stile che, seppur mutuati da tantissimo cinema diverso, eppure complementare - in primis, proprio quello dei già menzionati D’Innocenzo, ma anche di nomi come Wim Wenders (che, forse rivedendo qualcosa del sé giovane e dell’energia delle sue prime opere, ha deciso di co-produrre il film), Gregg Araki (di cui il giovane regista sembra omaggiare, neanche troppo sottilmente, Doom Generation), Gus Van Sant, e Harmony Korine, per non parlare dell’apporto evidente di Bertolucci nel modo in cui racconta la sensualità tattile dei corpi, e del primo, imprescindibile Truffaut per la vitalità e il dinamismo viscerale con cui sono condotti l’immersione filmica e il pedinamento dei personaggi e dei loro turbamenti e moti - denota comunque una presenza già ben definita e di fatto autoriale dietro la macchina da presa.
Del resto, “la mia generazione è una questione di linguaggio” e raccontarla deve perciò essere “un atto tenero e prepotente”, afferma lo stesso Parroni. Ecco allora cos’è Una sterminata domenica: un film che, dall’impaginazione dei titoli di testa ai segmenti finali (un blackout intermittente di luci, colori, cacofonie, che alterna psichedelia, found footage, video arte, surrealismo e astrattismo) incorpora la spaesante ed incontenibile globalizzazione e diffusione di stimoli, impulsi, linguaggi, modelli (con un occhio di riguardo per l’Estremo Oriente) che ci inondano quotidianamente. Uno che frammenta, scansiona, compone, dilata ed insieme restringe la propria o, meglio, le proprie storie(s) secondo le modalità di storytelling e i ritmi di visualizzazione del linguaggio social-mediatico, cercando pure di ricrearne le reazioni chimico-dopaminiche.
Uno che cade, sì, preda di alcuni degli errori connaturati ad ogni esordio, lasciandosi andare a qualche momento più retorico ed enfatico, ad elucubrazioni troppo declamatorie, a qualche eccesso di ambizione e fervore dimostrativo, e ad una certa prolissità narrativa, specie superato il confine - più che ottimale - dei 90 minuti. Ma che, questi rischi, se li prende e, questi errori, li asseconda forse soltanto per concedere ai propri personaggi l’illusione e l'ebbrezza di un tempo finalmente difforme, scansabile, eludibile, dissacrabile, afferrabile, loro. Prima dell’inevitabile ripiegare e ripiegarsi verso la fine e l'inizio di tutto.
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