TITOLO ORIGINALE: Io capitano
USCITA ITALIA: 7 settembre 2023
REGIA: Matteo Garrone
SCENEGGIATURA: Matteo Garrone, Massimo Gaudioso, Massimo Ceccherini, Andrea Tagliaferri
CON: Seydou Sarr, Moustapha Fall, Issaka Sawagodo, Hichem Yacoubi, Doodou Sagna, Khady Sy, Bamar Kane, Cheick Oumar Diaw
GENERE: drammatico, avventura
DURATA: 121 min
In concorso alla 80ª edizione della Mostra del Cinema di Venezia
A quattro anni da Pinocchio, Matteo Garrone torna dietro la macchina da presa con Io capitano, una pellicola che racconta una storia già lambita dallo stesso regista, solo da un punto di vista totalmente nuovo: quello di due giovani ragazzi senegalesi che dovranno affrontare le insidie del deserto africano e del Mediterraneo per arrivare in Europa. Una pellicola ambiziosa che sa come pareggiare e mettere in equilibrio l’urgenza fragorosamente umana del proprio messaggio, con una sua verità filmica ed un suo approccio ben definito, impreziosita da interpretazioni formidabili ed un finale da grande maestro.
Matteo Garrone ha (quasi) sempre raccontato storie di anime pure, innocenti, ingenue che, per pura curiosità di vita o per destino, incrociano, si imbattono in un mondo a loro antitetico: duro, rigido, inesorabile, amaro, dolente, che li forgia e costringe a crescere in fretta. Troppo in fretta. Con cui devono necessariamente venire a patti, nel bene e nel male. Il suo cinema è dotato di una tensione innegabile verso il fiabesco, il fantastico e il suo secolare viaggio (cosiddetto dell’eroe), che egli poi tinge di verismo, e stempera con rigore ed un segno realistico deciso ed intenso.
Succedeva in Gomorra con Marco e Ciro, ma anche col piccolo Totò, tutti ammaliati candidamente dall’immagine e dall’iconografia cinematografica della figura del gangster. Ma anche in Reality, o in Dogman col piccolo e mite Marcello, costretto al gesto definitivo dopo una serie di intollerabili angherie. Per non parlare di Pinocchio, pellicola nella quale la poetica garroniana ritrova in un certo senso il bandolo della matassa, e si confronta con la propria avventura fondativa o quasi.
Lo stesso torna e succede pure nella sua ultima fatica, Io capitano. Una fatica in tutto e per tutto, trattandosi per ammissione dello stesso regista, della “più grossa sfida che io abbia mai affrontato e un’esperienza che porterò con me tutta la vita”. Una pellicola che è quasi la chiusura ideale di una trilogia, le cui radici si estendono fino al 1996, anno d’esordio del cineasta con Terra di mezzo, un film episodico che raccontava già con la capacità e la forza di un autore consapevole tre storie di emarginazione di alcuni immigrati in Italia; poi proseguita due anni dopo con Ospiti.
Eppure, Io capitano è pure qualcos’altro, un controcampo, e qualcosa di ancora più robusto, potente e sofisticato, sia dal punto di vista artistico, sia (ovviamente) in termini produttivi. Da lì, da quei due film, Garrone è partito per raccontare infatti una vicenda da una prospettiva ed un’ocularizzazione pudicamente affrontate dal cinema, e poco viste sul grande e piccolo schermo. Attraverso gli occhi, il corpo, la voce, la lingua e l’unicità di due sedicenni senegalesi, Seydou e Moussa, i quali decidono di intraprendere un viaggio o, meglio, una vera e propria odissea (come la definisce lo stesso Garrone) in un mare di perfidia, barbarità, dolore e morte. Un insidioso mare desertico, tra approfittatori e tentatori luciferini, lunghissime ed atroci marce sotto il sole cocente, posti di blocco, e le abiette torture e la crudeltà disumane delle prigioni libiche (“istituzionali” e mafiose che siano). Ma anche un mare vero e proprio, sterminato, forse ancor più insidioso, nel quale riecheggia il caos di vite aggrappate strenuamente ad illusioni e speranze, e di una morte che è sempre, inaccettabilmente e rumorosamente, vicina.
