TITOLO ORIGINALE: Umami
USCITA ITALIA: 31 agosto 2023
REGIA: Slony Sow
SCENEGGIATURA: Slony Sow
CON: Gérard Depardieu, Kyozo Nagatsuka, Pierre Richard, Rod Paradot, Sandrine Bonnaire
GENERE: drammatico, commedia, avventura
DURATA: 105 min
Gérard Depardieu è lo scorbutico, arcigno, infelice e stellat(issim)o chef Gabriel Carvin, protagonista di una recherche dagli echi proustiani dell'unico sapore che lo abbia disorientato, stupito, ammaliato, sconfitto, ne Il sapore della felicità di Slony Sow, non un piatto perfettamente riuscito, stupefacente, sensazionale, singolare o che dir si voglia. Ma un film, gradevole e confortante, che riesce nel compito, tutt’altro che comune, di raccontare, mostrare, di dare forma filmica alla joie de vivre.
Quando la cucina incontra il cinema e il suo immaginario non è mai per un mero e puro interesse descrittivo. Il cibo e la sua preparazione metodica, meticolosa e collettiva sono sempre un veicolo per parlare di qualcos’altro, di temi universali, di sensazioni e vibrazioni condivise che trovano proprio nell’esperienza culinaria ed alimentare la più esemplare delle espressioni.
Non fa eccezione in questo Il sapore della felicità, secondo lungometraggio del francese Slony Sow, che mette in scena la ricerca di un sapore rivoluzionario, sconvolgente, unico, come allegoria di una ricerca più intima o, meglio, del ritrovamento di un ingrediente da tempo svanito dalla lista delle cose importanti ed essenziali della propria esistenza. Protagonista di questa vera e propria recherche dagli echi inconfondibilmente proustiani, lo scorbutico, arcigno, infelice e stellat(issim)o chef Gabriel Carvin, in contrasto continuo ed impietoso col figlio maggiore e allievo Jean che sottovaluta e punisce severamente per la (da lui supposta) totale mancanza di talento e tecnica, cosa che, sempre secondo lui, potrebbe mettere a repentaglio il futuro della sua rinomata attività. Una convinzione, questa, che sarà chiamato a riconsiderare dopo aver sfiorato la morte ed avere di seguito deciso di partire per il Giappone, con la speranza di ritrovare l’unico gusto che sia mai stato in grado di disorientarlo e stupirlo, e con esso il cuoco che, proprio grazie a quel gusto (e ad una scodella di noodles), riuscì tempo addietro a batterlo in una competizione culinaria.
È un film dallo sviluppo proverbiale, programmatico, pacato, quasi preconfezionato, Il sapore della felicità. Una ricetta seguita alla lettera senza grande improvvisazione, né alcun tipo di folgorazione imprevista, ché trova nel punto di incontro tra il melodramma esistenziale e familiare e il crogiolo di mondi e culture apparentemente distanti ed antitetici (eppure destinati a diventare un tutt’uno) la sapidità del proprio racconto e il grado di ebollizione della propria drammaturgia e dei suoi slanci emotigeni.
Dal canto suo, Slony Sow non fa nulla per dare concretezza, sostanziosità e giustizia a quella che, fin dai titoli, definisce come una sua “specialità”; a dotare, per l’appunto, il proprio lavoro registico di un che di effettivamente speciale. Al contrario, egli flirta fin troppo con un’estetica televisiva, molto grossolana ed insipida (lo dimostra, in primis, la fotografia di Denis Louis), rendendo estremamente leziosi e stucchevoli i momenti di screzi, scambi e dinamiche familiari, e perseguendo numerose e diversificate linee narrative e sottotrame che non apportano granché al mix e finiscono per risultare ridondanti. Per sua e nostra fortuna, ci sono tutte le (più convincenti) sequenze ambientate nella terra del Sol Levante, la cui atmosfera, filosofia di vita e stile narrativo e narratologico, uniti alla buffa inadeguatezza del protagonista, arrivano a contaminare ed addurre al menù un sentimento sincero ed una sensibilità palpabile, scavalcando il documentarismo degli strani e preziosi incontri che il nostro chef fa nel nome della sua ricerca del segreto dell’umami (è questo il nome della particolare sensazione gustativa che si affianca ai tradizionali quattro sapori fondamentali - dolce, salato, amaro e aspro -, indotta dal cosiddetto glutammato monosodico), e trovando un esito idealmente catartico e patetico.
Uno, che ci dice qualcosa di una banalità disarmante - ossia che il sapore della nostra felicità spesso è davanti ai nostri occhi, nell’ardente desiderio e nella sensazione di stupore a cui dobbiamo ambire, nei piccoli piaceri, nelle cose quotidiane che talvolta diamo per scontate, ma che sono in grado di riconciliarci con la vita - per giunta senza lesinare in didascalismi, moralismi e sentenziosità, ma che ciononostante, in un modo o in un altro, arriva, si rende percepibile ai sensi dello spettatore. Forse per come Sow legge, contempla, inquadra l’importante fisicità e l’imponente fragilità di un Gérard Depardieu in un ruolo (di pensionamento avanzato) cucitogli addosso su misura, soggetto a qualche curioso inside joke, per l’effetto delle incantevoli musiche di Frederic Holyszewski, o magari ancora per quella sincerità e naturale senso bonario che colgono e pervadono la seconda metà della pellicola.
Non è insomma un piatto perfettamente riuscito, Il sapore della felicità. Non è stupefacente, sensazionale, singolare o che dir si voglia, malgrado qualche guizzo (come il discorso sulla figura dell’influencer, una Anton Ego ultima maniera) ce l’abbia e lo dimostri pure. Bensì soltanto(?) un film, gradevole e confortante, che riesce nel compito, tutt’altro che comune, di raccontare, mostrare, di dare forma filmica alla joie de vivre, il tocco segreto di ogni preparazione che valga la pena assaggiare, scoprire, amare, ricordare.
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