TITOLO ORIGINALE: Zielona granica
USCITA ITALIA: 2023
REGIA: Agnieszka Holland
SCENEGGIATURA: Maciej Pisuk, Gabriela Łazarkiewicz-Sieczko, Agnieszka Holland
CON: Jalal Altawil, Maja Ostaszewska, Tomasz Włosok, Behi Djanati Atai, Mohamad Al Rashi, Dalia Naous
GENERE: drammatico, guerra
DURATA: 152 min
In concorso alla 80ª edizione della Mostra del Cinema di Venezia
La regista polacca Agnieszka Holland dirige un film acre e toccante, fotografato interamente in bianco e nero, sulla crisi di immigrazione che ha coinvolto Bielorussia e Polonia durata dal 2015 fino a tempi più recenti. Praticamente un instant movie che, malgrado qualche eccesso di simbolismo e didascalismo, sa coniugare il cinema politico militante capace di scuotere le coscienze (in questo caso, occidentali) e la migliore tradizione drammatica.
Si può “morire mille volte” e in molti modi guardando The Green Border (Zielona granica) di Agnieszka Holland. Morire da europei, da abitanti del mondo o, più semplicemente, da esseri umani.
È quello, d’altronde, il principale intento del dramma della regista polacca di Poeti dall’inferno, che qui affronta una storia che, lungo la sua carriera, ha già raccontato più volte: una storia di ingiustizia, di inquietante degradazione umana, con l’intollerabile assenza o connivenza di istituzioni ed organi sovrastatali, ma anche di coraggiosi e forti gesti di disobbedienza.
Praticamente un instant movie. Al centro di tutto vi sono infatti le vicende di immigrazione, di speranze, sogni, dolore e morte succedetesi dalla cosiddetta crisi del 2015, nelle insidiose foreste paludose che costituiscono il cosiddetto “confine verde” tra Bielorussia e Polonia. Qui, migliaia di rifugiati, per lo più in fuga dai conflitti, dalle discriminazioni, dai soprusi, dai difficili contesti socio-politici di Medio Oriente e Africa si sono ritrovati intrappolati, sono diventati strumenti di pressione in una crisi geopolitica cinicamente architettata dal dittatore bielorusso Aljaksandr Lukašėnko nel tentativo di provocare l’Unione Europea.
Ciò che più convince del film e della sceneggiatura - scritta a sei mani da Maciej Pisuk, Gabriela Łazarkiewicz-Sieczko e dalla regista - sono la volontà e la scelta precipua di non accontentarsi del punto di vista immediato, più “semplice” da descrivere e in cui immedesimarsi. La fede irremovibile nella necessità e nell’importanza della complessità ai fini del racconto di una verità quanto più equilibrata, composta, quasi documentaristica. O ancora, per favorire l’ascolto di voci autentiche, quanto mai vitali “in un mondo in cui [...] la rivoluzione dei social media e l’intelligenza artificiale lo hanno ostacolato”, come ha affermato la stessa Holland, la quale decide pertanto di scomporre la drammatizzazione di questa vicenda in un dialogo fluido e composito, in una ricostruzione corale, volta per giunta a svelare onestamente e coraggiosamente le ipocrisie tanto dell’Europa quanto del mondo occidentale.
Oltre ad una famiglia che dalla Siria passa attraverso la Bielorussia per raggiungere un parente in Svezia ma finirà sballottata ripetutamente da un lato all’altro del confine, sono pedine di questa guerra sommersa Julia, un’attivista di recente formazione che ha rinunciato ad una confortevole esistenza, e Jan, una giovane guardia di frontiera che verrà profondamente segnata dalle brutalità a cui è indottrinato e costretto.
Seppur emotivamente duro e faticoso da seguire, The Green Border è appunto - come anticipato sopra, del resto - un film già visto altrove, talora pure meglio, che trova nell’urgenza, nell’importanza e nel pregio della propria missione di documento e testimonianza anche il suo limite maggiore in termini di memorabilità. E, dal canto suo, Agnieszka Holland si limita al minimo indispensabile per aiutare la longevità delle proprie immagini - fotografate con un bianco e nero che ne amplifica la ruvidezza e la crudezza, ma permette anche al racconto di lasciar fuoriuscire più intensamente i propri chiaroscuri, gli scarti etico-morali -, anzi, la sua rappresentazione abbonda abbastanza in un didascalismo goffo, e in allegorie e in un simbolismo di per sé inconcludenti.
Ciò nondimeno, è proprio questa sua profonda onestà intellettuale, unita all’inesorabilità con la quale smaschera contraddizioni e finzioni di un fuoricampo sempre palpabile, e sgretola le convinzioni e le apparentemente solide basi dello spirito occidentale; al lavoro che porta avanti, seppur marginalmente, sulla gravità, l’ontologia, la debole veridicità, la drammaturgia e la facile perversione delle immagini, o ai molti modi in cui integra, negli equilibri della propria narrazione, la presenza dei media tradizionali nel quadro o il problema dell’incomunicabilità; a fare di The Green Border un mirabile esempio di equilibrio tra il più duro cinema politico militante e la migliore tradizione drammatica.
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