TITOLO ORIGINALE: Adagio
USCITA ITALIA: 14 dicembre 2023
REGIA: Stefano Sollima
SCENEGGIATURA: Stefano Sollima, Stefano Bises
CON: Pierfrancesco Favino, Toni Servillo, Valerio Mastandrea, Adriano Giannini
GENERE: drammatico, noir
DURATA: 127 min
In concorso alla 80ª edizione della Mostra del Cinema di Venezia
Stefano Sollima torna nella sua Roma, in quella Roma a cui il suo cinema deve moltissimo, con Adagio, la definitiva prova di maturità della sua atipica carriera. Pierfrancesco Favino, Toni Servillo e Valerio Mastandrea sono i tre sublimi rappresentanti di un mondo al capolinea, ingaggiato in un'ultima corsa per la poesia di un amore sopito e la prosa di una redenzione tutt’altro che eroica e nobile. Per uno slow-burner in piena regola, elegante, ipnotico, da percorrere e scoprire tutto d’un fiato, dotato di una sceneggiatura rigorosa, asciutta e solidissima che sembra l’opera di un vecchio maestro del cinema.
La filmografia italiana di Stefano Sollima è sempre stata attratta e proiettata agli epiloghi. Suburra affrontava infatti l’eclissi, la caduta, la fine di una certa criminalità, sotto ettolitri d’acqua che annegavano la capitale. Di una vecchia criminalità, avvizzita, ormai irriconoscibile e preda dei propri fantasmi e delle proprie colpe, rinchiusasi nel proprio orticello di memorie ed ultimi affetti, lì ben esemplificata dal personaggio di Samurai interpretato da Claudio Amendola. In ACAB - All Cops Are Bastards invece si faceva i conti col crollo della percezione delle forze dell’ordine presso il tessuto socio-culturale della penisola, a seguito dei tragici e degradanti fatti del G8 di Genova, della Diaz e - seppur non citato apertamente - di Bolzaneto. La racconta, una fine, Adagio, l’ideale terzo ed ultimo capitolo e, per noi, magistrale sintesi di questa trilogia romana.
“L’ultima notte al mondo” è infatti la parola d’ordine per accedere ad un festino esclusivo a base di sesso e cocaina da cui prende il via tutto l’intreccio immaginato dai partner-in-crime Sollima e Stefano Bises (impegnati anche in veste produttori). Sull’oscurità della Capitale, all’orizzonte, si stagliano le fiamme e il fumo di un incendio, in quello che sembra un panorama davvero apocalittico, ma che in realtà è sempre stato parte della genetica e dello spazio capitolino (partendo da Nerone fino ad arrivare agli incendi che giusto l’anno scorso lo hanno letteralmente devastato). È la fine del mondo o magari solo la fine di un(!) mondo, per la poesia di un amore sopito e la prosa di una redenzione tutt’altro che eroica e nobile, ingaggiato in un'ultima corsa per una Roma che diventa un non-luogo puramente filmico.
Ad incarnarlo, questo mondo al capolinea, ci sono tre assoluti fuoriclasse del nostro cinema, a cui la pellicola, grazie all’assoluto talento di Sollima nella scrittura visiva (i personaggi vengono sempre caratterizzati attraverso la prossemica, la mimica, l’inflessione della voce, la loro posizione nello spazio filmico, la suggestione dell’immagine e della composizione), concedono ossigeno e margine di manovra per superare, andare oltre e smettere le proprie (all’apparenza) ineludibili maschere.
A primeggiare, è un irriconoscibile, ingobbito, disorientante, mostruoso ed insieme tenero, rachitico eppure muscolare Pierfrancesco Favino, (specie dopo il sempre veneziano Comandante) finalmente distrutto e ricostruito, in un ruolo che, ripensando a L’ultima notte di Amore, conferma la propria innata predisposizione ed esattezza per il filone noir. Toni Servillo non è da meno in una parte ambigua e caratteristica, che pare quasi una correzione ed un miglioramento di quel che fece ne L’uomo del labirinto di Donato Carrisi. A completare il trio, vi è infine un'ottimo Valerio Mastandrea nei panni di un personaggio enigmatico, inquietante, dai riecheggi quasi fantasy, co-protagonista di una delle tante, grandi sequenze del film, a metà tra Saw - L’enigmista e Sicario.
Loro tre sono i "non-morti" che - per via della forza di un legame che sembra andare indietro di secoli e sembra intarsiato nelle strade, nei muri, nel buio della città - vengono risvegliati e chiamati per andare incontro al proprio destino o, più concretamente, alla pericolosa disperazione e al cinismo di un manipolo di poliziotti corrotti capeggiati da un Adriano Giannini anch’egli destabilizzante che tiene in piedi la credibilità della pellicola e riesce, a suo modo, ad imporsi e a soddisfarne le ambizioni internazionali.
Che è uno slow-burner in piena regola, elegante, ipnotico, da percorrere e scoprire tutto d’un fiato, dotato di una sceneggiatura rigorosa, asciutta e solidissima che sembra l’opera di un vecchio maestro del cinema, di un'atmosfera invidiabile, e di una sintesi che invece denota una maturità espressiva da cui è davvero impossibile distogliere lo sguardo. Un Adagio vero e proprio che tende e distende le proprie corde al ritmo imprevedibile del blackout che impone agli abitanti di questa città - spinta verso l’ignoto, rischiarato con speranza utopica da chi rimane (una felicissima scoperta l’esordiente, giovane co-protagonista Gianmarco Franchini) - la luce e l’oscurità che celano dentro di sé.
O, più semplicemente, la definitiva prova di maturità di una delle voci più importanti del cinema italiano del nuovo millennio. E (quasi) tutto il resto è noia. Purtroppo.
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