TITOLO ORIGINALE: Le Bleu du caftan
USCITA ITALIA: 21 settembre 2023
REGIA: Maryam Touzani
SCENEGGIATURA: Maryam Touzani, Nabil Ayouch
CON: Saleh Bakri, Lubna Azabal, Ayoub Missioui
GENERE: drammatico, sentimentale
DURATA: 122 min
Premio FIPRESCI nella sezione Un certain regard della 75ª edizione del Festival di Cannes
Al suo secondo lungometraggio, la marocchina Maryam Touzani dirige un dramma elegante, malinconico, armonioso, tutt'altro che ineccepibile, sui tessuti segreti della nostra vita, su nature represse, sussurrate, inconfessate, latenti, costrette, per caso, destino, forze a loro esterne, ad andare incontro ad un disvelamento, ad un genuino rifluire, ad una messa a nudo.
Il caftano blu, voce del verbo osservare. È quello che preferisce e sa fare meglio il secondo lungometraggio della regista marocchina Maryam Touzani. Lambire con uno sguardo attento, adottare un approccio quasi sensuale nei confronti del profilmico, quasi sfiorare con la macchina da presa la pelle dei personaggi, sentirne, percepirne la corporeità, nel tentativo di scavare a fondo nel loro animo, nella loro personalità, nelle loro azioni, nei loro sguardi, e scoprire, leggere, afferrare quel che celano profondamente, interiormente, attraverso e al di là della trama e dell’intreccio di fili della propria vita.
Gli stessi fili, quelle trame e quegli intrecci che Halim maneggia quotidianamente, con cura, precisione, metodo e amore. Lui è forse uno degli ultimissimi maestri sarti rimasti in circolazione, co-proprietario, insieme alla moglie Mina, di uno storico negozio di caftani (gli eleganti indumenti femminili della tradizione marocchina) nella medina dell’antica città di Salé. Un giorno però la vita della coppia viene percorsa da un tremito quasi impercettibile, ma di cui entrambi riconoscono i segni. L’arrivo di un giovane apprendista di bell’aspetto, di nome Yousef, risveglia infatti l’omosessualità, da tempo sopita e ben celata (poiché, va da sé, socialmente inammissibile), dell’artigiano, dando il via ad un crescendo di tensione emotiva, contatti e scambi, e ad una riscoperta di sé che assumerà tuttavia un senso, un valore ed un’intensità ben diversi quando la malattia della donna - affetta da un cancro al seno che ella faceva in modo di non esporre più di tanto - si aggraverà irreversibilmente.
Come avrete intuito, è un film di nature represse, sussurrate, inconfessate, latenti, Il caftano blu. Nature e storie che ritrovano e sono costrette - per caso, destino, forze a loro esterne - ad andare incontro ad un disvelamento, ad un genuino rifluire, ad una messa a nudo. Quello scritto dalla stessa Maryam Touzani e da Nabil Ayouch è però anche il racconto di due percorsi individuali, fatti di silenzi, dettagli, particolari, gesti, rituali, sguardi; riservati, misurati, trattenuti, dal ritmo compassato e meticoloso, al pari di quello che governa e contraddistingue il lavoro anacronisticamente affascinante di Halim - in particolare, la lavorazione del suo capo più bello: un caftano blu, che diventa perciò riflesso e trasfigurazione del lento, graduale, prudente, frugale viaggio intimo che marito e moglie sono chiamati ad intraprendere.
Un mestiere ed un’arte, quelli del sarto, che quasi nessuno (a parte Youssef) riesce ad apprezzare, comprendere, sentire davvero. Che tutti cercano di inibire, reprimere, soffocare al punto che non si riuscirà più a distinguerne la particolarità, la firma, l’anima, l’umanità. È l’azione corrosiva di un presente e di un mondo in cui Il caftano blu si immerge; che Touzani ammette soltanto quando strettamente necessario e che, per il resto del tempo, ci fa intuire molto bene. Un presente ed un mondo modernizzati ed insieme bloccati, immobili, resi stantii dai loro ossimori, dalle loro contraddizioni e ipocrisie, dal rifiuto categorico di nuove correnti, di brezze e respiri a cui non si è mai voluto aprire la finestra e il cuore.
Ecco allora che la pellicola diventa pure l’osservazione di una nazione, il Marocco, e dei suoi non detti attraverso quelli - l’osservazione e i non detti - di una pratica che, di conseguenza, viene dotata di grande modernità, sublimata, considerata tramite una lente diversa. L’attualità di un tessuto (per l’appunto) socio-culturale viene allora misurata e studiata a partire anche solo dal modo in cui un abito viene commissionato ed indossato.
Trattasi di un’indubbia prova di sofisticatezza, gusto ed eleganza da parte di Touzani, inclusa in un’opera che inizialmente si dimostra suggestiva nel colmare ed addurre ad immagini, inquadrature, composizioni, significati, sintomi, processi mentali; ma che, purtroppo, man mano che la vicenda si dipana di fronte ai nostri occhi, sembra perdere questa sua qualità fulgida ed invidiabile - esercitata per di più con mirabile delicatezza -, rimanendo incastrata in ridondanze e semplicismi, e facendosi bastare il pedinamento placido, minimalista e diretto dei personaggi fino al raggiungimento del nuovo, importante punto di svolta delle loro esistenze.
Restano invariate, per fortuna, le meravigliose interpretazioni del trio composto da un sottile e malinconico Saleh Bakri, una struggente e solida Lubna Azabal e da un incantevole Ayoub Missioui, capaci di infondere quel battito, quell’emozione, quella commozione nel racconto e nella sua messa in scena, e che si estendono ben oltre i titoli di coda. Fatti per resistere insomma, proprio come un caftano cucito a regola d’arte.
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