È un’opera dalle grandi ambizioni, Io capitano. Su questo non ci sono dubbi. Ma è anche una pellicola che sa come pareggiare e mettere in equilibrio l’urgenza fragorosamente umana del proprio messaggio e il suo essere anche(!) un veicolo, con una sua precisa e preziosa idea di cinema, una sua verità filmica, un approccio ben definito alla materia. Che, come ha raccontato il regista, è stato lo stesso adottato con Marco Macor e Ciro Petrone (i due attori non professionisti protagonisti del già citato Gomorra). Ovvero girando il tutto in sequenza e svelando la storia agli interpreti giorno dopo giorno. “Loro non conoscevano la sceneggiatura per intero - ha dichiarato Garrone -; volevo che avessero sempre negli occhi il desiderio di Europa, ma senza sapere se ce l’avrebbero fatta o meno”.
Loro sono i prodigiosi Seydou Sarr e Moustapha Fall, qui al loro esordio assoluto di fronte alla macchina da presa. Entrambi sono reali migranti con la passione per la recitazione, scovati fortuitamente in Marocco dalla produzione. Pertanto, il viaggio che la pellicola racconta lo hanno vissuto sulla propria pelle ed è proprio grazie a queste loro esperienze in prima persona che sono capaci di donare alle loro prove una verità, un tocco, una sensibilità, un’espressività che riempiono letteralmente il fotogramma e sembrano quasi diradarsi a tutto ciò che è lambito dalle immagini. Un effetto, quest'ultimo, senza dubbio impossibile da costruire a priori ed altrimenti.
Io capitano è pertanto anche un film di recitazione (della cui sincerità e naturalezza potrete tutti godere, in quanto la pellicola verrà distribuita soltanto in versione originale sottotitolata, ndr), di massima coincidenza tra finzione e realtà, oltre che di metabolizzazione (da parte di Sarr e Fall) dei loro traumi.
Un film nella cui esecuzione, l’occhio garroniano si cela e fa trasportare quasi del tutto da chi gli si trova di fronte, dalle tante storie che compongono ed ispirano questo viaggio in cui entra con il rispetto, il rigore e la capacità sintetica di un maestro, e che segue, mette in scena, ricostruisce e riprende senza virtuosismi od eccessi stilistici, in maniera metodica e attenta, ponendosi ogni volta alla distanza più corretta.
Ciò nondimeno, la presenza - come anticipato sopra - di una voce autoriale, di una verità filmica e, in particolare, di una sceneggiatura solidissima (scritta dallo stesso Garrone insieme ai sodali Massimo Gaudioso, Massimo Ceccherini ed Andrea Tagliaferri) è sempre palpabile e alfine decisiva. Senza contare i numerosi dettagli e le innumerevoli scelte (come il modo in cui i due giovani senegalesi vengono a contatto con l’immagine - mediatica e preconfezionata - dell’Europa e dell’Italia), si pensi soprattutto alla trasfigurazione dell’odissea di Seydou e Moussa attraverso codici, registro ed inserti onirici e fiabeschi.
In un certo senso, possiamo infatti considerare Io capitano come un'opera profondamente collodiana. Una sorta di sintesi della lezione di Gomorra e del leggendario mondo di Pinocchio. Seydou è, a modo suo, un Pinocchio dell’oggi, che, proprio come il burattino, parte “sconsideratamente” da una condizione di vita tutto sommato lieta e felice per crescere, imparare cosa significhi essere adulto (più che un bambino vero), come sia il mondo che lo circonda, ed assumersi sulle proprie spalle tutte le responsabilità che ne conseguono.
Tutto ciò, lo imparerà ovviamente a caro prezzo, durante questo viaggio in una terra di tutti e di nessuno, di (pochi) giusti e (moltissimi) farabutti, tra svariati Mangiafuoco, Lucignoli, Gatti e Volpi - che, a lungo andare, smetteranno pure la propria natura malevola e truffaldina -, alla volta del proverbiale Paese dei Balocchi.
Che è un luogo di illusione, di tentazione, di sogno, di sola fantasticheria, come insegnano le avventure di Pinocchio e come ci ricorda Matteo Garrone nella sequenza conclusiva. Un segmento, questo, quasi nel segno dei grandi tableaux collettivi e collettivizzanti di Théodore Géricault, che soltanto un regista del suo calibro, forte ed audace avrebbe potuto concepire e scegliere di mettere in scena. Un finale a cui, finito il tempo della finzione, Io capitano ci abbandona, chiudendo i propri occhi e spalancando i nostri su un quarto atto volontariamente reciso, che lo spettatore è chiamato a costruirsi con quel che è più agghiacciante, doloroso, spaventoso: la nostra immaginazione, la cronaca, la realtà.
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